La Chiesa oggi: da Benedetto XVI a Francesco
Due Pontificati tra progresso e continuità, con una rinnovata attenzione all’«altro» ed il confronto sui nuovi problemi da affrontare

Negli anni del suo Pontificato, Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła; proclamato Santo il 27 aprile 2014) aveva rivolto, tra l’altro, una particolare attenzione alla comunicazione nella Chiesa. Quest’ultima, nel pensiero del Papa, doveva concretizzarsi nel superamento di prassi diplomatiche, di rigidità protocollari, di comportamenti divenuti ormai astorici e – soprattutto – nella vicinanza spirituale e pastorale a ogni figlio di Dio. Sarà proprio tale linea innovativa a caratterizzare tre realtà-segno: 1) un superamento dell’auto-presentazione del Pontefice, 2) l’immediatezza nel rapporto con la gente, 3) la volontà di essere presente nella vita di un alto numero di comunità locali.


Tre realtà-segno

1) La nuova auto-presentazione. Per un lungo periodo di tempo, non fu consentito ai fedeli di avvicinare il Papa. In talune occasioni, si consentivano degli incontri. I presenti, comunque, dovevano rimanere a una dovuta distanza (sovente in ginocchio). Le stesse congregazioni religiose avevano l’obbligo di nominare un proprio Cardinale protettore per garantirsi una voce all’interno della Sede Apostolica. Era proibito diffondere notizie sulla salute del Vicario di Cristo. Esisteva quindi un «distacco». Un esempio lo conferma: Pio XII, nato a Roma, si rivolse ai professori e agli studenti dell’Università Romana «La Sapienza» usando l’espressione: la «vostra patria» (15 giugno 1952).

Anche Paolo VI, pur seguito dai media, cercò di rimanere in una posizione capace di non indulgere sul proprio vissuto emotivo. Con qualche eccezione (ad esempio l’omelia in occasione dei funerali dello statista Aldo Moro, 13 maggio 1978). In lui, il distacco dalla terra d’origine e dal proprio ambiente (che non rivide più) costituiva un esempio chiaro del non voler accentrare particolari attenzioni sulla propria persona. C’è da aggiungere che lo stesso uso del «noi» maiestatico rafforzava questo desiderio di restare quasi «in penombra».

Con Papa Wojtyla si è verificato un capovolgimento di prassi. Il Pontefice ha voluto parlare ai fedeli in prima persona. Molti aspetti (il proprio Paese, la personalità, il carattere, la storia giovanile) sono diventati di pubblico dominio. È mutato il rapporto tra le persone e il Papato. La Curia non è più l’organismo che si inserisce tra il popolo di Dio e il Vicario di Cristo. Il Pontefice si lascia intervistare. Firma libri pubblicati anche da editori non vaticani. Gli stessi ricoveri ospedalieri di Papa Wojtyla presso il policlinico «Gemelli», fino ai giorni dell’agonia, sono quasi seguiti in diretta dalle televisioni.

2) L’immediatezza nell’interazione con la gente. Nei contatti con i più diversi interlocutori, Giovanni Paolo II non volle accentuare le distanze. Sancì al contrario un forte avvicinamento: dai canti con migliaia di giovani (Giornate Mondiali della Gioventù) all’abbraccio con il rabbino di Roma (Elio Toaff, 1915-2015) avvenuto il 13 aprile 1986, dalle iniziative pastorali dell’Anno Santo della Redenzione (1983-1984) a quelle collegate all’istituzione della festa liturgica della Divina Misericordia (1992), dagli incontri con le folle in occasione delle proclamazioni di Santi (482) e Beati (1.338) al sostegno al sindacato autonomo dei lavoratori Solidarność, dagli appuntamenti informali con lo stesso Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini (1896-1990) ai pasti consumati con Vescovi e amici nell’appartamento vaticano.

3) Presenza nella vita delle Chiese locali. Papa Wojtyla, mentre da una parte confermò la dottrina della Chiesa con più documenti magisteriali (dalla teologia dogmatica alla pastorale delle famiglie), dall’altra non volle impostare un rapporto con i fedeli dei diversi continenti rimanendo in Vaticano. Realizzando, quindi, un’interazione «a distanza». Al contrario, volle raggiungere sia le comunità dei diversi Paesi (104 viaggi pastorali), sia quelle italiane, sia le stesse parrocchie della diocesi di Roma (ne conobbe 301). Fu il primo Pontefice a recarsi: nel Regno Unito (e a incontrare la Regina Elisabetta II), a Porto Rico (1984), a visitare (1999) un Paese a maggioranza ortodossa (la Romania) dopo lo scisma del 1054, a raggiungere la Grecia (dopo mille anni), a entrare in una moschea. Visitò a Damasco quella degli Omayyadi (6 maggio 2001). In tale occasione si tolse le scarpe e indossò fodere di cotone bianco.


Benedetto XVI

Il 2 aprile 2005, Giovanni Paolo passò dalla vita terrena alla Casa del Padre. Nel pomeriggio del 19 aprile 2005, il conclave elesse il Cardinale Joseph Aloisius Ratzinger (nato a Marktl, il 16 aprile 1927). Quest’ultimo, scelse il nome di «Benedetto XVI». Il suo Ministero Petrino si è sviluppato in un arco temporale che va dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. È stato il settimo Pontefice Tedesco nella storia della Chiesa Cattolica. Superando una propria, naturale riservatezza, ha saputo manifestare un’autentica paternità spirituale. Ha accettato di essere al centro di critiche, di valutazioni negative, di polemiche. Ha dimostrato di non tirarsi indietro davanti a scelte anche impopolari. Per un non breve periodo di tempo, non è mancato chi lo ha visto come un «carabiniere della Chiesa». Un’immagine «dura». Per alcuni alti ecclesiastici, e per determinati ambienti ecclesiali, egli doveva essere colui che eliminava ogni realtà negativa. Che colpiva. Puniva. Distruggeva il «male». Nel trascorrere degli anni questo insistere su una presunta «durezza» del Papa Tedesco si è sfocato perché diventava evidente l’orientamento e il modus operandi del Pontefice. Non «stravolgere» con l’ira. Non far «crollare» ogni cosa in modo inconsulto. Piuttosto: orientare verso tutto ciò che può costituire un bene per la Chiesa. Rafforzando l’intimità divina e i carismi presenti nell’unica Famiglia di Dio, è possibile sradicare l’operato di chi non lavora per il Padrone della Vigna, per l’Unico Maestro. In pratica: non basta una singola decisione per riparare tanti danni. Occorre una corresponsabilità a tutti i livelli, e un’azione condivisa.


La diaconìa della verità

Mentre San Giovanni Paolo II, tra gli apporti donati alla Chiesa, ha voluto offrire anche una spinta verso una comunicazione ecclesiale più vicina a quella delle origini (Gesù camminava lungo le strade, entrava nelle case, stava con i bambini…), il nuovo Papa, senza staccarsi dalla linea del predecessore (dottrina, culto, ecumenismo, 24 viaggi apostolici, Giornate Mondiali della Gioventù…), di cui era stato uno stretto collaboratore (prefetto della congregazione per la dottrina della fede), ha voluto trasmettere ai fedeli, nell’ambito di più contributi, anche un insegnamento mirato a riscoprire e a valorizzare le ragioni della fede (confronta anche il Discorso del 12 settembre 2008, Parigi, Collegio dei Bernardini). Si è trattato di una diaconìa della verità.


Vita di fede e valorizzazione della ragione

1) Tale diaconìa si è articolata seguendo tre affermazioni-guida dalle quali sono derivate più indicazioni operative:

– la «verità» evangelica deve – prima di tutto – essere spiegata. Resa comprensibile. Così da diventare una strada che conduce a Dio (confronta anche il Discorso del 20 giugno 2008 agli operatori delle radio cattoliche);

– la «verità» evangelica deve illuminare il cammino di fede di ogni Cristiano. In tal senso rimane significativa un’affermazione di Papa Ratzinger: «Se la Verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore» (messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2010);

– la «verità evangelica» getta luce dove è buio. Sia quando si tratta del buio dell’ignoranza, della scarsa preparazione, del proprio orgoglio (legato a una posizione di auto-sufficienza). Sia quando si tratta delle tenebre della contro-testimonianza e dei peccati più ignominiosi.


Le risposte al pensiero debole

2) La diaconìa della verità è servita, poi, a Papa Ratzinger per sviluppare una serie di considerazioni che tengono conto di talune correnti di pensiero. In quest’ultimi orientamenti si ritrovano anche elementi segnati da limiti, da condizionamenti, da un’attenzione che guarda all’immanente, al transitorio. In tal modo, ci si allontana da una riflessione sulla trascendenza. Si tratta del soggettivismo (etico), del relativismo (etico, religioso), del sincretismo (religioso), del positivismo. Su quest’ultimo un riferimento-chiave rimane il discorso del Pontefice ai membri del Parlamento Federale Tedesco (22 settembre 2011). Sul sincretismo religioso, Benedetto XVI tornò a riflettere anche il 21 ottobre 2014 (Discorso agli studenti della Pontificia Università Urbaniana).


La purificazione della vita ecclesiale

3) Il servizio alla Verità di Benedetto XVI ha pure comportato un’azione di purificazione della vita ecclesiale (contro-testimonianze, infedeltà, reati di pedofilia). Si collocano qui una serie di decisioni dolorose. Tra queste, a titolo esemplificativo, si può ricordare il provvedimento disciplinare (pedofilia e altri reati) adottato nei confronti del fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo: Padre Marcial Maciel Degollado (1920-2008). Ed è difficile, poi, dimenticare la Lettera pastorale indirizzata ai fedeli cattolici irlandesi con riferimento allo scandalo della pedofilia (20 marzo 2010). Nel testo, Benedetto XVI si rivolge ai sacerdoti e ai religiosi in questi termini: «Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio Onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente dell’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Quelli di voi che siete sacerdoti avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa e alla pubblica percezione del sacerdozio e della vita religiosa».


Una verità che rende liberi

4) In tale contesto, Benedetto XVI, pur affrontando continue e dolorose salite, ha dimostrato di essere:

– il Papa del dialogo: il suo magistero si presenta articolato, chiaro, segnato da un desiderio di convincere l’interlocutore senza imporre il proprio punto di vista;

– un Capo che non stravolge l’operato dei suoi predecessori: lo si è visto, ad esempio, con riferimento alla riforma liturgica, allo «spirito di Assisi» (interazione tra le diverse religioni), ai nuovi movimenti ecclesiali;

– una persona che tiene aperte le porte della Chiesa: lo ha dimostrato anche nel difficile caso dei seguaci dell’Arcivescovo scomunicato Marcel Lefebvre (1905-1991);

– un Pontefice non tradizionalista: basti osservare lo spessore teologico e culturale del suo pensiero;

– un umile servitore della Vigna: Benedetto XVI è arrivato a scrivere in prima persona (12 marzo 2009) una Lettera ai Vescovi di tutto il mondo per spiegare che cosa era successo con riferimento alla remissione della scomunica ai lefevbriani. Tra quest’ultimi, c’era pure il Vescovo Richard Nelson Williamson (nato nel 1940; espulso anche dai lefevbriani).


Identità cristiana e mutamenti epocali

5) In questa diaconìa della verità Papa Ratzinger ha desiderato rivolgere anche una particolare attenzione: al fenomeno della secolarizzazione, ai mutamenti che segnano la vita dell’Occidente, all’esigenza di non cancellare quanto costituisce l’identità cristiana dell’Europa.


Processi di secolarizzazione

Su tale realtà il Pontefice è intervenuto, tra l’altro, l’8 marzo 2008: «La secolarizzazione, che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell’umanità senza riferimento alla Trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale.

La “morte di Dio” annunciata, nei decenni passati, da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. In questo contesto culturale, c’è il rischio di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, caratterizzati talvolta da forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo. Si rivela quanto mai urgente reagire a simile deriva mediante il richiamo dei valori alti dell’esistenza, che danno senso alla vita e possono appagare l’inquietudine del cuore umano alla ricerca della felicità: la dignità della persona umana e la sua libertà, l’uguaglianza tra tutti gli uomini, il senso della vita e della morte e di ciò che ci attende dopo la conclusione dell’esistenza terrena» (Discorso ai partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura).


Mutamenti in Occidente

Sui cambiamenti in atto nel mondo occidentale, Benedetto XVI ha costantemente confermato quanto aveva detto il 13 maggio 2004 (era in quel momento prefetto della congregazione per la dottrina della fede): «L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai valori propri. Essa sicuramente non può sussistere senza rispetto di ciò che è sacro. Di essa fa parte l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso – del Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano che Egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza» (Lectio magistralis, Senato Italiano).


L’identità cristiana dell’Europa

Su questo punto, Benedetto XVI ha evidenziato delle sottolineature che si ritrovano pure nei documenti del suo magistero: «Il problema dell’Europa di trovare la sua identità mi sembra consistere nel fatto che in Europa oggi abbiamo due anime: un’anima è una ragione astratta, anti-storica, che intende dominare tutto perché si sente sopra tutte le culture. Una ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità. La prima sentenza di Strasburgo sul Crocifisso era un esempio di questa ragione astratta che vuole emanciparsi da tutte le tradizioni, dalla storia stessa. Ma così non si può vivere. Per di più, anche la “ragione pura” è condizionata da una determinata situazione storica, e solo in questo senso può esistere. L’altra anima è quella che possiamo chiamare cristiana, che si apre a tutto quello che è ragionevole, che ha essa stessa creato l’audacia della ragione e la libertà di una ragione critica, ma rimane ancorata alle radici che hanno dato origine a questa Europa, che l’hanno costruita nei grandi valori, nelle grandi intuizioni, nella visione della fede cristiana.

[…] soprattutto nel dialogo ecumenico tra Chiesa Cattolica, ortodossa, protestante, quest’anima deve trovare una comune espressione e deve poi incontrarsi con questa ragione astratta, cioè accettare e conservare la libertà critica della ragione rispetto a tutto quello che può fare e ha fatto, ma praticarla, concretizzarla nel fondamento, nella coesione con i grandi valori che ci ha dato il Cristianesimo. Solo in questa sintesi l’Europa può avere il suo peso nel dialogo interculturale dell’umanità di oggi e di domani, perché una ragione che si è emancipata da tutte le culture non può entrare in un dialogo interculturale. Solo una ragione che ha un’identità storica e morale può anche parlare con gli altri, cercare una interculturalità nella quale tutti possono entrare e trovare una unità fondamentale dei valori che possono aprire le strade al futuro, a un nuovo umanesimo, che deve essere il nostro scopo. E per noi questo umanesimo cresce proprio dalla grande idea dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio» (intervista riportata dal «Bollettino della Sala Stampa Vaticana», 16 ottobre 2010, riferita al film Bells of Europe – Campane d’Europa).


L’atto di verità, di carità, di coraggio

Nel concistoro ordinario dell’11 febbraio 2013, Benedetto XVI, dopo una profonda e non facile riflessione, ha reso nota la sua rinuncia «al Ministero di Vescovo di Roma, successore di San Pietro». La sede vacante ha avuto inizio dalle ore 20 del 28 dello stesso mese. Nella storia della Chiesa è l’ottavo Pontefice a rinunciare al Ministero Petrino, se si considerano i casi di Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII, di cui si hanno fonti storiche certe o molto attendibili. Benedetto è diventato: «Papa emerito».

Perché si è arrivati a una decisione così importante? Per gli osservatori meno attenti la risposta è da trovare in una serie di pesanti accadimenti negativi. Si è fatto riferimento, ad esempio, ai drammi collegati ai casi di pedofilia in Irlanda, USA, Austria, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Spagna, Regno Unito, Francia e Malta. Altre voci hanno voluto insistere sullo scandalo legato al trafugamento di carte vaticane riservate (il cosiddetto Vaticanleaks, da cui è derivato un processo). Si è pure scritto in merito a realtà riferibili a prelati omosessuali, a criticità legate al movimento lefebvriano, a vicende non chiare dello I.O.R. (Istituto per le Opere di Religione), a conflittualità tra alti ecclesiastici, a debolezze nel sistema di funzionamento degli organismi vaticani, incominciando dalla Segreteria di Stato.

La realtà, nel tempo, si è dimostrata più semplice e più complessa. Più semplice: perché Benedetto XVI, davanti a una molteplicità di situazioni delicate e impegnative, si era reso conto dei propri limiti fisici. Avvertiva di non essere più in grado di affrontare impegni particolarmente gravosi (per esempio, viaggi apostolici in tutto il mondo). Più complessa: perché il Papa voleva evitare il ripetersi di alcune situazioni che si erano create a causa del decadimento fisico di San Giovanni Paolo II (specie nella fase terminale della malattia). In tale vicenda, l’allora prefetto Ratzinger era stato testimone di iniziative di alti prelati che, stante la difficile situazione di vertice, avevano adottato, senza controlli, delle linee decisionali sulle quali, in seguito, saranno in molti ad esprimere riserve. Il codice di diritto canonico, comunque, stabilisce che una rinuncia al Pontificato deve avvenire in piena lucidità. Per tale motivo, Benedetto XVI ha voluto concretizzare la propria risoluzione in un momento nel quale nessuno poteva contestargli una diminuzione di lucidità mentale. Le dimissioni del Pontefice hanno costituito, in definitiva, un atto: 1) di verità, 2) di carità e 3) di coraggio.

1) Un atto di verità. Al riguardo, un brano della Lettera Enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009) appare segnato da connotati autobiografici. È il punto nel quale il Papa scrive della «presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo e non noi. Noi gli presteremo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché egli ce ne dà le forze. Fare però quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo…» («I responsabili dell’azione caritativa della Chiesa»; confronta il numero 35).

2) Un atto di carità. Tra la propria persona e la «salus animarum», Benedetto XVI ha scelto quest’ultima. Non ha indietreggiato. Non ha temporeggiato. Non si è nascosto dietro collaboratori. Ha permesso piuttosto un rinnovamento che necessitava di decisioni e di immediatezza. Egli è restato al suo posto con un compito diverso. Vivere una spiritualità offertoriale, oblativa. Rimanendo unito in preghiera con il nuovo Papa.

3) Un atto di coraggio. Il Pontefice sapeva che la sua scelta avrebbe colto di sorpresa molte persone. E aveva previsto che in taluni ambienti qualcuno non avrebbe compreso il suo gesto. Lo avrebbe criticato. Disapprovato. Anche in modo duro. Malgrado ciò, ha voluto compiere ugualmente un passo difficile. Per un principio di fedeltà al suo mandato. In tal modo ha dimostrato che il vero coraggio non proviene dall’impulsività, dall’emotività, ma deriva dall’intelligenza, dalla volontà e dall’amore.


Papa Francesco

Il 13 marzo 2012, il nuovo Conclave ha eletto il successore di Benedetto XVI. Papa Francesco (l’Argentino Jorge Mario Bergoglio) è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936. Membro dei Chierici Regolari della Compagnia di Gesù (Gesuiti), è il primo Pontefice di questo Ordine religioso, nonché il primo Successore di Pietro che proviene dal continente americano. Da una parte, ha fatto propria l’eredità di San Giovanni Paolo II (la diaconìa della comunicazione, intesa come rendere l’altro partecipe della novità cristiana, della letizia spirituale) e quella di Benedetto XVI (la diaconìa della verità, intesa come una comprensione delle fonti cristiane per poter meglio affrontare le criticità dell’oggi di Dio). Dall’altra, ha inteso spingere verso un rinnovato modus operandi, entrando nell’umanità di ogni persona con: 1) l’immediatezza del fratello, 2) la volontà di percorrere un cammino comune, 3) la consapevolezza che il Papa deve operare guardando alla realtà universale della Chiesa, lasciando a ogni Conferenza Episcopale il compito di affrontare le diverse problematiche locali.


L’immediatezza del fratello

1) Prima di tutto l’incontro personale, la manifestazione concreta di vicinanza e di prossimità con il gesto dell’abbraccio e della stretta di mano, la conversazione franca e amichevole a tu per tu con l’interlocutore: i segni di un ponte che viene gettato, di una distanza colmata. Tutto il resto – le convergenze su carta, le fasi attuative – verrà in seguito. E anche le commissioni teologiche, gli uffici diplomatici, le relazioni interconfessionali dovranno tener conto di questo nuovo stile operativo.


La volontà di percorrere un cammino comune

2) I fratelli, prima s’incontrano, poi affrontano le situazioni difficili. Questo punto il Pontefice lo ha ripetuto il 12 febbraio 2016, durante il volo che lo portava dall’Avana a Città del Messico. In precedenza, era avvenuto lo storico incontro nella capitale cubana con il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill (nato nel 1946), primo abbraccio della storia tra un Papa Romano e un Capo della Chiesa ortodossa russa. In quel volo dall’Avana al Messico, il nuovo Successore di Pietro disse ai giornalisti: «L’unità si fa camminando. Una volta io ho detto che se l’unità si fa nello studio, studiando la teologia e il resto, forse verrà il Signore e ancora noi staremo facendo l’unità. L’unità si fa camminando, camminando: che almeno il Signore, quando verrà, ci trovi camminando». Con questa logica, l’agenda di Papa Bergoglio è divenuta ricca di momenti storici: Kirill di Mosca, comunità luterane (Svezia), mondo islamico (Università di Al-Azhar)… Tutto questo è importante. Ma non sono da dimenticare ulteriori apporti: il sostegno al dialogo USA-CUBA, l’aiuto a facilitare la pace in Colombia, il discorso al Congresso USA (Washington) e all’Assemblea dell’O.N.U. (New York).


Il Pontefice, padre di tutti

3) Il Vicario di Cristo deve operare guardando alla realtà universale della Chiesa. Papa Francesco ha chiarito che se esistono problemi nelle Chiese locali questi devono essere affrontati dai Vescovi locali, riuniti nella Conferenza Nazionale. Tale posizione ha avuto due obiettivi:

– da una parte, quello di svincolarlo da vicende che nascono in un dato territorio e che devono essere affrontate dai responsabili delle diocesi di quel Paese;

– dall’altra, una maggiore libertà operativa per affrontare situazioni complesse: dalle riforme interne (Curia, I.O.R., codice penale vaticano, riforma economica della Santa Sede) fino a realtà sociali particolarmente significative. Si colloca qui, ad esempio, l’insegnamento sull’esistenza di una «Terza Guerra Mondiale» che si presenta «a pezzi» (distribuita cioè nel pianeta in modo frammentato), l’attenzione all’emergenza globale delle migrazioni, la ferma avversione alla cosiddetta «cultura dello scarto» (emarginazioni, sfruttamenti, morti evitabili), l’allarme per i mutamenti climatici e per la distruzione del pianeta da parte dell’uomo stesso (Lettera Enciclica Laudato si’, 24 maggio 2015).


Il Volto di Dio Misericordia e i volti della misericordia

Le scelte di Papa Francesco, se da una parte riprendono i temi dei suoi predecessori, dall’altra vi innestano ulteriore linfa ove il «nuovo» non coincide con un semplice «mutamento» ma con una spiritualità che genera e rafforza le espressioni dell’amore missionario e operaio. È in questo contesto che si colloca la riflessione su Dio Misericordia. Tale insegnamento ha avuto un tempo di grazia nell’Anno Santo straordinario (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016), indetto con la Bolla Misericordiae Vultus.

Perché il Pontefice ha inteso riprendere un tema già affrontato da San Giovanni Paolo II (ad esempio, Lettera Enciclica Dives in Misericordia, 30 novembre 1980), e in seguito anche da Benedetto XVI (ad esempio domenica 30 marzo 2008)?

La risposta più immediata è che l’opera misericordiosa di Dio attraversa l’intera Storia della Salvezza. Esiste, poi, una considerazione più vicina ai nostri tempi. Papa Francesco si è incamminato in anni ove le lacerazioni nel mondo sono in progressivo aumento. Le iniziative politiche si dimostrano fragili. Gli organismi internazionali paiono paralizzati. Le persone fragili, deboli, «a rischio», continuano ad avere voci afone o apertamente soffocate. In tale contesto, il Pontefice indica ai fedeli l’esodo del cuore: la strada della misericordia. Lo fa puntualizzando tre aspetti: 1) superare gli equivoci sulla misericordia, 2) vivere la misericordia, 3) costruire progetti di misericordia.


Gli equivoci sulla misericordia

1) In taluni ambienti la misericordia è considerata buonismo. Segno di debolezza. Incapacità a percorrere strade più risolutive. Rifugio «ascetico». Ostentata benevolenza. Aperta ingiustizia. Tale contesto ha generato una presa di distanza di molte persone dall’insegnamento sulla misericordia. Esiste, in realtà, un equivoco di fondo. La misericordia divina non è generata da una logica di mero riequilibrio mirato al «recupero» di anime in pena. Piuttosto, è una proposta di «inversione di rotta». Dio stesso, nella sua auto-rivelazione, chiede alle creature umane di lasciare le decisioni di guerra, di rovina, di alienazione, e di passare a una linea ove è il cuore (cioè la persona nella sua realtà più intima) a condividere la sofferenza dell’altro («misereor» = «ho pietà» e «cor- cordis» = «cuore»). Quindi la misericordia non è una posizione intimistica, precaria. Ma è una scelta forte. Perché si decide. Per la pace. Per la ricomposizione di fratture. Per una difesa ad oltranza della dignità umana.


Vivere la misericordia

2) Se la misericordia implica contemporaneamente una scelta personale e sociale, una «battaglia» per ridare un volto, un’identità, a tutto quanto è bollato come «non vita», allora si deve passare dall’occasionalità dell’atto «benefico» alla quotidianità di una condivisione. Si colloca qui il lungo elenco delle manifestazioni di vicinanza di Papa Bergoglio verso: soggetti senza fissa dimora, reclusi, profughi, malati, disabili, tossicodipendenti, donne salvate da sfruttatori violenti, ma anche verso bambini, sposi, operatori umanitari, anziani…


Costruire progetti di misericordia

3) In tale contesto, esiste anche un ulteriore aspetto-chiave. Se la misericordia segna il passaggio dalla posizione attendista (l’altro è un estraneo) a quella operativa (corresponsabilità), allora la fase che completa un processo di «conversione» non può che essere un mutamento delle situazioni che rovinano tutto ciò che Dio ha creato, incominciando dall’essere umano. In tal senso, Papa Francesco si è rivolto (e si rivolge) a tutti coloro che sono membra vive delle Chiese locali, ma guarda pure a chi governa. A chi è responsabile della «res publica». Anche i capi religiosi possono svolgere un ruolo molto importante per promuovere libertà, giustizia e promozione sociale. Si collocano qui – ad esempio – sia le indicazioni contenute nell’Esortazione Apostolica post sinodale Amoris Laetitia del 19 marzo 2016 (confronta ad esempio il capitolo 6: «Alcune prospettive pastorali»; il capitolo 8: «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità»), sia il discorso pronunciato davanti ai membri del Congresso USA il 24 settembre 2015 («Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico»; «proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo»; «non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà»; «essere al servizio del dialogo e della pace significa anche essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai molti conflitti armati in tutto il mondo»).

(dicembre 2016)

Tag: Pier Luigi Guiducci, Chiesa oggi, Benedetto XVI, Francesco, Giovanni Paolo II, Karol Józef Wojtyła, Joseph Aloisius Ratzinger, identità cristiana dell’Europa, Jorge Mario Bergoglio, giubileo della misericordia, lineamenti della Chiesa contemporanea, diaconìa della verità.