Il volto demoniaco del potere
Riflessioni sulle origini e sugli effetti a lungo termine della grande tragedia storica compiutasi contro la millenaria italianità di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia

Il volto demoniaco del potere teorizzato dalla scienza politica del Novecento, con particolare riguardo al pensiero dello storico tedesco Gerhard Ritter[1] dedicato, per l’appunto, alle moderne degenerazioni del sistema, si è tradotto in una vicenda che, come nel caso esemplare di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, ha assunto aspetti paradossali, ma non per questo meno concreti e generalmente drammatici. La ragione di Stato si è inserita con forza inusitata nelle vicissitudini del XX secolo, caratterizzato da grandi tragedie collettive, improntate a dimensioni bibliche, con un ruolo importante ma nello stesso tempo con aspetti contraddittori, indotti dall’irrazionalismo e dalla negazione del fattore umano, pur nella centralità che gli deriva, specialmente in Europa, da una consolidata tradizione cristiana.

Del resto, Thomas Hobbes, già da tre secoli, aveva teorizzato l’immagine di uno stato di natura in cui, proprio per la «sconfinata liberà dei singoli» si attua l’idea di un «homo homini lupus» in opposizione alla teoria contemporanea di Grozio e degli altri seguaci del diritto naturale secondo cui il fondamento di tale diritto andrebbe ricercato nel «desiderio normale dell’individuo di vivere in società con gli altri», salvo indulgere al compromesso dell’assolutismo illuminato, piuttosto che a quello di un assolutismo «tout court» come quello dello stesso Hobbes[2] a cui lo stesso Gerhard Ritter aveva fatto riferimento quando gli contrappose una vera e propria Utopia, tanto irraggiungibile quanto auspicabile: quella di Tommaso Moro.

Il Novecento, anche per il popolo giuliano e dalmata, si era aperto all’insegna di grandi speranze, sostenute con vigore dall’irredentismo, in un quadro di aperture sociali e democratiche culminate nella conquista del suffragio universale maschile e nella consapevolezza di una vocazione universale della Terza Roma che, alla lunga, non avrebbe potuto coniugarsi con le ricorrenti suggestioni conservatrici, se non anche reazionarie, tipiche della Triplice Alleanza. Del resto, proprio alla fine del secolo precedente, i cannoni di Fiorenzo Bava Beccaris, che avevano sparato sulla folla milanese, colpevole soltanto di chiedere pane, avevano dimostrato che era necessario come non mai cambiare registro, abbandonando il vecchio trasformismo e, soprattutto, operando alla luce di autentici valori umani e civili.

La Grande Guerra, che pure il Santo Padre Benedetto XV aveva definito un’«inutile strage», parve chiudersi con una palingenesi finalmente liberatoria che in Italia ebbe una sorta di momento magico nel sole di Vittorio Veneto e nella liberazione di Trieste e di Trento. Tuttavia, le delusioni rivenienti dalla Conferenza della pace, con la Dalmazia rimasta irredenta nonostante gli impegni assunti nel 1915 col Patto di Londra tra Italia e Alleati, innescarono una spirale di eventi che avrebbero indotto tragedie superiori a quelle già strazianti, conclusive dell’Ottocento, culminate nei citati fatti di Milano (1898) e nel disastro coloniale di Adua (1896).

Il Natale di Sangue nella Fiume irredenta del 1920, voluto dal Governo di Giovanni Giolitti in una sorta di guerra civile davvero fratricida, fu la dimostrazione di una svolta incapace di tenere nel giusto conto le attese popolari avallate dalle grandi aperture sociali di una Costituzione particolarmente avanzata, quale fu la Carta del Carnaro di Alceste de Ambris, poi riveduta dal Comandante Gabriele d’Annunzio.

Se non altro per il forte supporto che ottenne nel mondo dei combattenti reduci dal fronte, coartati nelle proprie attese e offesi dall’oltraggioso comportamento che la sinistra aveva assunto nei loro confronti, il fascismo ebbe modo di conseguire un’affermazione quasi scontata, anche se alla fine sarebbe stata catafratta dal disastro della Seconda Guerra Mondiale: dopo quello che aveva travolto Napoleone, ecco un nuovo esempio di caduta dall’altare alla polvere, e di un crepuscolo con rinnovati caratteri wagneriani.

In Istria come a Zara, parve aprirsi un’epoca in cui le speranze avrebbero potuto e dovuto tradursi in realtà, grazie alle provvidenze socio-economiche cui si unirono interventi specifici come la realizzazione di infrastrutture fondamentali, a cominciare dal grande acquedotto istriano e dalle nuove città di fondazione sorte, fra le 147 di tutta l’Italia, anche ad Arsia, Pozzo Littorio e Torviscosa, a supporto di uno sviluppo industriale straordinario anche per gli effetti occupazionali.

Eppure, l’opposizione del mondo slavo, le cui minoranze, soprattutto all’interno dell’Istria, avevano assunto consistenza e pretese ragguardevoli, non seppe o non volle avvalersi delle potenzialità progressiste che col nuovo corso si andavano aprendo, e scelse di arroccarsi nella torre d’avorio di un nazionalismo esaltato dalla cosiddetta «italianizzazione forzata» fino a sboccare nei conati terroristi (con diverse vittime) da cui sarebbero scaturite le condanne a morte di Vladimir Gortan, nel 1929, e poco dopo, dei cosiddetti «Quattro di Basovizza»: le sole pronunciate fra il 1922 e il 1940 a carico dei cittadini italiani di etnia slava.

Nella seconda metà degli anni Trenta, grazie al nuovo regime jugoslavo e alla disponibilità italiana che aveva finito per ignorare le attese «dalmatiche» di riscatto, tuttora vive dopo l’esodo «dimenticato» del 1919 e seguenti, il clima fu caratterizzato da un notevole miglioramento, grazie al Patto di collaborazione del 1937 stipulato dal Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano e dal Presidente Milan Stojadinovic, poi tradottosi in una vera e propria alleanza: quella che nell’aprile del 1941, a seguito del colpo di Stato e dell’improvviso voltafaccia di Belgrado, avrebbe costretto l’Asse a occupare militarmente la Jugoslavia per evidenti esigenze strategiche nell’ambito di un conflitto che ormai era in essere da 18 mesi e in cui l’Italia era scesa nel 1940, con una scelta opinabile, in primo luogo alla luce di una forte impreparazione militare, ma nello stesso tempo, a quella di alleanze che, per l’appunto, il ricordo glorioso di Vittorio Veneto non rendeva molto popolari.

La Seconda Guerra Mondiale è l’esempio di una svolta storica in cui la stessa ragione di Stato fu travolta dall’irrazionalismo e dalla negazione di un sistema politico e sociale fondato su valori generalmente condivisi anche in Istria, a Fiume e in Dalmazia. Nel frattempo, la sovranità italiana era stata estesa anche a quest’ultima, quale effetto del conflitto scoppiato fra la Jugoslavia e gli Stati dell’Asse a seguito del citato colpo di Stato con cui Belgrado decise improvvisamente di cambiare campo. Le conseguenze di tale atto, che aveva avuto il supporto degli Alleati Occidentali, in primo luogo britannico, furono tragiche, se non altro per il numero delle vittime che alla fine fu per lo meno triplo rispetto a quello del resto d’Italia, nel rapporto con la popolazione residente. Ciò, alla stregua di una vicenda allucinante come quella delle Foibe e degli altri massacri indiscriminati, in cui scomparvero, come da pertinenti valutazioni di Luigi Papo, almeno 16.500 Italiani[3] assieme a tanti Slavi (cetnici, domobranci, ustascia) oppositori del nuovo regime, che aveva pianificato la pulizia etnica e politica come sistema indiscriminato di governo a danno di ogni opposizione.

Su questa pagina di Storia si è scritto e dibattuto molto, in specie dopo l’avvento della Legge 30 marzo 2004 numero 92 che ha istituito il «Giorno del Ricordo»[4]. Col passare del tempo, la tesi negazionista è stata sostanzialmente esorcizzata, di fronte all’evidenza dei fatti e alla proliferazione delle testimonianze, tutte concordi nel sottolineare la particolare efferatezza di uno strumento di morte come la precipitazione in foiba, che non è azzardato definire primordiale (ma diverse altre non furono oggettivamente da meno).

Restano, al contrario, sacche di singolare pervicacia nella cospicua storiografia che tende a «giustificare» le Foibe, e quindi l’Esodo, alla luce di quanto sarebbe accaduto durante il periodo fascista a danno di Sloveni e Croati: tesi senza dubbio opinabile, perché durante il Ventennio ai provvedimenti di «italianizzazione» – in specie nel campo della cultura e dell’informazione – conformi al «Volksgeist» europeo o meglio mondiale dell’epoca, fecero seguito condanne a pene capitali (comuni anche in Occidente) nei soli casi di terrorismo, di cui si diceva.

Ne trasse origine un «vulnus» certamente drammatico nella tragedia delle Foibe e nella lunga odissea dei profughi, eticamente imprescrittibile; ma non meno violento nel disegno di rimozione, perseguito per tanti decenni dalla politica italiana, con responsabilità originarie della sinistra, interessata ad avallare la «vulgata» della liberazione, sia pure caratterizzata da qualche improvvido «eccesso»; ma nello stesso tempo, con responsabilità successive non meno importanti a carico delle forze di Governo, condizionate dalla subalternità nei confronti degli Alleati, a cominciare da Stati Uniti d’America e Gran Bretagna; e quindi, da una conseguente necessità di riconoscere nel Maresciallo Tito il campione dei tanti non allineati, e del cosiddetto «comunismo nazionale» ostile al verbo sovietico di Mosca ma pur sempre capace di consegnare a un personaggio come Janos Kadar – e alle forche di Budapest – i patrioti che nel 1956 si erano imprudentemente rifugiati nell’Ambasciata Jugoslava di Belgrado per sfuggire alla vendetta sovietica.

Queste responsabilità devono essere denunciate con chiarezza, senza condizionamenti dubitativi o avversativi, sia nelle matrici politiche sia nelle correlazioni etiche, economiche e giuridiche, tanto più che il paradosso cui si accennava ha trovato un’esemplificazione particolarmente sconcertante proprio nell’Italia del Novecento col trattato di Osimo (1975) non a caso definito «surreale» perché non era mai accaduto che uno Stato degno di questo nome cedesse ad altri una parte del proprio territorio, senza motivazioni che non fossero quelle della «cupidigia di servilismo» o peggio, delle opportunità commerciali a favore di alcuni potentati industriali e finanziari.

Nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che nel 1947 l’Italia abbia «restituito» alla Jugoslavia terre che erano state sue, alla stregua di quanto fu affermato in qualche testo scolastico: se non altro, il «Giorno del Ricordo» ha posto le basi di una consapevolezza storica più matura, anche a proposito dei permanenti diritti degli Esuli, a cominciare dalla tutela delle tombe italiane nei 300 cimiteri trasferiti sotto l’altrui sovranità, per finire alla restituzione dei beni materiali. Del resto, anche a quest’ultimo proposito, le attese del mondo esule sono state definitivamente catafratte da una sentenza della Suprema Corte di Cassazione[5] con cui si è statuito il carattere meramente «liberale» delle poche erogazioni già intervenute storicamente, con esclusione di ogni specifico diritto primario: è pleonastico aggiungere che con tale pronuncia sono state vanificate le speranze di vera giustizia provenienti da una realtà oggettiva come quella del grande Esodo e delle persecuzioni indiscriminate, ma prima ancora, da un ampio numero di provvedimenti legislativi già assunti in precedenza con la motivazione prioritaria del risarcimento e confermati da sentenze della giurisdizione ordinaria.

Molto si è scritto sull’Esodo, sulle Foibe e sui diritti negati, ma la meta di una vera Giustizia, idonea a trascendere il volto demoniaco del potere di cui in premessa, è ancora lontana. Proprio per questo, occorre che la memoria storica sia supportata dall’azione politica e dalla capacità, come da parola di Benedetto Croce, di «spostare la linea del possibile» grazie a un impegno che, accantonata ogni velleità di reazioni anacronistiche, e combattendo le degenerazioni di cui si diceva, voglia perseguire obiettivi conformi alla tradizione cristiana del popolo giuliano, istriano e dalmata, per non dire di quello italiano nella sua globalità, e della loro perenne scelta civile e morale.


Note

1 Confronta Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Società Editrice Il Mulino, terza edizione, Bologna 1971, 244 pagine. L’opera, partendo dalla genesi rinascimentale dello Stato moderno, ne analizza le vicende salienti da Machiavelli in poi, per finire con la Seconda Guerra Mondiale: sempre all’insegna critica di un potere deviante dall’antica logica di un’azione politica intesa come «arte di operare nella vita associata per il bene comune»; e nello stesso tempo, nell’ambito di un’opera storiografica volta prioritariamente non già a pur motivate polemiche, ma alla comprensione dei fatti, delle idee, e delle loro motivazioni primigenie. Lo storico tedesco in questione (1888-1977) è stato un importante interprete del Segretario Fiorentino e di Friedrich Meinecke, nell’ambito di una fertile attività storiografica e dell’insegnamento nelle Università di Monaco, Lipsia, Berlino e Heidelberg. Nel 1944 fu arrestato dalla Gestapo a causa delle sue simpatie per il gruppo cattolico di Karl Goerdeler e Dietrich Bonhoeffer, e liberato nell’anno successivo, contestualmente alla caduta del nazismo; tra le sue opere più note, disponibili anche nella traduzione italiana, a quest’ultimo riguardo si veda: I cospiratori del 20 luglio 1944, Einaudi, Torino 1960.

2 La celebre definizione di Thomas Hobbes si richiama prioritariamente al suo De cive (1642) ugualmente reperibile nella moderna traduzione italiana di Norberto Bobbio. Ciò, sebbene il volume che avrebbe dato maggiore notorietà al pensatore inglese, fra i tanti, sia il più conosciuto Leviathan (1651) quale fucina di un «rigoroso materialismo meccanicistico» (confronta Giuseppe Faggin, Thomas Hobbes, in «Dizionario di Filosofia», Edizioni di Comunità, Milano 1957, pagine 145-146). Pur essendo improntato a canoni di forte laicismo, ma non certo di «eccesso dal giure comune», il pensiero di Hobbes ha finito per indurre giustificazioni sostanzialmente forzate ai moderni totalitarismi.

3 Quella di Luigi Papo è un’opera storiografica particolarmente ampia e documentata. Qui, tra i suoi maggiori contributi specifici, basti ricordare: L’Istria e le sue Foibe, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, 268 pagine; L’Istria tradita, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, 302 pagine; e il monumentale Albo d’Oro, Unione degli Istriani, seconda edizione, Trieste 1989, 790 pagine (con elenco nominativo e ragionato dei caduti).

4 La Legge 30 marzo 2004 numero 92 (primo firmatario l’Onorevole Roberto Menia di Trieste) fu approvata dal Parlamento Italiano con voto pressoché unanime. Al Senato non vi furono dissensi mentre alla Camera si registrarono soltanto 15 voti contrari, espressi dall’Estrema Sinistra.

5 Confronta sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in data 25 marzo 2014 numero 8.055: nulla è dovuto agli Esuli per i beni perduti a fronte degli eventi bellici perché la natura giuridica dei benefici già concessi con leggi ordinarie non ha carattere risarcitorio, ma deve considerarsi riferibile a provvidenze emergenziali. Il dissenso del mondo esule fu espresso con ottima sintesi dal Professor Italo Gabrielli, ex Presidente dell’Unione degli Istriani, quando disse che si trattava di una «pietra tombale» sulle ultime speranze dei profughi.

(ottobre 2022)

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