Storiografia del Novecento
Nel dopoguerra italiano abbiamo avuto studi storici molto ideologizzati

La storiografia italiana degli anni del dopoguerra presenta aspetti controversi. Una parte degli storici ha indagato sugli aspetti terribili del Novecento, sull’affermarsi dei regimi totalitari, e delle tragiche conseguenze che hanno determinato, mentre altri (soprattutto storici marxisti) hanno limitato il loro campo di ricerca agli aspetti ideologici e programmatici dei movimenti politici, trascurando sostanzialmente l’azione concreta dei numerosi regimi del secolo appena concluso. Antonio Gramsci riteneva in contrasto con Benedetto Croce che il Risorgimento fosse stato un evento gestito da moderati che non aveva alterato in profondità l’assetto sociale del Paese, e che i Governi liberali (espressione di una «borghesia arretrata», avrebbe aggiunto Giuliano Procacci) fossero responsabili del mancato sviluppo economico del Paese, in particolare riteneva Gramsci che il Risorgimento fosse stato una «rivoluzione agraria mancata». Denis Mack Smith, storico inglese ma da sempre attento alle vicende italiane, esprimeva il suo giudizio negativo su Cavour, ritenuto un freddo politico spregiudicato privo di grandi idealità. Altri storici hanno addirittura considerato lo statista piemontese il Bismark italiano, cioè un uomo che aveva a cuore la grandezza del Paese, l’equilibrio fra le potenze europee, ma con scarso interesse per la libertà e il progresso. Secondo Giacomo Perticone lo stato unitario solo apparentemente poteva definirsi democratico, altri come lo storico Giorgio Rochat negli anni Settanta rincaravano la dose, parlando di una sostanziale continuità fra lo stato liberale postunitario e il regime fascista. Altri storici, sempre delle stesse tendenze, come Mario Tronti, affermavano sia riguardo alla nostra storia passata che a quella recente repubblicana che fosse fallito l’obiettivo di portare le masse all’interno dello stato. Tutti si incentravano sull’idea che lo stato avesse come finalità primaria, più che la libertà e i diritti, il provvedere ai bisogni materiali delle classi subalterne.

Tali opinioni non sono state considerate valide dagli storici liberali, in particolare da Rosario Romeo, Luigi Salvatorelli e Giovanni Spadolini. Il primo riteneva che sotto il profilo politico costituzionale l’Italia fosse un Paese avanzato. Sicuramente nell’Ottocento il nostro Paese godeva di un Parlamento con poteri maggiori rispetto a quelli di Germania e Austria, e di una libertà di stampa superiore a quella della Francia di Napoleone III. Per quanto riguarda l’economia, l’Italia soffrì per la mancanza di carbone, un bene allora assolutamente vitale per l’industria, e per la mancanza di banche di grandi dimensioni in grado di gestire i notevoli investimenti necessari per il decollo dell’industria, ma i provvedimenti legislativi andavano comunque a favore dello sviluppo e anche precedentemente al decennio 1890, periodo dal quale si fa partire l’industrializzazione del Paese, la crescita era tutt’altro che assente.

Sul collegamento fra Italia liberale e fascismo può essere interessante quanto scritto da Gaetano Salvemini. Lo studioso mise in luce in Le origini del fascismo. Lezioni di Harward che il fascismo rappresentava un movimento dei ceti medi che per un certo periodo si erano spostati su posizioni di Sinistra moderata contraria alla ristretta classe dirigente del Paese, ma che si sentirono successivamente minacciati dall’estremismo socialcomunista del primo dopoguerra. Inoltre un contributo essenziale all’affermarsi del fascismo era dato (opinione condivisa anche da Filippo Turati) dalle violenze dell’estrema Sinistra negli anni del Biennio Rosso. Tali eventi farebbero pensare che il fascismo rappresentasse qualcosa al di fuori della tradizione liberale, del resto il fatto che molti leader del fascismo provenissero da classi sociali molto diverse da quelle da cui provenivano i liberali, e che molti erano stati in precedenza esponenti dell’estrema Sinistra, confermerebbe la non continuità tra il Ventennio e il precedente stato liberale. Dove la comunità degli storici negli anni Settanta ha dato decisamente il peggio di sé è stato sulla questione De Felice, lo storico venne contestato non perché ciò che scriveva non fosse documentato, ma perché «non abbastanza antifascista». Nell’aprile 1975 un editoriale su «Italia Contemporanea» firmato da Ernesto Ragionieri, Claudio Pavone, Guido Quazza, Enzo Collotti parlava del lavoro dello storico contestato come «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe... posizioni qualunquistiche che finiscono per diventare oggettivamente filofasciste... in ogni caso esercitano una funzione diseducativa». La vicenda De Felice ha mostrato lo spirito politicizzato e intollerante di una parte degli storici degli anni Settanta, ed insieme le notevoli confusioni sullo studio storico, attività rigorosamente fondata su fonti storiche, che non ha nulla a che vedere con il sostegno di teorie a priori. Il giudizio comune negli anni precedenti all’opera di De Felice voleva che il Governo Mussolini sebbene fosse stato eletto con una vasta maggioranza parlamentare, fosse un regime imposto da una ristretta minoranza di uomini violenti contro la volontà della maggioranza dei cittadini. Il giudizio marxista riteneva che il fascismo fosse stato «il braccio destro del capitalismo» impegnato a contrastare violentemente le richieste dei lavoratori. De Felice e George Mosse misero in luce la mobilitazione delle masse, il ricorso alle organizzazioni a carattere popolare operato dal fascismo, qualcosa che rendeva questo movimento politico in qualche modo più simile ai gruppi della Sinistra che ai conservatori o ai liberali di Destra portati ad intendere la politica in maniera tradizionale come azione di professionisti di alto livello. Nel campo economico, il regime fascista si pose su posizioni diverse da quelle del libero mercato vicino a quelle stataliste, mentre alcuni dei suoi principali esponenti culturali come Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, tendevano (come molti a Sinistra) a sacrificare gli interessi e le aspirazioni dell’individuo rispetto a quelli dello stato.

Quello che oggi molti si chiedono, storici e uomini di cultura in genere, è come sia stato possibile che eventi notevoli che hanno determinato la morte di migliaia di Italiani siano stati taciuti. L’occupazione di Trieste, le foibe, le vendette partigiane, la costituzione di gruppi armati da parte del Partito Comunista Italino, sono eventi in grado di cambiare la comprensione del Novecento italiano. Più in generale c’è stato un comportamento fortemente reticente sul comunismo internazionale, per molti i suoi crimini costituivano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, sulla base di ragioni non sempre chiare. La guerra fredda, che vedeva da una parte le principali democrazie e dall’altra gli aggressivi regimi totalitari, diveniva una semplice contrapposizione di imperialismi. Nei numerosi scritti di Aldo Agosti o di quelli di Ernesto Ragionieri sul Partito Comunista Italiano, stilisticamente ineccepibili, non si parla mai dell’organizzazione armata espressamente prevista dal programma del 1921. Analogamente si taceva sui comunisti italiani fuggiti a Mosca e uccisi su indicazione dei loro dirigenti alle autorità sovietiche, eppure Paolo Spriano e Miriam Mafai (studiosi ed ex dirigenti del Partito Comunista Italiano) ne avevano parlato anche all’epoca. Lo storico Giorgio Galli mette in luce alcune carenze del Partito Comunista Italiano e dello stesso Antonio Gramsci in fatto di democrazia, ma anch’egli tace del tutto sui crimini commessi da Togliatti contro i compagni «indisciplinati», italiani e non, che si erano rifugiati in Russia. Il cambiamento degli studi storici avvenuto in questi anni costituisce sicuramente un evento notevole, gli studi storici hanno affrontato la questione del totalitarismo e del comunismo nel Novecento non più basandosi su dichiarazioni programmatiche, ma affrontando i comportamenti reali di quei regimi. Tale situazione ha portato molti, spesso esponenti della cultura estranei agli studi storici, ad una assurda polemica sul cosiddetto «revisionismo». Per costoro la storiografia passata sarebbe qualcosa che non poteva essere oggetto di cambiamento e le questioni politiche avrebbero dovuto prevalere sullo studio delle fonti storiche. Quella cultura chiusa e prolissa espressa da intellettuali non privi di atteggiamenti di superiorità, sembra oggi non solo tramontata ma crollata su se stessa con le sue omissioni e forzature. Dopo il revisionismo degli anni Novanta, oggi sembra prevalere comunque un atteggiamento di rimozione, per alcuni nel Novecento il comunismo considerato in precedenza l’evento principale del secolo, è stato solo un piccolo incidente o una ideologia che nella sua esuberanza aveva commesso qualche eccesso.

(febbraio 2017)

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