I nuovi storici post sionisti
Un dibattito storiografico «revisionista» che rischia di mettere in forse la stessa legittimità dell’esistenza dello Stato d’Israele

Il rapporto tra memoria e storia costituisce per Israele, che costantemente si interroga sul proprio passato e sulla continuità da esso derivante, un aspetto imprescindibile della sua identità nazionale.

L’interpretazione del passato costituisce un terreno di scontro in cui non solo scuole di pensiero differenti, ma anche fazioni contrapposte, si «combattono» animate da obiettivi contrastanti. Il giudizio storico acquisisce così la funzione di legittimare o meno le scelte politiche del passato e del presente.

La nuova storiografia, denominata anche revisionista o post sionista, allontanatasi dalla tradizionale «narrazione sionista della storia ebraica»[1], ha criticato la storiografia ufficiale argomentando che essa ha svolto una funzione di supporto per la leadership politica del Paese, immobilizzando la memoria del passato, paralizzando il giudizio critico e il riconoscimento delle responsabilità israeliane nei confronti sia dei vicini arabi sia dei Palestinesi. Da questo punto di vista, «è il carattere stesso dell’egemonia socialista nel Paese, prima e dopo la guerra di indipendenza del 1948, a essere radicalmente contestato»[2]. La nuova storiografia ha fortemente criticato la leadership politica socialista, individuando come bersaglio «la Sinistra, il movimento operaio israeliano con i suoi miti autocelebrativi, le correnti sioniste-socialiste, il partito laburista Mapai, i leader storici e soprattutto il carismatico padre fondatore David Ben Gurion»[3].

Storicamente, due eventi agli inizi degli anni Ottanta hanno giocato un ruolo preponderante nella nascita di una storiografia revisionista: il primo fu l’apertura degli archivi di Stato della Gran Bretagna e di Israele; il secondo fu l’invasione del Libano del 1982 e le giustificazioni fornite dall’allora Primo Ministro Menachem Begin. Molti storici post sionisti citano proprio l’invasione del Libano come «evento chiave» nel creare una nuova percezione del ruolo di Israele nel Medio Oriente e dei suoi rapporti con i vicini arabi.

È indubbio che molti aspetti della storia dell’«yishuv», la comunità ebraica in Palestina, e di Israele siano stati sottoposti al vaglio della ricerca storica grazie alla nuova documentazione: il periodo mandatario; il rapporto tra la «Shoah» e la fondazione dello Stato; il conflitto del 1948; la questione dei profughi palestinesi; il coinvolgimento nelle guerre che, dal 1956, hanno coinvolto lo Stato Ebraico; la possibile collusione tra Re Abdallah di Transgiordania e Israele per impedire la nascita di uno Stato Palestinese; l’effettiva volontà di Israele di arrivare ad una pace con i Palestinesi; l’effettiva volontà dei Paesi Arabi di distruggere Israele; la fuga in massa dei Palestinesi dalle loro terre e così via. Come è possibile osservare, si tratta di domande più politiche che storiografiche. La nuova documentazione ha dato la possibilità di rivedere, se non di confutare (ma in taluni casi anche di confermare), i giudizi espressi precedentemente.

L’aspra polemica, accademica e massmediatica, sviluppatasi tra gli storici post sionisti e gli storici ufficiali, può essere compresa solo attraverso un’analisi delle fonti, dei metodi e dei temi utilizzati dalla nuova storiografia.

Sin dagli anni Ottanta, i temi del post colonialismo e del post modernismo hanno occupato un posto rilevante nella vita culturale e accademica israeliana, ponendo nuove sfide intellettuali.

Il post sionismo si compone di due aspetti distinti. Il primo è soprattutto uno sviluppo interno al mondo accademico israeliano, derivante dalle influenze occidentali, che possiede, quali caratteristiche predominanti, l’accessibilità a nuovo materiale d’archivio, l’introduzione di nuovi metodi di ricerca e la suggestione di nuove interpretazioni. Temi controversi sono stati dibattuti soprattutto nei circoli accademici, i cui partecipanti hanno articolato le loro posizioni attraverso libri e riviste universitarie.

Il secondo aspetto concerne un ampio dibattito meta-storico, nel quale i post sionisti sfidano i valori, le credenze, le ipotesi, le metodologie e l’obiettività dei loro colleghi sionisti.

I post sionisti accusano gli studiosi sionisti di essersi arruolati volontariamente al servizio dell’ideologia sionista, cercando di imporre «concetti egemonici sionisti» sulla cultura e sull’identità israeliana.

Il post sionismo è difficile da etichettare, tanto che le definizioni su di esso sono varie e non sempre concordanti. Il sociologo Uri Ram dell’Università Ben Gurion, il primo a coniare il termine post sionismo, sottolineando le sue caratteristiche culturali, ha evidenziato che dovrebbe essere inserito nel contesto di rapido cambiamento culturale e sociale del mondo contemporaneo, in cui nascono fenomeni come la globalizzazione, il post strutturalismo, il post colonialismo e, nel contempo, avviene la trasformazione dei concetti di identità, alterità, differenza e ibridismo.

Ram si è concentrato sulla scrittura della storia di Israele. La storiografia sionista era destinata a coltivare l’identità nazionale, come le storiografie nazionali europee.

Secondo Ram, il post sionismo corrisponde al post storicismo, con la finalità di smantellare l’identità nazionale e le «Leggi storiche» che hanno dato forma ad essa. La memoria «storicista» costruisce le Nazioni, mentre quella post storicista le frantuma. La storiografia post sionista scrive la storia degli «altri», mentre la storiografia sionista lascia spazio solo per la storia della propria identità.

Il sociologo Avishai Ehrlich definisce il post sionismo come la forma israeliana dell’antisionismo assimilato. Questo genere di antisionismo è stato in precedenza rappresentato negli Stati Uniti dal Consiglio Americano per l’Ebraismo, un gruppo formatosi nel 1940 per contrastare l’idea di uno Stato Ebraico. Secondo Ehrlich, il post sionismo è un prodotto della globalizzazione capitalista, rappresentando, quindi, l’opposto dell’antisionismo derivante dalla religione (ultra-ortodosso) o dalle convinzioni socialiste.

La seconda variante del post sionismo rifiuta l’ideologia sionista ed i suoi assunti di base, disapprovando le politiche del movimento sionista, respingendo la nozione stessa di Stato Ebraico. I post sionisti negano il collegamento tra l’Ebraismo storico e lo Stato di Israele e si sforzano di trasformare lo Stato-Nazione del popolo ebraico in uno Stato plurinazionale e multiculturale. Il loro Stato ideale sarebbe privo di un’identità ebraica, laica o religiosa, e di qualsiasi pretesa morale e sociale. Lo definiscono «uno Stato di tutti i suoi cittadini».

Il loro obiettivo è uno Stato bi-Nazionale, come proposto dalla Hashomer Hatza’ir e dai partiti politici di immigrati provenienti dalla Germania negli anni Trenta o Quaranta, o la realizzazione di uno Stato Palestinese, come previsto dal «Libro bianco» britannico del maggio del 1939. È importante ricordare che il «Libro bianco» del 1939 fu respinto dai Palestinesi.

Quando Benny Morris, autore di diversi libri sul conflitto arabo-ebraico, ha coniato la definizione di «nuovi storici», intendeva identificare quegli storici che facevano uso di materiale d’archivio completo, senza censurarne gli eventi. I maggiori esponenti della nuova storiografia sono: Benny Morris; Ilan Pappé; Baruch Kimmerling; Avi Shlaim; Tom Segev; Simha Flapan; Uri Milstein; Michael Cohen; Uri Bar-Joseph.

La pubblicazione dei saggi degli storici post sionisti è cominciata nel biennio 1987-1988, proprio quando ebbe inizio l’Intifada Palestinese, che rese il rapporto tra Israele, gli abitanti arabi e i vicini Paesi Arabi estremamente teso. Infatti, l’Intifada e il successivo processo di pace hanno avuto, ed hanno, un peso preponderante nei lavori dei nuovi storici, che ammettono esplicitamente di dispiegare i loro sforzi per contribuire al processo di pace.

Questa connessione con la politica può essere maggiormente compresa attraverso le parole dello storico Zeev Sternhell, secondo il quale «quando i più complessi aspetti della storia del XX secolo entrano nella discussione, il dibattito storiografico assume un tono particolarmente intenso. In Israele, la causa risiede nel fatto che questo dibattito accademico si fonde con il dibattito pubblico sul futuro della società israeliana. Di conseguenza, l’establishment intellettuale israeliano tende a mascherare la distinzione tra due fenomeni totalmente differenti: il progresso della conoscenza e l’emergere delle cosiddette tendenze post-sioniste»[4]. Il legame fra conoscenza e politica potrebbe co-determinare il corso del dibattito storiografico israeliano anche in futuro.

I nuovi storici hanno descritto se stessi, o sono stati ritratti, come un movimento all’interno della storiografia israeliana. Tuttavia, non sono una scuola e nemmeno un gruppo di studiosi che condivide una visione del mondo, un programma o una metodologia.

Cercando di caratterizzare i nuovi storici, Anita Shapira, che dirige l’Istituto Weizmann per lo Studio del Sionismo dell’Università di Tel Aviv ed è uno dei maggiori studiosi del movimento operaio sionista, ha sottolineato le differenze che rendono ogni generalizzazione su di loro difficile. Ha suggerito l’età (biologica e accademica) come un denominatore comune, ma anche questa osservazione non è soddisfacente, dato che i nuovi storici variano per età e anzianità accademica.

Sovente, i nuovi storici affermano di essere i primi studiosi a fare uso di materiali d’archivio mai utilizzati in precedenza, tuttavia molti storici che hanno lavorato, e lavorano, in Israele e negli Stati Uniti per esempio, hanno utilizzato fonti mai adoperate anteriormente.

Molti, in Israele e all’estero, percepiscono il post sionismo come una versione israeliana del post modernismo, che ha avuto la sua maggiore influenza tra il 1980 e il 1990. La variante israeliana, tuttavia, è più politica, essendo maggiormente interessata all’aspetto politico più che alle astrazioni epistemologiche e metodologiche.

Nella versione israeliana del post modernismo, il fine principale è minare l’«ordine sionista». Per quello scopo, attaccano sia la storia del sionismo sia la storiografia da esso derivante. La loro critica mira a distruggere il «discorso sionista», che raffigurano come una deliberata distorsione della verità storica. Si sforzano di scuotere la coscienza storica israeliana, decostruendone l’identità, smontandone la memoria collettiva e presentando la narrativa sionista come usurpatrice dell’identità ebraica.

La maggior parte dei post sionisti è fedele all’assioma post moderno secondo il quale la storiografia è politica. Respingendo la nazionalità ebraica, condannando la negazione della diaspora, descrivendo i sopravvissuti dell’Olocausto e i profughi ebrei provenienti dai Paesi Arabi come prede della manipolazione sionista e i Palestinesi come vittime innocenti di collusioni e atrocità, offrono, a parere dei critici, ulteriori argomentazioni a quanti ritengono che Israele sia stato concepito e sia nato nel «peccato».

Una tematica centrale nel paradigma post sionista è il considerare l’elemento nazionale come estraneo all’Ebraismo.

I post sionisti non sono stati i primi a contestare l’elemento nazionale come essenza del Giudaismo. Fin dalla sua nascita, il nazionalismo ebraico moderno è stato oggetto di un acceso dibattito, in cui sono state poste domande come: quanto era profondamente radicata l’idea nazionale nella storia ebraica? Era una innovazione rivoluzionaria o vi era una continuità storica?

Questa disputa ha avuto luogo tra i sionisti, nonché tra i sionisti e i loro avversari. Alcuni partecipanti a questa discussione hanno sostenuto che il nazionalismo fosse estraneo al Giudaismo e costituisse una rivolta contro la storia ebraica, in pratica un tentativo di rottura rispetto alla sua unicità. Altri hanno replicato che il sionismo è il risultato della continuità della storia ebraica, offrendone, nondimeno, una nuova interpretazione.

Il moderno movimento nazionale ebraico emerse sulle orme del risveglio nazionale nell’Europa del Sud e dell’Est durante le Guerre Napoleoniche, adottandone, in parte, il lessico e i principi, differenziandosi, tuttavia, per diversi rilevanti aspetti.

Le radici del movimento nazionale ebraico, così come la sua etnia, la sua lingua e le sue origini culturali, sono molto più antiche di quelle dei movimenti nazionali europei. Come fenomeno storico, l’Ebraismo li ha preceduti di molti secoli; infatti, nonostante fosse privo di un potere politico e militare dopo la distruzione del Secondo Tempio, esso ha giocato un ruolo determinante nell’ambito religioso, culturale, sociale ed economico.

Il nazionalismo ebraico differisce dai movimenti nazionalisti europei anche per quanto concerne la lingua, poiché i movimenti nazionalisti dell’Europa dell’Est utilizzavano i dialetti locali, in contrapposizione al tedesco e al russo, le lingue ufficiali delle Autorità statuali, mentre il Sionismo scelse di ritornare all’ebraico antico quale base per la creazione di una cultura moderna e di un’identità ebraica comune, tralasciando l’yiddish e il ladino.

Il Sionismo ha riattualizzato la dimensione religiosa del ritorno, in contrapposizione alla realtà della vita ebraica in esilio, evocando un rientro nel territorio nazionale di Israele. Così come gli Ebrei hanno mantenuto la loro lingua, così hanno mantenuto, nel corso dei secoli, un legame inscindibile con un particolare territorio, riconosciuto come la loro Patria. Questo legame si basa sulla memoria storica, sul credo religioso e sull’aspettativa messianica per il futuro. La tradizionale affiliazione spirituale e religiosa alla terra forma la consapevolezza per gli Ebrei che la terra d’Israele sia la loro «National Home». Il movimento sionista, che rifiutò consapevolmente ogni altra alternativa sin dal 1904, ha continuato a considerare il nazionalismo ebraico come inseparabile dalla terra d’Israele.

Il Sionismo rigettava l’esperienza storica della Diaspora Ebraica, descrivendo il nazionalismo ebraico come l’opposto dell’esilio. Di tutti gli elementi che costituiscono un movimento di rinascita nazionale – linguaggio, territorio, cultura, economia e un destino comune – gli Ebrei possiedono soprattutto una comune eredità che ne ha plasmato l’identità; infatti, un individuo può adottare la tradizione ebraica così come essa è, come gli Ortodossi, oppure può reinterpretarla o selezionarne una parte, come i movimenti Reform e Conservative, ma nessuno, nemmeno chi si oppone alla tradizione, può semplicemente ignorare questo retaggio.

L’obiezione dei nuovi storici post sionisti al nazionalismo ebraico deriva dall’assunzione di due nuove teorie sulla nazionalità e sul colonialismo. I nuovi storici citano spesso la definizione di Nazione del professor Benedict Anderson della Cornell University, secondo il quale la Nazione è «una comunità immaginata», immaginata dai suoi membri, e manipolata dai burocrati e dagli educatori. Inoltre, spesso ripropongono la tesi di Eric Hobsbawm, che sostiene l’artificiosità delle antiche tradizioni nazionali dell’Europa, «costruite» nel XIX secolo per coltivare i miti nazionali. Solitamente, ignorano o rifiutano volutamente teorie alternative, come quella di Anthony D. Smith, redattore capo della rivista accademica «Nations and Nationalism», che considera la nazionalità come la continuazione di una più antica identità etnica, oppure quella di Ernst Gellar, che riteneva il nazionalismo come il risultato della modernizzazione.

È interessante notare come solitamente i nuovi storici non si approccino ai lavori degli studiosi dei movimenti nazionali, come Hans Kohn o Friedrich Herz, tralasciando completamente, inoltre, le opere degli originari filosofi del nazionalismo come Jean-Jacques Rosseau, Johann Herder e Johann Gottlieb Fichte.

Le teorie, come quella di Gellner, che legano il nazionalismo alla modernizzazione possono spiegare la disintegrazione della tradizionale società corporativa, l’emancipazione e l’assimilazione – tendenze che sono in contrapposizione allo sviluppo del patriottismo ebraico – ma ignorano la nascita di una autocoscienza ebraica, le cui radici affondano negli elementi etnici dell’esistenza ebraica. Da questo punto di vista, la teoria di Smith appare più adatta per spiegare il movimento sionista.

I post sionisti negano la natura nazionale del movimento sionista, ritenendolo un «fenomeno coloniale». È interessante notare come una simile argomentazione fosse stata usata anche in precedenza; infatti, dagli anni Settanta gli intellettuali palestinesi, influenzati da Edward Said (professore americano di letteratura, di origini palestinesi-egiziane, autore di Orientalismo), hanno cercato di dimostrare la natura coloniale del Sionismo. L’accusa di colonialismo lanciata contro il Sionismo non ha fondamento storico, derivando, piuttosto, da un’interpretazione tendenziosa che unisce passato e presente, utilizzata per far avanzare il punto di vista palestinese riguardo al persistente conflitto arabo-israeliano. La negazione da parte dei nuovi storici di un movimento nazionale ebraico è stata utilizzata dagli studiosi palestinesi come prova della natura coloniale del Sionismo.

In effetti, l’immigrazione e la colonizzazione hanno fatto parte del Sionismo, proprio come hanno parte delle conquiste spagnole e inglesi in Sud America e nell’America del Nord. Per un breve periodo di tempo il Sionismo è stato assistito da una Potenza Imperialista, la Gran Bretagna, anche se le ragioni del sostegno inglese sono molto più complesse del semplice imperialismo. Qui la somiglianza finisce, e il confronto con il colonialismo non spiega adeguatamente la rinascita nazionale ebraica.

Al contrario dei conquistatori spagnoli, gli immigrati non arrivarono in Palestina armati, tentando di prendere con la forza la terra alla popolazione locale. I pionieri immaginavano la nuova vita degli Ebrei improntata al lavoro manuale, non all’esercizio di un potere militare. Fino alla Prima Guerra Mondiale, l’idea di creare una forza armata ebraica per ottenere dei risultati politici era prerogativa di un numero esiguo di visionari, inoltre, fino alla fine della Guerra, l’adesione volontaria ai battaglioni ebraici dell’esercito inglese era un tema controverso tra i giovani ebrei della Palestina.

Se adottiamo un approccio semiotico, fino al 1948 con la parola ebraica «kibbush» (che significa «conquista», «occupazione») ci si riferiva all’attività di rendere vivibile una terra inospitale e al possesso delle competenze adeguate per il lavoro manuale e l’allevamento del bestiame, mentre l’accezione militare del termine era inerente la protezione degli insediamenti ebraici. Vocaboli come «gedud» («battaglione») o «plugah» («compagnia») non concernevano l’ambito militare, bensì i gruppi di lavoro.

Le forze armate ebraiche si costituirono più tardi, in risposta agli attacchi degli Arabi. L’ethos difensivo dell’uso della forza, come nota Anita Shapira nel saggio Land and Power, permase almeno fino alla ribellione palestinese del 1936-1939. Dopo la ribellione, la «difesa» non fu più percepita in termini prettamente tattici, bensì, fu intesa come il simbolo del costante impegno per proteggere l’impresa sionista sia dagli Arabi sia dagli altri poteri che potevano minacciarla.

Contrariamente ai primi coloni bianchi nelle colonie inglesi, volontariamente il Sionismo applicò delle restrizioni compatibili con i principi democratici di una auto-determinazione. Il movimento nazionale ebraico si sforzò di divenire maggioranza numerica, dal punto di vista demografico, prima di conseguire il controllo politico del territorio; infatti, il Sionismo considerava la prevalenza numerica una precondizione per l’ottenimento della piena sovranità, ottenibile attraverso l’immigrazione, non per mezzo dell’annientamento o dell’espulsione, come accadde nel caso dei nativi americani e degli Aborigeni.

Le teorie economiche del colonialismo e quelle sociologiche dei movimenti migratori risultano non idonee quando sono applicate all’esperienza del Sionismo. La Palestina differiva dalle colonie tradizionali per la mancanza di risorse naturali; solitamente, gli Europei emigravano in territori ricchi di risorse ma poveri di manodopera, al contrario, la Palestina era troppo povera anche per mantenere la propria popolazione, sia ebraica sia araba, costretta, alla fine del periodo ottomano, ad emigrare negli Stati Uniti o in Australia.

L’ideologia sionista e l’importazione del capitale privato ebraico riuscirono a compensare la mancanza di risorse naturali, accelerando il processo di modernizzazione. Questi due fattori sono stati completamente assenti nel colonialismo, che spogliava delle risorse naturali la colonia a esclusivo beneficio della madrepatria, senza alcun investimento economico.

Un altro argomento che solitamente è usato nell’etichettare il Sionismo come colonialismo è la presunta espropriazione delle terre dei Palestinesi; dal punto di vista storico, fino al 1948 gli insediamenti sionisti comprarono i terreni, non li espropriarono, e dopo la nascita dello Stato Ebraico i contadini a cui furono espropriate delle terre furono risarciti. È importante sottolineare che il prezzo della terra in Palestina, tra il 1910 e il 1944, crebbe del 52,5%; volendo fare una comparazione, è possibile affermare che nel 1910 il prezzo della terra in Palestina era il doppio di quella negli Stati Uniti, mentre nel 1944 la proporzione era di 23 a 1. Tra il 1936 e il 1944 il prezzo dei terreni crebbe di tre volte rispetto al costo della vita.

Si riscontra un’altra differenza con il colonialismo, infatti, gli immigranti ebrei in Palestina rescindevano i loro legami con la madrepatria, anche dal punto di vista culturale, facendo rivivere una lingua antica, sulla cui base creavano una nuova cultura popolare.

È interessante osservare, inoltre, come una parte dei nuovi storici, di chiara matrice marxista, giudichi il Sionismo una forma indesiderabile di nazionalismo borghese.

La storiografia post sionista non ha adoperato soltanto il paradigma del colonialismo per tratteggiare una nuova storia dello Stato Ebraico, infatti è possibile rilevare altri due temi centrali, quali il conflitto arabo-israeliano e la Shoah.

La prima tematica, la storia del conflitto arabo-israeliano, è la più complessa essendo un conflitto ancora in corso, e di cui non si intravede una fine. Gli aspetti sui quali è attratta l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media oscurano le radici storiche per privilegiare gli avvenimenti correnti, facendo così perdere ogni rilevanza alle origini del conflitto.

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, la storiografia israeliana aveva esaltato la Guerra di Indipendenza come fosse un miracolo, raffigurandola come la vittoria di pochi sopra i molti, della causa giusta contro quella ingiusta. Questo approccio non cambiò con il progredire della ricerca storica sulla guerra e sulle sue conseguenze.

I primi effetti del cambiamento nelle Università e nei media apparvero in Israele alla metà degli anni Ottanta.

Nel 1984, Tom Segev pubblicò il libro 1949: The first Israelis, in cui criticava l’interpretazione prevalente della storia dello Stato Ebraico, cercando di dimostrare che la crescente polarizzazione esistente nella società israeliana alla metà degli anni Ottanta era presente già dalla fondazione dello Stato.

Nel biennio 1987-1988 furono pubblicati in rapida successione dei saggi che lanciavano un duro attacco allo status quo della storiografia ufficiale: nel 1987, Simha Flapan pubblicava The Birth of Israel: Miths and Realities, in cui si soffermava sulla guerra del 1948 e sui miti da essa derivanti; nel 1988, Benny Morris, l’esponente più conosciuto del gruppo dei nuovi storici, dava alle stampe The Birth of the Palestine Refugee Problem, 1947-1949, in cui affermava la co-responsabilità di Israele nella creazione del problema dei profughi palestinesi; nel 1988, Avi Shlaim pubblicava Collusion across Jordan: King Abdullah, The Zionist Movement and the Partition of Palestine, in cui sosteneva una collusione tra Israele e la Transgiordania per impedire la nascita di uno Stato Palestinese; Ilan Pappé pubblicava nel 1988 il suo primo libro, Britain and the Arab-Israeli Conflict 1948-1951, con cui intendeva dimostrare la comunanza di interessi tra la Gran Bretagna e il movimento sionista in Palestina e il sostegno militare inglese all’espansione territoriale israeliana.

Gli storici revisionisti rielaborano i maggiori postulati della storiografia sionista.

Mentre la storiografia tradizionale ritiene che l’Inghilterra avesse l’intenzione di prevenire la nascita di uno Stato Ebraico, i revisionisti affermano che lo scopo principale della Gran Bretagna era impedire la nascita di uno Stato Palestinese.

Mentre la storiografia sionista argomenta che gli Ebrei erano numericamente inferiori e malamente equipaggiati militarmente, gli storici post sionisti affermano il contrario.

Mentre la storiografia tradizionale sostiene che gli Arabi lasciarono la Palestina volontariamente, aspettandosi un trionfale ritorno entro breve tempo, i post sionisti affermano che furono gli Ebrei ad espellere con la forza gli Arabi. È utile soffermarci brevemente sul tema dei profughi palestinesi, poiché per i nuovi storici l’espulsione forzata degli Arabi sarebbe il «peccato originale d’Israele», che, secondo lo storico revisionista Ilan Pappé, avrebbe attuato una vera «pulizia etnica». Tale tematica rappresenta anche il punto focale delle critiche rivolte alla nuova storiografia, accusata di delegittimare lo Stato Ebraico.

Mentre la storiografia tradizionale biasima l’intransigenza araba per il costante rifiuto di impegnarsi in un processo di pace, i revisionisti biasimano Israele per la sua inflessibilità.

Per quanto concerne la Shoah, gli storici post sionisti ritengono che il nesso tra Israele e l’Olocausto sia stato creato e sfruttato dalla leadership sionista per conseguire tre obiettivi:

1) deviare le critiche che la comunità internazionale legittimamente rivolgeva, e continua a rivolgere, alla politica israeliana e all’ideologia bellicista di cui essa si nutre;

2) demonizzare i nemici arabi, inclusi i Palestinesi, assimilandoli ai nazisti, in modo da disconoscerne in anticipo le legittime recriminazioni;

3) esasperare le paure inconsce e profonde del Paese, mobilitandole a sostegno del consenso politico interno.

La leadership israeliana avrebbe perciò generato una sorta di «religione civile» dell’Olocausto, inducendo i cittadini israeliani, gli Ebrei della diaspora e tutto il mondo occidentale ad assumere un atteggiamento di tetra venerazione nei confronti di una memoria ossessivamente coltivata in funzione delle finalità sopra menzionate.

Storici revisionisti come Segev, Greilsammer e Zertal sostengono che nelle settimane precedenti la Guerra dei Sei Giorni del 1967 fu fatto un uso retorico della Shoah. Così Ilan Greilsammer: «Resta in particolare un grande enigma: come spiegare che la popolazione israeliana, senza distinzioni di età, genere, di origine e di cultura, sia stata assalita da un tale timor panico, che il popolo israeliano sia giunto a credersi in pericolo di distruzione totale e immediata? Com’è possibile che nel 1967, a vent’anni dalla creazione dello Stato, a ventitré anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’ombra della Shoah sia ricomparsa e che si sia diffuso il sentimento di un nuovo e imminente “olocausto”? C’è stato calcolo o manipolazione? […] Perché pare evidente che, diversamente dalla popolazione che aveva realmente paura dell’annientamento, gli specialisti militari, coloro che sapevano, non ci credevano affatto. Ciò che si sarebbe potuto temere, era che gli Egiziani mettessero il tempo a profitto per introdurre forze più numerose nel Sinai, da dove sarebbe stato più difficile farli sloggiare. Inoltre, se l’operazione preventiva fosse stata rimandata, la congiuntura internazionale, allora favorevole, avrebbe rischiato di cambiare […]. Quali che fossero le ragioni, i fantasmi o i calcoli degli uni e degli altri, è innegabile che l’attesa e l’ansia accrebbero la forza del colpo inferto dall’esercito israeliano il 5 giugno, a cui corrispose una sorta di liberazione, di sollievo. È stato anche fatto osservare che l’attesa aveva creato solidarietà e rafforzato l’unità degli Israeliani nella prova»[5].

Zertal usa toni ancora più netti nell’affermare che il clima di crescente ansia fosse determinato dai continui riferimenti alla Shoah presenti nei media nazionali e internazionali, accrescendo così a dismisura la sensazione di una catastrofe imminente.

Dal punto di vista numerico, i nuovi storici rappresentano tuttora una minoranza, tuttavia ciò che più appare rilevante è la portata della loro critica alla narrazione «sionista» e ai miti fondanti dello Stato Ebraico; infatti, per lo Stato d’Israele, che è da sempre alla ricerca di una legittimazione, una simile critica acquisisce una portata storica e politica enorme, tanto da essere utilizzata dai più svariati detrattori per delegittimarne il diritto all’esistenza.

L’analisi condotta sulla nuova storiografia ha portato alla luce gli intenti politici che animano i suoi autori, un gruppo collocato a Sinistra (ma che non si riconosce nel Partito Laburista) e favorevole al processo di pace iniziato negli anni Novanta. La maggior parte degli storici post sionisti è favorevole alla creazione di due Stati, l’uno Israeliano e l’altro Palestinese, e preme sulla leadership politica affinché si impegni a portare avanti i negoziati. Solo una parte degli storici revisionisti propende per uno Stato bi-Nazionale, in pratica un «suicidio demografico» per Israele. Tuttavia è importante evidenziare come, anche nel caso della creazione di due Stati indipendenti, perduri il problema del ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti, che rappresenterebbe ugualmente un «suicidio demografico» per lo Stato Ebraico.

L’intento degli storici post sionisti è di contrastare pratiche di governo che ritengono inappropriate, utilizzando delle tecniche comunicative volte a rendere più persuasive le loro argomentazioni, che presentano, nondimeno, degli aspetti problematici: l’accorpamento di una variegata documentazione (dichiarazioni politiche, interviste, articoli di giornale) per dimostrare la fondatezza delle tesi sostenute, come se queste emanassero direttamente dai testi anziché dalle letture inevitabilmente parziali che se ne possono dare; la riluttanza a prendere in esame fonti e ipotesi alternative (per esempio in relazione alla politica belligerante dei Paesi Arabi); il considerare l’opinione pubblica israeliana passiva e succube rispetto alle dichiarazioni politiche della classe dirigente.

L’approccio problematizzante della nuova storiografia ha fatto nascere un vivace dibattito pubblico, aprendo una discussione che proseguirà anche in futuro.

«Le polemiche riguardo alla nuova storiografia sono tra le più vivaci che il mondo accademico israeliano abbia conosciuto. Gli stessi nuovi storici subiscono forti critiche, rivolte in qualche caso all’ideologia, più spesso ad aspetti metodologici. Si può dire che, dopo un certo successo iniziale, i giovani storici sembrano giunti ad una impasse. A proposito del metodo da essi adottato vengono formulate numerose obiezioni, la più importante delle quali si basa sulla considerazione che non è possibile compiere ricerche nei Paesi Arabi, in quanto i loro archivi, contrariamente a quelli israeliani, sono ancora chiusi. La critica della narrazione sionista non è vissuta in modo tranquillo. In effetti, poiché essa si concentra su un “peccato originale”, potrebbe rivelarsi di natura tale da mettere in discussione la legittimità stessa dello Stato d’Israele. I “nuovi storici” sono accusati di riprendere le tesi degli avversari di Israele: […] qualcuno li accusa di essere affetti da quell’“odio di sé” che viene visto come una particolare “patologia” dell’Ebraismo»[6].


Bibliografia

G. N. Arad (a cura di), Israeli Historiography Revisited, «History and Memory», numero 1, 1995

M. Bar-On, Cleansing history of its content; some critical comments on Ilan Pappé’s The Ethnic cleansing of Palestine, in «The journal of Israeli history», 27-2 (2008)

M. Bar-On, Memory in a Book: The Beginning of the Israeli Historiography of the War of Independence, Tel Aviv, MoD Publications, 2001

D. Bidussa, La nuova storiografia israeliana. Note di lettura, «La Rassegna mensile di Israel», volume LXV, numero 2, maggio-agosto 1999

M. Brunazzi, I «nuovi storici israeliani», «L’Indice», anno XVI, numero 9, settembre 1999

G. Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Milano, Mondadori, 2002

A. Donno, La nuova storia di Israele, «Nuova Storia Contemporanea», anno VII, numero 3, 2003

A. Donno, La «nuova» storia d’Israele. Sionisti e post sionisti a confronto, «Nuova Storia Contemporanea», anno VII, numero 3, 2005

A. Donno, Come si falsifica la storia d’Israele, «Nuova Storia Contemporanea», anno IX, numero 4, 2005

S. Flapan, The Birth of Israel, Myths and Realities, New York, Pantheon Books, 1987

T. Friling, Critique du post-sionisme: Rèponses aux «noveaux historiens» israéliens, Paris, In Press, 2004

R. Gabbay, A political study on the Arab-Jewish conflict; the Arab refugee problem; a case study, Geneva, Librairie Droz, 1959

Y. Gelber, The history of Zionist historiography; from apologetics to denial, in Morris, Benny (ed.), Making Israel, Ann Arbor (MI), University of Michigan Press, 2007

I. Greilsammer, La nouvelle histoire d’Israël. Essai sur un’identité nationale, Paris, Gallimard, 1998

J. Heller, The Birth of Israel. 1945-1949. Ben-Gurion and His Critics, Gainesville, Fl, University Press of Florida, 2000

F. Heymann, Les noveaux enjeux de l’historiographie israliénne, Jérusalem, Centre de recherche français de Jérusalem, 1995

F. Heymann, M. Abitbol (a cura di), L’historiographie israliénne aujourd’hui, Paris, Editions du CNRS, 1998

E. Karsh, Fabricating Israeli History. The New Historians, London, Frank Cass, 1997

E. Karsh, Rewriting Israel’s history, in «Middle East Quarterly», 3-2 (1996)

E. Karsh, Resurrecting the myth; Benny Morris, the Zionist Movement and the «Transfer» idea, in «Israeli Affairs», 11-3 (2005)

E. Karsh, Palestine Betrayed, New Haven, Yale University Press, 2010

C. Klein, Israele. Lo Stato degli Ebrei, Firenze, Giunti Castermann, 2000

C. Liebman, E. Don-Yehiya, Civil Religion in Israel, Berkeley, Berkeley University Press, 1983

D. Myers, D. Ruderman, The Jewish Past Revisited, New Haven, Yale University Press, 1998

B. Morris, 1948. Israele e Palestina tra guerra e pace, Milano, Rizzoli, 2005

B. Morris, Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Milano, Rizzoli, 2001

B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo sionista, Milano, Rizzoli, 2005

B. Morris, One State, two States: Resolving the Israel/Palestine Conflict, New Haven, Yale University Press, 2009

E. Nimni (a cura di), The Challenge of Post-Zionism: Alternatives to Fundamentalist Politics in Israel, London, Zed Books, 2003

I. Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oxford, Oneworld Publications Ldt, 2006

I. Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005

I. Pappé, The Israel/Palestine Question, London and New York, Routledge, 1999

U. Ram, From Nation-State to Nation-State: Nation, History and Identity Struggles in Jewish Israel, in Ephraim Nimni (ed.), The Challenge of Post-Zionism: Alternatives to Fundamentalist Politics in Israel, London, Zed Books, 2003

T. Segev, The Seventh Million: The Israelis and the Holocaust, New York, Hill & Wang, 1993

A. Shlaim, The debate about 1948, «International Journal of Middle East Studies», volume 27, numero 3, August 1995, pagine 287-304

A. Shlaim, A totalitarian concept of history, «Middle East Quarterly», settembre 1996, volume 3, numero 3, pagine 52-55

A. Shlaim, The Iron Wall: Israel and the Arab World, London, Penguin Books, 2000

A. Shlaim, The war of the Israeli Historians, «Annales», 59-1 (2004)

A. Shapira, Land and power; the Zionist resort to force 1881-1948, Oxford, Oxford University Press, 1992

A. Shapira, The Past is not a foreign country. The failure of Israel’s new historians to explain war and peace, «The New Republic», 29 Novembre 1999

A. Shapira, The strategies of historical revisionism, «Journal of Israeli history, politics, society and culture», 20-2 (2001)

L. Silberstein, The Postzionism Debates: Knowledge and Power in Israeli Culture, New York and London, Routledge, 1999

Z. Sternhell, La nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini & Castoldi, 1999

S. Teveth, Charging Israel with Original Sin, «Commentary», 88-3 (1989)

D. Vidal, J. Algazy, Il peccato originale d’Israele: l’espulsione dei Palestinesi rivisitata dai «nuovi storici», Torino, ECP, 1999

R. Wistrich, The Jewish question; left-wing anti-Zionism in Western societies, in M. Curtis (a cura di), Anti-Semitism in the contemporary world, Boulde, Westview Press, 1986

E. Yakira, Post-Zionism, Post-Holocaust. Three Essays on Denial, Forgetting, and the Delegitimation of Israel, New York, Cambridge University Press, 2010

I. Zertal, Israele e la Shoah. La Nazione e il culto della tragedia, Torino, Einaudi, 2002

I. Zertal, Israel’s Holocaust and the Politics of Nationhood, New York, Cambridge University Press, 2005.


Note

1 Confronta G. Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Milano, Mondadori, 2002, pagina 154.

2 Confronta M. Brunazzi, I «nuovi storici israeliani», «L’Indice», anno XVI, numero 9, settembre 1999, pagina 51.

3 Ibidem.

4 Confronta Zeev Sternhell, The Founding Myths of Israel. Nationalism, Socialism, and the Making of the Jewish State, Princeton NJ, Princeton University Press, 1999, pagina 30;
confronta Ilan Pappé, A history of Modern Palestine. One Land, two peoples, Cambridge, Cambridge University Press, 2004;
idem, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oxford, Oneworld Publications Ldt, 2006.

5 Confronta I. Greilsammer, La nouvelle histoire d’Israël. Essai sur un’identité nationale, Paris, Gallimard, 1998, pagine 329-330.

6 Confronta C. Klein, Israele. Lo Stato degli Ebrei, Firenze, Giunti Castermann, 2000, pagine 114-115.

(febbraio 2016)

Tag: Daniela Franceschi, Israele, Olocausto, Shoah, nuovi storici, storici post sionisti, storiografia, dibattito storiografico, revisionismo, post sionismo, post modernismo, Palestina, Palestinesi, peccato originale d’Israele, la nuova storia d’Israele, profughi palestinesi, nuova storiografia, controversia degli storici, Tom Segev, Idith Zertal, Benny Morris, Ilan Pappe, Elhanan Yakira, sionismo, religione civile, David Ben Gurion, Mapai, Partito Socialdemocratico Israeliano, movimento operaio israeliano, conflitto del 1948, conflitto arabo israeliano palestinese, antisionismo, antisionisti, machloket ha-historionim, Simha Flapan, Uri Milstein, Michael Cohen, Anita Shapira, Uri Bar-Joseph, Baruch Kimmerling, post modernismo, coloniale, post coloniale, colonialismo, Guerra dei Sei Giorni del 1967, Yehoshua Porat, Shabtai Tevet, Edward Said, Jacques Derrida, Avi Shlaim, Nakba (catastrofe), Mordechai Bar-On, A. B. Yehoshua, Menachem Brinker, Motti Golani, Shabtai beit-Zvi, Intifada, Benedict Anderson, Eric Hobsbawm, Ernst Gellar, Menachem Begin.