Guerra contro il tempo
Spunti di riflessione dalla storia dell’Adriatico giuliano e dalmata

Esistono definizioni di sintesi assoluta che nella loro semplice chiarezza sono diventate emblematiche. Quella della Storia intesa quale «guerra contro il tempo» come si afferma nell’incipit del grande romanzo manzoniano[1] ha fatto scuola perché colpisce magistralmente nel segno: infatti, l’impegno dello storico nasce per interpretare i fatti e le idee che li mossero, ma prima ancora, per tramandarne la memoria, ad onta dello scorrere inesorabile degli anni, dei secoli e dei millenni. In qualche misura, si tratta della guerra moralmente più nobile, perché combattuta senza il ricorso ad armi che non siano quelle della cultura e dell’arte.

Non fa eccezione la storia di Venezia Giulia e Dalmazia, con particolare riguardo a quella del Novecento, che si è tradotta in una cesura senza pari, dovuta al trattato di pace del 1947 con cui l’Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia (oltre al resto) due regioni che erano state sempre latine e venete, modificando a suo esclusivo danno una situazione consolidata da due millenni. In effetti, non si spiegherebbe altrimenti il profluvio di ricerche, saggi e testimonianze che da allora in poi hanno arricchito la documentazione e la bibliografia di un’immensa tragedia sintetizzata da due cifre icastiche: 350.000 esuli e 20.000 vittime infoibate o altrimenti massacrate dai partigiani di Tito.

Quanto al fatto che una parte notevole ma pur sempre minoritaria di quelle ricerche abbia finito per indulgere al riduzionismo o al negazionismo non significa molto; anzi ha contribuito ad approfondire il dibattito attraverso la confutazione degli argomenti proposti da queste interpretazioni devianti, tanto più che i fatti parlano da soli, a cominciare dai 110 campi di raccolta dei profughi, distribuiti su tutto il territorio nazionale, e dagli interminabili elenchi nominativi delle vittime, affidati alla memorialistica, alle istruttorie giudiziarie e, in parecchi casi, anche al marmo dei monumenti.

Nella medesima ottica, non è senza significato il fatto che, nonostante la progressiva scomparsa della prima generazione di esuli, le ricerche e le testimonianze siano in perenne sviluppo, dimostrando che certe ferite sono sempre aperte e che difficilmente potranno guarire, come accade per quelle indotte dal Risorgimento o dalla Grande Guerra.

In altri termini, la «guerra contro il tempo» continua con successo, con buona pace di quanti vanno sostenendo che bisogna pensare al futuro e che conviene stendere un velo di oblio sulle vicende del passato, dimenticando – con quanta buona fede è facile immaginare – che «un popolo senza memoria storica è un popolo senza avvenire». Una volta tanto, si tratta di una guerra certamente giusta, non solo perché si combatte senza spargimento di sangue, ma nello stesso tempo, perché il nemico da abbattere risorge sempre dalle sue ceneri come l’araba fenice, sottolineando la perenne attualità dell’impegno etico contro le «vie dell’iniquità» di cui alle parole di Monsignor Antonio Santin, ultimo eroico Vescovo di Trieste e Capodistria.

La storia non è maestra di vita, come talvolta si afferma, perché altrimenti non si riuscirebbe a comprendere la ripetizione di tanti errori: su tale assunto non sussistono dubbi da quando la scienza politica, simboleggiata da un grande Maestro come Giovanni Sartori, ha dimostrato la sua inconsistenza. Nondimeno, nessuno potrebbe negare il suo ruolo di opposizione all’oblio e di costruzione di una memoria sempre più necessaria a comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove possiamo andare, tanto più importante nell’età della globalizzazione, oltre che di una generica indifferenza che urge esorcizzare, laddove si voglia perseguire un efficace ed effettivo recupero dell’«ethos».

Negli anni Quaranta, e segnatamente nello scorcio conclusivo della Seconda Guerra Mondiale, o peggio ancora negli anni successivi, in Venezia Giulia e Dalmazia venne compiuto un delitto contro l’umanità, a seguito di un autentico «genocidio programmato» come da lucida intuizione del Professor Italo Gabrielli[2]. Caddero tanti patrioti integerrimi, tanti fedeli servitori dello Stato Italiano con la sola colpa di essere stati fedeli al dovere, tanti civili innocenti, tra cui parecchie centinaia di donne, minori e invalidi; e caddero persino diversi comunisti non ortodossi, in quanto contrari al disegno di annessione alla Jugoslavia delle loro terre italiane formalizzato col «diktat». Davvero, in quella stagione plumbea parve realizzarsi ancora una volta l’antico assioma del Vico circa la realtà di uomini che avevano perso la primigenia immagine umana per assumere quella di «bestioni tutta ferocia».

Gli aspetti ferini di un’epoca in cui ogni «pietas» era davvero morta sono suffragati dal vile comportamento delle forze di Tito nei confronti di coloro che nello scorcio finale del conflitto trattarono le condizioni di una resa onorevole, accettate con la riserva mentale di farne carta straccia non appena fossero state consegnate le armi. Ciò, in palese spregio delle norme di diritto internazionale, che peraltro molte bande avrebbero affermato a posteriori di non accettare; ma prima ancora, in deroga alle consuetudini vigenti sin dai tempi di Omero, quando la sospensione degli scontri era prassi finalizzata a rendere gli onori ai caduti, assieme a una degna sepoltura.

Fu una stagione di illusioni, nella fallace speranza di usare un dialogo di convenienza con chi aveva fatto strame della civiltà: motivo di più per apprezzare il nobile comportamento di chi non volle arrendersi scegliendo la «bella morte» in battaglia se non anche il suicidio, pur di non cadere nelle mani di un nemico la cui prassi di non fare prigionieri era tristemente nota, al pari delle sevizie spesso allucinanti prima della morte liberatoria. In effetti, quanto era accaduto a Zara e in Dalmazia dopo la «conquista» titoista di fine ottobre 1944 avrebbe dovuto aprire gli occhi, ma talune di quelle illusioni furono pervicaci, in specie alla fine della guerra, quando si fece strada la presunzione secondo cui il silenzio delle armi avrebbe potuto indurre comportamenti di qualche correttezza civile.

Quello della Dalmazia, prima degli altri, fu un esempio emblematico: ormai isolata dalla madrepatria, sottoposta alla dura occupazione tedesca sin dall’armistizio del settembre 1943, martirizzata dagli innumerevoli e ingiustificati bombardamenti alleati, straziata dalla fame, dalle malattie e dagli stenti[3], è comprensibile che da parte italiana si fossero cercati cauti approcci con il movimento partigiano in attesa di una fine ormai irreversibile, visto che le forze dell’Asse si stavano ritirando dovunque; approcci tanto più rischiosi perché compiuti in presenza del rigido sistema militare imposto dalla Wehrmacht e del necessario adeguamento esteriore alle pretese tedesche, rese più cogenti dal voltafaccia della Monarchia Sabauda e dalla «fuga» di Vittorio Emanuele III.

Eppure, all’indomani della «liberazione» da parte dei comunisti di Tito, gli accordi faticosamente raggiunti apparvero subito palesi nella loro tragica strumentalità, andando ad accrescere in tempi rapidi il numero delle vittime, a Zara come a Spalato, a Sebenico come a Ragusa, e via dicendo. Nell’ambito della superstite dirigenza italiana, si sarebbe temporaneamente salvato soltanto il Prefetto Vincenzo Serrentino, richiamato a Trieste dal Governo della Repubblica Sociale Italiana con l’ultimo trasporto utile prima della capitolazione finale, per esservi catturato dai partigiani di Tito durante il terribile maggio del 1945, spedito nuovamente in Dalmazia quale «criminale di guerra» e fucilato addirittura due anni dopo, con quali angosciose vicissitudini è facile immaginare. Più rapida fu la sorte infausta di tanti altri Italiani, militari e civili, annegati nelle acque dell’Adriatico con una pietra al collo, o altrimenti martirizzati, come i Luxardo, i Ticina, gli Antissimi, i Bailo, in un crescendo quasi orgiastico in cui l’odio di classe si coniugava indissolubilmente con quello di nazionalità[4].

Scomparvero anche le forze di polizia e gli ultimi Carabinieri, sebbene prima della resa avessero avuto la specifica garanzia che sarebbe stato affidato proprio a loro il compito di garantire l’ordine pubblico. Al contrario, conobbero la medesima sorte iniqua riservata agli altri, con qualche variazione sul tema dettata non certo da esigenze funzionali ormai inesistenti ma dal desiderio di vendetta: è il caso del Maggiore Medico Pellegrino Trafficante, e soprattutto del Tenente Ignazio Terranova per la cui fine sussistono due diverse versioni (la prima, relativa a una presunta fucilazione sul posto per avere innalzato l’ultimo tricolore sul Duomo di Zara, e la seconda, all’esecuzione di condanna a morte eseguita qualche tempo dopo a Sebenico per le precedenti attività nell’ambito del SIM) peraltro non inconciliabili a priori, ma verosimilmente integrabili nell’ottica di un immediato arresto iniziale seguito da alcuni mesi in cattività, all’insegna di chissà quali angherie prima dell’esecuzione.

Ecco tante buone ragioni per suffragare la necessità della «guerra contro il tempo» di cui si diceva. Il trattamento riservato agli Italiani da parte jugoslava non ebbe eguali, sia pure nelle dure condizioni di prigionia praticate dagli altri Stati vincitori, soprattutto nei confronti di chi era rimasto fedele alla bandiera patria e non aveva voluto collaborare, ma riscuotendo, al termine della lunga e difficile detenzione, l’ammirato apprezzamento dei comandanti ex nemici: quello che manca tuttora in Croazia e Slovenia, fedeli alla tradizionale «vulgata» dei crimini italiani, lontana anni-luce dall’oggettività di una storia fedele all’imperativo categorico di Tacito: «Chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve riferire senza amore e senza odio».


Note

1 Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Sansoni Editore, a cura di Attilio Momigliano, Firenze 1951. L’Autore, dopo la definizione, ha sviluppato il concetto facendo riferimento a una storia che toglie di mano al tempo «gli anni suoi prigionieri» richiamandoli in vita, passandoli in rassegna, e schierandoli di nuovo «in battaglia».

2 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati, Genocidio programmato, Edizioni Lithos Stampa, Udine 2011 (con particolare riferimento alla definizione del crimine di genocidio e alla sua condanna, di cui alla pagina 57).

3 Il martirio di Zara venne riconosciuto, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, quando decise di conferire al Gonfalone del capoluogo dalmata la Medaglia d’Oro al Valore: iniziativa meritoria, anche se tardiva, ma bloccata e rimasta senza seguito per le proteste avanzate da parte croata a fronte di un presunto quanto fallace riconoscimento di meriti «fascisti».

4 Nell’ambito della copiosa storiografia e memorialistica in materia, è di fondamentale rilevanza, anche per la sua ufficialità, il Treatment of the Italians by the Yougoslavs after September 8th, 1943, 126 pagine: si tratta di un esaustivo Rapporto sui crimini slavi (con testo italiano in calce e ampio supporto fotografico) predisposto dal Governo Italiano per la Conferenza di pace del 1946 e riprodotto nella sola versione italiana a cura della Regione Lazio e dell’Associazione Nazionale Dalmata, Roma 2009.

(ottobre 2018)

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