La Grande Livellatrice
Uno studio di forte attualità circa violenza e disuguaglianze dalla preistoria al giorno d’oggi

Sia pure nell’ambito di un andamento ciclico fatto di corsi e ricorsi che sembra richiamarsi alla teoria di Giambattista Vico, violenza e disuguaglianza sono una costante universale nella storia umana. Ecco l’amara ma realistica conclusione cui si perviene tramite una coinvolgente ricerca sugli ultimi 12.000 anni dell’uomo sul pianeta terrestre, opera dello storico austriaco Walter Scheidel, cattedratico della californiana Stanford University assurto a grande fama grazie al suo libro (La Grande Livellatrice, Società Editrice Il Mulino, Bologna 2019, 640 pagine), uscito recentemente con un titolo assai suggestivo e con la bella traduzione di Giovanni Arganese, contestualmente alla «lectio magistralis» che l’Autore ha tenuto a Bologna il 23 novembre 2019.

Il progresso conseguito nel mondo è innegabile, soprattutto sul piano tecnologico dove l’accelerazione è diventata esponenziale, ma ciò non ha impedito che i rapporti umani siano rimasti governati dalla violenza e dalla disuguaglianza, e dai loro inscindibili nessi. I tentativi per giungere a una ripartizione meno squilibrata delle risorse sono andati proliferando, in specie dall’Ottocento in poi, ma i risultati sono stati per lo meno deludenti, perché la concentrazione del reddito in poche mani, anche secondo Scheidel, procede di pari passo assieme alla civilizzazione.

Con mente laica fedele all’osservazione della «realtà effettuale» di machiavelliana memoria, lo storico austriaco sostiene che esistono quattro soli fattori in grado di modificare apprezzabilmente la situazione, pur senza la possibilità di risolverla una volta per tutte: grandi guerre, dissesti degli Stati, rivoluzioni strutturali, pandemie.

È chiaro che si tratta di eventi fortemente traumatici, ivi compreso l’ultimo, al giorno d’oggi di rinnovata attualità pur dovendosi esprimere non poche riserve sulla sua forza livellatrice, perché le maggiori possibilità terapeutiche rispetto alle grandi pestilenze del passato elidono il ruolo esercitato da queste pandemie nel ridurre drasticamente le popolazioni e nell’aumentare il prezzo del lavoro.

Attualmente, la coesistenza competitiva tra grandi Potenze ha dato luogo alla riduzione delle violenze belliche, ancorché bilanciate dalla crescita di conflitti economici e malavita organizzata, ma – non troppo paradossalmente – il fenomeno ha contribuito a un’ulteriore crescita delle disuguaglianze, tanto che un ristretto numero di miliardari è in grado di controllare metà delle risorse mondiali: di qui, la domanda ineluttabile su quale sia il futuro che attende le nuove generazioni, tanto più che dalla Seconda Guerra Mondiale in poi si è registrato un sostanziale fallimento delle strategie egualitarie, ivi compresa la cooperazione internazionale, ibernata dall’incapacità degli Stati a economia matura di dedicare una quota significativa del prodotto interno lordo allo sviluppo dei Paesi terzi, onorando impegni che avevano liberamente assunto nella Conferenza internazionale del 2002.

Secondo Scheidel la disuguaglianza è un fattore fisiologico le cui origini si perdono nella preistoria con l’avvento della coltivazione agraria, dell’allevamento e dei primi modelli di organizzazione «lato sensu» giuridica, con riguardo prioritario alla trasmissione ereditaria dei beni, nonostante la coesistenza di cruenti sacrifici umani non disgiunti da episodi di cannibalismo rituale, come nelle antiche civiltà degli Assiri o degli Atzechi.

All’epoca di Giulio Cesare esistevano fortune individuali che superavano quella media del «civis romanus» nella misura di un milione di volte, ma nel mondo di oggi il patrimonio di Bill Gates o di qualche suo concorrente si colloca in un rapporto con l’Americano medio sostanzialmente analogo a quello presente nell’Urbe di 2.000 anni or sono. In compenso, esistono Organizzazioni internazionali che si rendono garanti della lotta contro la fame e soprattutto della pace, o più realisticamente, che si propongono di rastremare la competizione fra grandi Potenze limitandola al comparto economico e circoscrivendo quella militare, almeno per il momento, a contesti locali peraltro assai diffusi in specie nel Terzo Mondo.

Scheidel non ignora che le guerre o le rivoluzioni debbono essere davvero «grandi» per poter incidere in maniera significativamente riduttiva sulle disuguaglianze: a esempio, la rivoluzione americana o quella francese non lo furono in maniera sufficiente, in quanto sostanzialmente borghesi. Dal canto suo, quella sovietica, nonostante lo straordinario numero di Vittime – o anche per questo – finì per esprimere una «nomenklatura» matrice di rinnovate discriminazioni anti-egualitarie, nonostante la sua attesa quasi messianica di un affrancamento conclusivo del proletariato, che non sarebbe mai avvenuto: tanto meno, dopo le ricorrenti purghe staliniane degli anni Trenta e la «grande guerra patriottica» in difesa dell’antica Russia. Implicitamente, è la dichiarazione di un fallimento programmato, o meglio l’affermazione dell’ineluttabile.

Considerazioni analoghe valgono per ogni grande «défault». Basti rammentare che l’Argentina ne ha collezionati nove senza che ne siano conseguite modificazioni decisive in chiave socio-economica, pur avendo coinciso con la distruzione di qualche patrimonio eccellente, sostituito con la creazione di nuove fortune. «Mutatis mutandis» lo stesso si può dire per le pandemie, a cominciare da quelle storiche della peste o del colera che diedero luogo a forti mutazioni selettive anche sul piano economico.

In conclusione, quelle che Walter Scheidel si pone e ci propone sono domande che suscitano pensieri non certo rosei: il prezzo della pace è forse la permanenza se non anche l’aumento delle diseguaglianze? Ed è lecito perseguire un livello meno marginale di uguaglianza pur nella consapevolezza che la sua conquista sarebbe comunque dolorosa in quanto indotta da fattori in buona parte traumatici? Non è congruo rammentare che i conflitti derivati dalle guerre e dalle rivoluzioni hanno lasciato sul terreno «centinaia di milioni di morti»?

Qualora si prescinda dalle pandemie che fino a prova contraria costituiscono una tragedia naturale, assieme a quelle di pari origine con cui bisogna comunque confrontarsi, gli altri «Cavalieri dell’Apocalisse» a cui l’Autore fa riferimento, con riguardo prioritario alle grandi guerre e alle grandi rivoluzioni, ma senza escludere i dissesti finanziari degli Stati, sono un prodotto umano che allo stesso tempo costituisce causa ed effetto della violenza originaria e di quelle che ne scaturiscono a cascata. In tale ottica, le conclusioni non possono essere ottimistiche, soprattutto qualora si prescinda dal necessario riferimento alla rivoluzione cristiana: la sola in grado di coniugare utilmente la lotta alle disuguaglianze con quella alla violenza.

In ogni caso, al di là del titolo volutamente problematico, ne scaturiscono riflessioni di forte spessore morale e civile, anche perché i tempi di una vagheggiata Repubblica Universale stanno diventando sempre più utopistici, a tutto vantaggio delle «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria.

(luglio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Giambattista Vico, Walter Scheidel, Giovanni Arganese, Nicolò Machiavelli, Giulio Cesare, Bill Gates, Josip Stalin, Giacomo Leopardi, La Grande Livellatrice, disuguaglianze nella storia.