Ernst Nolte
Ricordo del grande storico tedesco

La recente scomparsa di Ernst Nolte, avvenuta in Germania nello scorso agosto, dopo una lunga ed autorevole milizia nella storiografia e nell’insegnamento in diverse Università (era nato a Witten nel 1923 ed aveva vissuto in prima persona il grande dramma tedesco del Novecento), può ritenersi la chiusura di un’epoca culturale improntata ad alte e complesse meditazioni, ma tanto più significative, alla luce di una viva e sofferta esperienza.

La produzione di Nolte è stata oltremodo ampia e la sua influenza si è largamente diffusa anche in Italia, anzitutto sul piano di un metodo oggettivo in cui è facile cogliere spunti della grande scuola di Friedrich Meinecke, se non anche di Tacito: come ebbe ad affermare il celebre storico romano, «chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio». Ebbene, Ernst Nolte è stato fedele a questo canone di base, pur interpretando tutta la vicenda contemporanea con una partecipazione molto sentita.

La sua opera più nota, e più diffusa in Italia, è certamente Der Faschismus in seiner Epoche uscita nel 1966 e tradotta nel 1971 col titolo I tre volti del fascismo (edita da Mondadori): una grande rassegna storica e filosofica sulla genesi e sugli sviluppi dei movimenti di Destra del Novecento, nei tre maggiori Paesi Europei, con specifico riguardo ad «Action Française» di Charles Maurras ed alle sue lontane origini nella Restaurazione; quindi, al nazionalsocialismo tedesco ed al fascismo italiano, anche in quelle matrici che oggi potrebbero definirsi populiste.

Si tratta di uno studio che non è azzardato definire fondamentale: muovendo da un’analisi approfondita delle cause e delle motivazioni di quei movimenti, giunge a proporre un quadro comparativo esauriente, indispensabile ad ogni ulteriore ricerca in materia, e supportato dall’analisi talvolta spregiudicata ma sempre pertinente dei fatti e da un’informazione bibliografica particolarmente ampia.

Nolte, per un atteggiamento di fondo improntato ad una difficile oggettività, non è stato immune da contestazioni, in specie nel suo Paese, da parte di chi volle vedere nella sua opera taluni spunti di rivalutazione del nazismo, laddove esistevano semplicemente una forte coscienza morale, e la necessità di approfondire, anche sul piano psicologico e sociologico, le ragioni che avevano promosso l’ascesa hitleriana.

Per alcuni aspetti, si tratta di un destino analogo a quello che ha finito per coinvolgere Renzo De Felice e la sua scuola «revisionista»: una scuola che in realtà non può definirsi tale, se non altro dal punto di vista semantico, perché la storia non è mai definitiva, come è stato puntualizzato da Benedetto Croce quando ne sottolineava il carattere di permanente ricerca e di continuo approfondimento: elementi che ne costituiscono un principio prioritario, sempre ineludibile. In questo senso, il revisionismo non può essere motivo di critica in quanto tale, perché esprime un’esigenza imprescindibile della vera storiografia.

Ciò non significa che Ernst Nolte abbia potuto o voluto indulgere ad interpretazioni contraddittorie, se non anche opinabili, come quelle di qualche storico che, nella migliore delle ipotesi, si potrebbe definire troppo eclettico: al contrario, aveva il pregio della chiarezza. Un esempio? Quando commenta l’Impresa di Ronchi, compiuta nel 1919 da Gabriele d’Annunzio con la «conquista» di Fiume, afferma senza mezzi termini che all’epoca «era assolutamente inverosimile che la città fosse semplicemente lasciata alla Jugoslavia, o che potesse cadere vittima di un colpo di stato croato» (I tre volti del fascismo, II edizione, Milano 1974, pagina 273). È vero che il Patto di Londra, pur lasciando all’Italia tre quarti della Dalmazia, aveva escluso proprio Fiume, ma la coscienza collettiva, che Nolte coglie con immediata capacità di una sintesi quasi icastica, prescindeva dalle vecchie intese per abbracciare la priorità dell’ethos.

Non meno significativo fu l’assunto dello storico tedesco secondo cui l’Italia, alla vigilia delle due Guerre Mondiali, e più specificamente nel 1914-1915 e nel 1939-1940, aveva atteso dieci mesi prima di scendere in campo perché non c’era alcuna «ragione essenziale» per farlo: giudizio indubbiamente «tranchant» ma pur sempre da meditare ed approfondire, a prescindere dalla singolare ma in qualche misura, non casuale «ripetizione» del fatto, se non altro perché la scelta bellica è per sua natura irreversibile, e toglie ogni spazio a qualsiasi possibile negoziato.

Nolte fu alieno dal giustificare, e tanto meno dal condividere il modello totalitario che, sia pure con manifestazioni ed accentuazioni molto diverse, era stato realizzato nel Reich nazionalsocialista, nella Francia di Vichy e nell’Italia fascista, ma cercava di comprenderne le ragioni, anche lontane, con un esame a tutto campo che costituisce un esempio di alto metodo storiografico: il trattamento riservato alla Germania, da parte delle maggiori Potenze vincitrici, al termine della Grande Guerra non fu certamente alieno dal creare taluni presupposti importanti dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, che sedimentarono a lungo nel «Volksgeist» del popolo tedesco.

Quanto alla Francia, la clamorosa sconfitta militare che aveva portato la Wermacht all’ombra della Torre Eiffel ebbe effetti dirompenti in molte coscienze, a cominciare da quelle dello stesso Charles Maurras e del Maresciallo Philippe Pètain, che parvero chiamati a salvare il poco ancora salvabile, in un momento davvero tragico, concluso con il forte ma apparentemente velleitario appello della «Francia libera» ad opera del Generale De Gaulle.

Si tratta di aspetti che non possono essere ignorati, e Nolte li analizza sempre compiutamente, mettendo in evidenza errori ed illusioni, in specie da parte di quanti avevano presunto che quello del 1914-1918 sarebbe stato l’ultimo conflitto.

Non meno acute, e talvolta indubbiamente originali, sono le sue interpretazioni dell’esperienza fascista e del ruolo di Benito Mussolini: un personaggio che – secondo Nolte – non avrebbe mai superato il «complesso» dell’antica fede socialista, pur dovendo confrontarsi con l’intransigenza di parecchi «ras» e con un carattere personale tanto impetuoso quanto estemporaneo, per non dire delle carenze di dottrina cui venne sopperito soltanto a posteriori.

Non a caso, persino nel discorso che il Duce del fascismo tenne alla Camera il 3 gennaio 1925, ed in cui buona parte della storiografia ha ravvisato l’avvento dello stato totalitario, Nolte intravede spunti di contraddizione se non addirittura di «disperazione» a fronte di una piega assunta dagli eventi in modo difforme dai vecchi auspici, senza dire che, per qualche aspetto, la stessa esperienza della Repubblica Sociale Italiana avrebbe visto il tentativo di un ritorno alle origini ormai utopistico, ma non per questo meno significativo.

L’ascesa di Mussolini al potere era avvenuta in un quadro complesso, in prevalenza conservatore, oltre che patriottico, grazie alle cospicue adesioni del mondo economico e di quello combattentistico, ma il Ventennio, diversamente da quanto è stato affermato nella «vulgata» maggioritaria, ebbe momenti di forte attenzione sociale, e di un consenso che fu pressoché plebiscitario sin verso la fine degli anni Trenta, trovando l’apoteosi quando il Duce parve essere il «salvatore» della pace, come accadde nella conferenza di Monaco nonostante la fagocitazione della Cecoslovacchia, e come era accaduto quando era stata proclamata la «rinascita» dell’Impero.

Assieme a tante altre, queste meditazioni hanno trovato ampi spazi nell’opera di Ernst Nolte, sempre aperta ad un giudizio critico di uomini e cose, ad ampio spettro, pur nell’ambito di una motivata propensione alla ricerca di ragionevoli valutazioni finali: senza dubbio, un grande Maestro che ha proposto un messaggio di alta coerenza etica, oltre che storiografica, destinato a lasciare un segno perenne ed un esempio importante di metodo, di cultura e di fede.

(ottobre 2016)

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