Il dramma delle foibe nei pubblici ricordi
Palma di Montechiaro cancella la toponomastica intitolata al Maresciallo Tito ed onora i Martiri delle Foibe. Riflessioni ed auspici

Sono passati 56 anni da quando il Tribunale di Roma assolse con formula piena Silvano Drago, il Direttore di «Difesa Adriatica» che, secondo la denuncia sporta nei suoi confronti dall’Ambasciata Jugoslava in Italia, aveva offeso il Presidente Tito, definendolo «infoibatore ed assassino» in un suo articolo: era la pura verità, da cui il Collegio giudicante non volle consapevolmente prescindere, confermando il vecchio assunto proverbiale, secondo cui la volontà non offende. Il segnale giudiziario (3 maggio 1961) ebbe un rilievo tanto più significativo, in quanto fu contestuale all’organizzazione della prima Conferenza dei Paesi non allineati, proprio ad iniziativa della Jugoslavia di Tito e delle sue vaghe ambizioni terzomondiste; nello stesso tempo, a livello interno confermava che non erano più attuali le grottesche affermazioni con cui qualche candidato comunista del Fronte Popolare[1] aveva accomunato i «banditi giuliani» al noto fuorilegge Salvatore Giuliano.

Eppure, nonostante quella sentenza, suffragata da fior di testimonianze e da un’ampia ed oggettiva storiografia, in tempi successivi 12 Comuni della Repubblica Italiana, fra cui tre capoluoghi di provincia (Nuoro, Parma e Reggio Emilia), hanno ritenuto congruo ed opportuno onorare il satrapo di Belgrado nella propria toponomastica, dedicandogli una via od una piazza. Sinora, soltanto uno (Cornaredo) aveva accolto il «grido di dolore» del popolo giuliano, istriano e dalmata, revocando la delibera in questione, anche alla luce della volontà politica espressa dal legislatore nazionale con la Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del Ricordo di Esodo e Foibe, ed approvata dal Parlamento con voto quasi unanime[2].

Anche per questo, si deve sottolineare quale nobile atto dovuto la delibera assunta il 5 maggio 2017 dal Comune di Palma di Montechiaro (Agrigento), con cui il Commissario Antonino La Mattina ha cancellato la toponomastica inneggiante a Tito sostituendola con quella in onore dei Martiri delle Foibe: con ciò, adeguandosi a quanto avevano già fatto, in specie dagli anni Novanta in poi, oltre 600 Amministrazioni municipali di tutte le Regioni. Va aggiunto che la delibera di cancellazione era stata assunta sin dal 2012, ma che non era stata resa esecutiva, per quali residue resipiscenze è facile immaginare. Ora, il Commissario ha fatto di più e di meglio, vista la meritoria e specifica innovazione – documentata dalle fotografie della nuova targa con l’emblema comunale – sottolineando quanto possa essere importante la volontà di trascendere e superare tante sterili logomachie.

Il caso di Palma, da questo punto di vista, merita di essere sottolineato, tanto più che 10 Comuni mancano tuttora all’appello, avendo conservato le intitolazioni toponomastiche a Tito: queste sì, moralmente offensive e politicamente infondate. Del resto, vale la pena di aggiungere che dopo lo sfascio della vecchia Repubblica Federativa persino nella ex Jugoslavia sono stati parecchi gli aggregati urbani in cui il nome di Tito venne prontamente cancellato dalle targhe stradali, senza dire che le adunate dei suoi nostalgici hanno assunto un carattere patetico, sottolineato da presenze sempre più ridotte.

Si dirà che 10 Comuni costituiscono una percentuale minima delle Amministrazioni locali italiane. È vero, ma non sta scritto che bisogna fare più festa per un peccatore pentito che non per 99 giusti? Citazioni bibliche a parte, la pervicacia con cui alcune città intendono perseverare nel «peccato» di omaggio a Tito, a prescindere dal giudizio storico ormai definitivo, ha finito per diventare una strumentalizzazione politica di posizioni estremiste che la maggioranza avrebbe il diritto-dovere di elidere, tanto più che le ragioni di buon vicinato con l’altra sponda adriatica appartengono ad una storia ormai archiviata. In questo senso, l’esempio di Palma merita una riflessione non effimera.

Innegabilmente, il «vulnus» creato da Esodo e Foibe, dando luogo a quello che Italo Gabrielli, sulla scorta della dottrina giuridica e di inoppugnabili valutazioni etiche, ha definito un vero e proprio genocidio[3], è di tale impatto da essere comunque incancellabile, anche nelle proiezioni a lungo termine. Nondimeno, è proprio per questo che il popolo istriano, fiumano e dalmata esige a più forte ragione un riconoscimento simbolico della sua consapevole scelta di civiltà e di giustizia in cui vengano meno gli ossequi all’usurpazione, o peggio ancora, all’assassinio programmato: le «vie dell’Inferno» – come avrebbe detto l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria Monsignor Antonio Santin – debbono lasciare spazio a quelle di una grande fede e di un’indomita speranza.


Note

1 La surreale similitudine venne proposta in un comizio tenuto a Camogli da Eros de’ Franceschini durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che avrebbero visto la clamorosa sconfitta del blocco social-comunista.

2 Alla Camera dei Deputati si contarono 15 suffragi contrari, tutti espressi dall’estrema Sinistra.

3 Confronta Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Edizioni Litografica, Udine 2011.

(luglio 2017)

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