Considerazioni sul mestiere di storico
Le difficoltà della ricerca, tra pressioni politiche e scarsa volontà di dialogare e di far luce sulle «zone d’ombra»

Lo storico francese Marc Bloch nel XX secolo pubblicò una monografia dal titolo Il mestiere di storico dove indicò quelli che riteneva essere i punti fermi di tale mestiere. Uno su tutti: guardare al passato con gli occhi di un osservatore attento ai documenti e alle moltissime sfaccettature che la storiografia, anche quella così detta minore, può evidenziare.

Un laureato in storia non è uno storico e questo vorrei metterlo bene in evidenza. È spesso, sicuramente nel mio caso, una persona che ama la disciplina, che è stata educata ad apprezzarla e che ha voluto intraprendere un percorso formativo per avere una visione più articolata sul passato. Come Marc Bloch penso che non esista la grande storia e la storiografia minore. Questo modo di ragionare degli storici spesso è strumentale e qui lo voglio assolutamente denunciare.

Uno storico «di mestiere» spesso è costretto a rispondere a degli editori, alla necessità di esprimere nel suo curriculum delle pubblicazioni, magari con una determinata tempistica. Dunque già questo da solo testimonia quanto sia complesso «il mestiere di storico». E con queste poche parole non voglio assolvere nessuno ma semplicemente osservare dinamiche che sono del tutto evidenti. A questo dobbiamo aggiungere i condizionamenti politici. Tali condizionamenti ci sono sempre stati e l’epoca contemporanea non fa di certo eccezione.

Non si tratta solo di come lo storico sia una persona che ha le sue idee e una sua formazione personale. Quando parlo di condizionamenti politici intendo la presenza nella vita di uno storico come di ognuno di noi di legami professionali con persone, situazioni lavorative e potrei continuare. Dunque l’oggettività, anche in presenza di nutrita documentazione, è quanto meno molto ridotta. Per giustificare queste affermazioni porterò la mia personale esperienza.

Sono cresciuta in una famiglia apparentemente operaia e contadina ma sin da piccola mi sono sempre chiesta perché i miei genitori, i miei zii e zie fossero così particolari. Una zia nata nell’anno 1900 che aveva l’abitudine non di raccontarmi favole, come si fa con un bambino di sei anni, ma di descrivermi ad esempio passaggi obbligati e molto dettagliati della Guerra delle Due Rose in Inghilterra nel Cinquecento. Con osservazioni molto personali sugli Stuart, sui Winchester e così via. La zia parlava italiano senza alcuna inflessione dialettale, neppure toscana. Insomma un personaggio. Tra l’altro si chiamava Vittoria (come la Regina? Lei negava).

Io le chiedevo: «Zia, ma tu non hai inflessioni dialettali?» Nessuna risposta. E ancora: «Perché conosci così bene queste vicende storiche?» Ero una bambina curiosa che si faceva sempre domande. E lei rispondeva: «Era tuo nonno a conoscere queste vicende», ossia suo padre, il mio bisnonno Roberto, che non avevo mai conosciuto. Perché così dotto il bisnonno? Nessuno mi ha mai risposto.

E così potrei continuare con aneddoti e situazioni. Familiari.

Una famiglia contadina che conosceva le lingue straniere, soprattutto la lingua inglese. Una zia Miranda (La Miranda di Shakespeare? No, diceva lei, io sono «ad Miranda» ossia da ammirare).

Mai stata in Inghilterra, la zia Miranda parlava inglese come se ci avesse vissuto tutta la vita. Era un’insegnante elementare.

Poi una zia che viveva negli Stati Uniti, trasferitasi lì con la famiglia per difficoltà economiche intercorse in Italia. E naturalmente altri zii, erano molti, che apparentemente non conoscevano lingue straniere, così affermavano loro, salvo poi recarsi negli Stati Uniti con compagnie di bandiera statunitensi senza che sopra quegli aerei (siamo negli anni Sessanta e Settanta) volassero spesso Italiani. Loro partivano, così sapevo io, da soli, senza compagnia di sorta. A New York cambiavano aereo per recarsi a San Francisco perché all’epoca non esistevano voli diretti.

Pensavo, intraprendenti. Avevano un vasto bagaglio culturale, sicuramente sul piano letterario. Ne ero a conoscenza vedendo la mole delle loro letture sia dei classici in ambito internazionale che altro, comprese riviste e giornali. Francamente, nonostante mi sia laureata a pieni voti, non ho il loro vasto bagaglio culturale. Né la loro netta intraprendenza. Che strani contadini, mi dicevo sin da piccola, e non ho mai sesso di farmi domande. Avevo ragione.

Da qui «parte» il «mio» mestiere di storico. Dalla propria famiglia, dalle proprie radici. A volte inimmaginabili per un comune mortale.

Non sto e non voglio entrare in meccanismi che un lettore attento può comprendere, del tutto complessi e imprevedibili, ma andare oltre, con la mia «denuncia».

Il mio caro amico e curatore del sito storico www.storico.org che ho il piacere di leggere e su cui scrivo, il Dottor Simone Valtorta, in un suo articolo apparso sul sito ha chiarito come il mestiere di storico somigli parecchio a quello di un giudice: istruttoria, dibattimento e giudizio. Confermo.

Istruttoria: possono gli Stati di qualunque natura essi siano (assolutistici, di polizia, democratici eccetera) occultare i cadaveri? La risposta è sì. Lo storico, se intellettualmente onesto, deve non temere lo Stato o gli Stati ma cercare tra le carte il cadavere occultato. I documenti non si trovano per strada ma a volte sono davvero a portata di mano, basta volerli leggere e divulgare. E qui entra in gioco il mestiere di storico. Non basta dire: «C’è uno Stato o più Stati che vogliono conservare certi rapporti sia interstatali che più genericamente sovranazionali». I documenti parlano, le regole anche in ambito storiografico, soprattutto in uno Stato democratico, ci sono, allora facciamoci delle domande.

Mi sono occupata di Storia Risorgimentale a lungo non per scelta ma per necessità.

Ho trovato gli storici muratoriani sul mio cammino, voglio chiamarli così. Non solo Antonio Muratori ma anche Monsignor Giandomenico Pacchi di Castelnuovo Garfagnana, suo amico e collaboratore. Siamo, con Muratori, tra Seicento e Settecento.

Il secolo dei lumi è un secolo davvero prodigioso ma anche poco studiato, nonostante le apparenze. Questi storici, in particolare Giandomenico Pacchi,[1] fanno alcune osservazioni interessanti nelle loro pubblicazioni. Lo storico di Castelnuovo asserisce che la donazione matildica non ebbe valore in Garfagnana per alcun Papa e ne dà una spiegazione plausibile ma da ragionare. Dice che quei territori appartenevano a Fanti cugini della stessa Matilde, che aveva avuto il suo quadrisavolo Sigifredo Atto proveniente proprio da quei luoghi. Un’affermazione importante, che richiederebbe da parte degli storici svariati approfondimenti. Invece la dinastia longobarda dei Sigifredi Lucchesi e dunque Garfagnini la si fa «scomparire» nel Cinquecento.

E ancora lo storico Paolo Mencacci, sempre in riferimento alla città di Lucca, con l’autorevole prefazione dello storico Franco Cardini, sostiene che in Lucca, al momento dello scioglimento dell’Ordine Templare, la nutrita Magione Lucchese permise ai suoi affiliati di continuare a fare quanto facevano prima, naturalmente, si evince, sotto mentite spoglie. Non solo, ma lo storico afferma nella sua pubblicazione che gli Orti della Magione Templare Lucchese erano di fatto adiacenti (solo adiacenti, aggiungo io, oppure coincidenti?) con quelli della sede dei frati domenicani lucchesi con cui i Templari stranamente, perché altrove ciò non accadeva, erano sempre andati d’accordo. Aggiungo io che il famoso tesoro di Papa Clemente V, colui che viene storicamente definito il Papa che sciolse l’Ordine e mandò al rogo gli eretici templari, finì proprio nel convento dei Domenicani Lucchesi che si erano offerti di proteggerlo. E il presunto saccheggiatore del nutrito tesoro papale, tesoro che Clemente V cercava di portare a casa sua, in Francia, transitando sulla Francigena e passando per Lucca, ossia Uguccione della Faggiuola, dimenticò i frati e la parte del tesoro che questi avevano nel loro convento. Per poi ritornarvi e prendersi il bottino. Anche se quest’ultima ricostruzione «ufficiale» di fatto non è mai stata provata completamente.

Ora tutto questo non è sconcertante? I «desaparecidos» Suffredinghi che ancora «regnavano» in Lucca, visto che scompaiono dai radar nel Cinquecento e che avevano rappresentato la più potente casata regnante longobarda a partire dai tempi del potente Ducato Lucchese, che cosa avranno fatto in quel frangente?

Il lettore mi dirà: non ci sono i documenti necessari per approfondire. Ma francamente sventolare bandiera bianca mi sembra un atteggiamento non del tutto storico, visto che uno storico dovrebbe anche occuparsi di nessi e relazioni. Io non sono medievista e ho trovato queste carte solo perché i miei personaggi risorgimentali, di cui mi sono occupata nelle ricerche, anche loro lucchesi, provenivano da famiglie che nel periodo ascritto già avevano nella città di Lucca un ruolo sociale determinante.

Se i loro comportamenti sono afferenti ai comportamenti dei personaggi descritti dallo storico Mencacci[2] e dallo storico Giambastiani, potevo io non approfondire per comprendere le loro dinamiche nel corso del Risorgimento?

E qui vengo a definire un terreno che mi è più familiare. Ho trovato molte carte inedite risalenti al Primo Risorgimento di cui nessuno storico di professione di fatto si era mai occupato. E ne sono coinvolti, mi ripeto, personaggi che afferiscono a famiglie che nel Medioevo avevano un ruolo preciso. Dove sono stati sin qui gli storici di professione? Mi si risponde che sono personaggi minori, che le loro vicende non determinano l’interesse e le vicende per il periodo trattato. E poi ci sono i rapporti internazionali.

Dunque, seguendo il percorso definito, mi presento, dopo l’istruttoria, al processo.

Per riprendere le definizioni del Dottor Valtorta.

Io non voglio fare processi, dico semplicemente che 50 anni è il tempo necessario per poter pubblicare vicende politiche, sociali, economiche, anche e soprattutto culturali, perché di questo si parla. E invece nulla. Io le ho pubblicate solo in rete. Nessun editore al momento ha accettato le mie profferte.

Non sono uno storico, sono una persona semplice, però devo dire che tutti gli storici a cui mi sono rivolta non hanno dato ragione con le loro carte alle mie carte. Non voglio forgiarmi di alcun merito, vorrei semplicemente che chi ne sa più di me si adoperasse e non sostenesse semplicemente che quello che ho pubblicato è poco significante. Leggo sempre in rete su «Academia», e non voglio fare pubblicità, perché io fra l’altro ho solo l’iscrizione ma non interagisco col sito citato, che in molti, pare, abbiano messo in nota nelle loro pubblicazioni i miei studi, soprattutto fuori d’Italia. Se è così me ne compiaccio, io non ho verificato la veridicità di queste notifiche.

Quella che intendo ora definire, sempre usando la terminologia del curatore del sito www.storico.org, il Dottor Simone Valtorta, è la terza parte della mia trattazione: il giudizio. Come «giudice» mi esprimo negativamente, poca trasparenza, poca volontà di esaminare le carte, pochi strumenti che gli storici di professione ammettono di avere. Ma il primo e più significante giudizio lo darà la Storia.


Note

1 Giandomenico Pacchi, Dissertazioni, pubblicazione presente alla Biblioteca Statale di Lucca.

2 Paolo Mencacci, Templari a Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore.

(agosto 2021)

Tag: Elena Pierotti, il mestiere di storico, Marc Bloch, Franco Cardini, Paolo Mencacci, Giandomenico Pacchi, Antonio Muratori, Claudio Giambastiani, Maria Pacini Fazzi, Templari a Lucca.