Attualità dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata
Riflessioni sul fondamento etico di un alto pensiero politico e sociale

Molte manifestazioni culturali organizzate nell’Italia di oggi con scopi celebrativi, e nell’intento di commemorare questa o quella ricorrenza, hanno un impatto necessariamente limitato nel tempo e nello spazio, circoscritto in buona misura agli addetti ai lavori. Esistono, peraltro, eccezioni ragguardevoli che è congruo sottolineare, in specie quando si pongono contro corrente ma hanno assunto valenze molto precise, soprattutto in chiave etica.

Un caso di scuola deve considerarsi quello dell’irredentismo[1] giuliano, istriano e dalmata, traendo spunto dalle iniziative che gli furono riservate durante il «secolo breve» e fino all’inizio del nuovo millennio: in genere, davanti a un pubblico composto prevalentemente da esuli, ma anche da esponenti della storiografia e della cultura. In genere, si muoveva dalle origini del movimento irredentista analizzandone i momenti più importanti fino all’apice del 3 novembre 1918, quando la città di San Giusto, seguita dalle altre città istriane e dalmate, vide lo sbarco dei Bersaglieri al Molo Audace, ma nello stesso tempo, col seguito di importanti riferimenti alle vicende successive, tra cui la perdita della sovranità italiana statuita nel trattato di pace del 1947 e in quello di Osimo del 1975, non senza la successiva appendice del cosiddetto Osimo bis[2].

Al riguardo, vale la pena di rammentare l’evento organizzato a Trieste nel 2009, perché fu verosimilmente l’ultima occasione in cui si sarebbe parlato con tutta chiarezza e senza remore di storia dell’irredentismo adriatico e dei suoi valori, ma nello stesso tempo anche delle sue attese. Si tratta di un’iniziativa che sembra ormai lontanissima, pur avendo trovato radici in una sensibilità politica e morale che è tuttora presente nelle menti e nei cuori di tanti Italiani di buona volontà, dove scorre come un fiume carsico destinato a riemergere dagli abissi, sia pure in tempi indefiniti ma non impossibili, se non altro alla luce di varie, importanti esperienze storiche.

Qualche esempio? Chi avrebbe potuto presumere, all’indomani della guerra franco-prussiana del 1870 e della clamorosa sconfitta di Napoleone III, che l’amputazione subita dalla Francia con la perdita di Alsazia e Lorena si sarebbe protratta per poche decine di anni? Chi avrebbe potuto supporre, all’indomani del trattato istitutivo della Triplice Alleanza fra Italia, Austria e Germania, che le attese dei patrioti giuliani, istriani e dalmati potessero riemergere dalla pietra tombale sotto la quale erano state visibilmente sepolte nel 1882? Chi avrebbe potuto prevedere che una Turchia annichilita dalla tremenda sconfitta dell’ultimo Sultano tornasse, già nel breve termine, alla ribalta politica da protagonista, grazie al «padre della patria» Kemal Ataturk? In linea più generale, durante gli anni trionfali del colonialismo novecentesco, chi avrebbe potuto immaginare che le tante conquiste imperiali potessero crollare nel giro di pochissime generazioni come un castello di carte?

Il movimento irredentista aveva visto ufficialmente la luce nel lontano 1877, quando Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani fondarono l’Associazione «Italia Irredenta» che per un paradosso solo apparente fu confortata da largo seguito – in specie agli inizi – soprattutto negli ambienti della sinistra democratica, a eccezione di quella socialista[3]. Ciò avvenne grazie all’opera di uomini come Giovanni Bovio e Felice Cavallotti che nel breve termine avrebbe indotto il sacrificio di Guglielmo Oberdan, capace di «gettare la vita sulle forche dell’Austria» pur di far comprendere ai troppi ignari il diritto all’italianità invocato dalla sua terra. Un Martire che sarebbe stato il primo di una serie troppo lunga.

Il fenomeno non era nuovo e aveva avuto anticipazioni di rilievo in tempi più lontani. Si ponga mente al patriota illuminista Gian Rinaldo Carli che sin dalla metà del Settecento aveva intuito come il futuro della Venezia Giulia e dell’Istria non avrebbe potuto trovare spazio adeguato se non in Occidente, e più specificamente in Italia, non solo per ragioni storiche, culturali e civili, ma anche per quelle economiche. Altrettanto pertinenti sono i richiami alla politica miope e retriva di Vienna che dalla Restaurazione in poi non avrebbe fatto mistero delle sue simpatie filo-slave e del suo ostracismo nei confronti degli Italiani, diventato più stringente dopo la proclamazione del Regno avvenuta nel 1861; dopo la redenzione del Veneto che vi fece seguito nel 1866; e dopo la caduta del potere temporale che – quattro anni più tardi – avrebbe fatto di Roma la nuova capitale.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’irredentismo di matrice politica divenne una scelta intellettuale non senza qualche venatura romantica: nonostante l’amputazione di due regioni, vale a dire l’intera Dalmazia e buona parte della Venezia Giulia, il peso della sconfitta gravava come un macigno sulle possibili attese di riscatto che rimasero vive nel ristretto ambiente di alcuni patrioti come quelli che fondarono «L’Esule» (tra cui Gianni Fosco, Nerino Rismondo e Paolo Venanzi) e continuarono la «buona battaglia» dalle sue colonne. Si trattava di un mensile che ebbe il coraggio di definirsi «voce dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata»[4] e che si fece effettivamente sentire, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, dapprima con forti critiche al silenzio di Stato sul dramma dell’esodo e la tragedia delle foibe, e poi bollando con lettere di fuoco la triste vicenda che condusse al trattato di Osimo, sebbene il suo spazio operativo fosse assai limitato. In ogni caso fu un «memento» destinato a lasciare una traccia.

Nella predetta conferenza triestina del 2009 non mancarono opportuni riferimenti al Patto di Londra del 1915 e alla «Vittoria mutilata» che scaturì da un’ampia deroga alle sue statuizioni, voluta in primo luogo dal Governo di Washington in persona del Presidente Wilson: cosa non certo ininfluente sul «pronunciamento» dannunziano di Fiume (1919), anch’esso non immune dai motivi di una «sinistra nazionale» molto aperta sia alle classi inferiori, sia alle minoranze etniche, in specie attraverso il sindacalismo rivoluzionario di Alceste De Ambris che fu accanto al Comandante collaborando in modo decisivo alla stesura della Carta del Carnaro, un prototipo costituzionale oltremodo avanzato e non senza riferimenti agli auspici già formulati durante la Grande Guerra dalla Democrazia Sociale Irredenta[5].

Il resto è storia recente, con la tragedia delle foibe e il grande esodo dei 350.000 che non mancarono di attirare l’attenzione sulla rinnovata attualità dell’irredentismo che resta valida non tanto nell’obiettivo primario, quanto nell’impegno a favore dei popoli oppressi e nel buon diritto degli esuli e dei loro eredi al giusto risarcimento attraverso la restituzione o l’equo indennizzo dei beni: una questione tuttora attuale. Prima ancora, è mancato un atto di giustizia che Lubiana e Zagabria non vollero o non seppero promuovere, se non altro con la tutela delle tombe e dei monumenti italiani dislocati in Istria, a Fiume e in Dalmazia, allo scopo di prevenirne ulteriori e dolorose manomissioni, per non parlare delle cancellazioni già avvenute in epoca titoista, in deroga a ogni «pietas».

L’irredentismo è sempre attuale perché costituisce, prima di tutto, un atteggiamento dello Spirito, un’invocazione all’«ethos» oltre i limiti tradizionali dello Stato di diritto, e un impegno di volontà affinché sia impedita – se non altro – la ripetizione di fatti incresciosi, oltre che indubbiamente anacronistici come quelli accaduti nella prima decade del nuovo millennio, quando fu impedito a gruppi esuli di onorare la memoria delle Vittime uccise nelle foibe carsiche, elevando sul luogo dell’estremo sacrificio la commossa preghiera del grande Vescovo Antonio Santin.

Oggi parlare dell’irredentismo non è considerato politicamente corretto da un capo all’altro degli schieramenti politici ufficiali, come se questo riferimento evocasse l’ipotesi di chissà quali attentati all’ordine costituito che peraltro non è destinato a durare «per omnia saecula saeculorum», come è stato ampiamente dimostrato (oltre che da quelle già menzionate) dalle vicende dell’ex Unione Sovietica e naturalmente, da quelle della ex Jugoslavia. Non è forse vero che lo stesso Monsignor Santin, Presule di Trieste e Capodistria nei tempi oscuri dell’immediato dopoguerra, aveva sempre esortato a sperare, considerando che «le vie dell’iniquità non possono essere eterne»?

Un abbondante settantennio è trascorso da quando Don Luigi Stefani, l’esule da Zara che aveva portato a Firenze l’esempio del suo alto volontariato, mise in chiaro i fondamenti di un nuovo irredentismo etico, ormai lontano da quelli del tardo Ottocento e degli anni antecedenti la Grande Guerra, perché impostato – appunto – sulla redenzione dei popoli oppressi, mentre quella delle terre che furono latine, poi venete e infine italiane, era sublimata in una prospettiva futuribile, ovviamente e inderogabilmente pacifica. Questa nuova interpretazione dell’irredentismo in chiave morale avrebbe avuto tutto il diritto alla vita, invece di essere rottamata fra i reperti di una storia scomoda, se non anche politicamente «scorretta» secondo i vari padroni di turno. Del resto, non è chi non veda come le oppressioni siano tuttora una triste realtà ricorrente nel mondo contemporaneo e persino nella civilissima Europa.

La storiografia e la memorialistica hanno prodotto un elevato numero di opere, talvolta di ottimo livello, sulla grande tragedia dell’esodo e dei massacri perpetrati dai partigiani di Tito, spesso col supporto dei loro solerti corifei italiani. Tuttavia, quelle testimonianze hanno finito per assumere una connotazione sostanzialmente extra-politica fondata sulla rinuncia a qualsiasi rivendicazione che non fosse quella degli indennizzi o risarcimenti per i beni abbandonati, peraltro riconosciuti solo marginalmente, e alla fine disattesi persino dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Nello stesso tempo, lo spirito comunitario ha fatto il resto, ma ciò non significa che nell’irredentismo sia stato affievolito il valore etico di base, tanto più che le Repubbliche ex jugoslave non hanno onorato la ritrovata indipendenza chiedendo scusa alle Vittime di Tito. Anzi, hanno finito per subordinare l’eventuale rammarico alla permanente giustificazione di un vero e proprio delitto contro l’umanità[6] alla luce delle conclamate «colpe» fasciste[7]. Va aggiunto che questa impostazione continua a manifestarsi con pervicace continuità anche in una parte «nobile» (o presunta tale) della storiografia italiana.

Un popolo che scelse l’esilio per affermare la sua italianità, rifiutare ateismo di Stato e collettivismo forzoso, prevenire il rischio della foiba o di altri inenarrabili massacri come quelli delle troppe Vittime di una stagione davvero plumbea, ha finito per essere declassato al rango di «oggetto» di storia di cui alla nota definizione machiavelliana, e per scontare presunte responsabilità altrui non senza le attenuanti conseguentemente riconosciute ai partigiani, fino a qualche iniqua assoluzione motivata dalle cosiddette «azioni di guerra».

Ecco un buon motivo in più per non dimenticare. O meglio, per dire le cose come stanno, in modo forte e chiaro: redenzione non può e non deve essere sinonimo di prevaricazione né tanto meno di violenza, ma deve elevarsi a strumento di attenta e matura riflessione, e quindi, di vera e memore Giustizia, di libertà dal bisogno e dalle persecuzioni, e soprattutto, di consapevole impegno per il progresso umano e civile.


Note

1 La semantica «irredentismo» è direttamente collegata all’azione del «redimere» intesa come liberazione da condizioni di vassallaggio se non anche di schiavitù: secondo l’Enciclopedia Treccani il referente prioritario è quello di un «movimento politico e culturale» rivolto a «riunire alla madrepatria territori e popolazioni che si ritengono ad essa legati per razza, lingua, storia e civiltà, ma che sono politicamente incorporati in uno Stato straniero» come nel caso emblematico di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia dall’Unità d’Italia alla Grande Guerra e oltre. Più generalmente, in conformità alla definizione del Vocabolario Oxford, s’intende per irredentismo «l’esaltazione e la difesa dei valori nazionali di fronte a una dominazione o presenza straniera, fino alla ribellione e secessione».

2 Col trattato di Osimo del 10 novembre 1975 l’Italia trasferì alla Jugoslavia, senza alcuna contropartita, la sovranità sul Territorio Libero di Trieste, che gli Accordi di Londra del 1954 non avevano sacrificato, rinviando la soluzione del problema a tempi indefiniti. Con «Osimo bis», invece, si fa riferimento alle vicende che, quando furono create le nuove Repubbliche indipendenti sulle ceneri della Repubblica Federativa Jugoslava, videro la conferma unilaterale dei predetti Accordi da parte italiana, ancora una volta a titolo «gratuito».

3 La data di fondazione dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata, secondo altre fonti, potrebbe essere anticipata al 1866, e più precisamente alla fine della Terza Guerra d’Indipendenza, quando Trieste e Gorizia (e non solo) rimasero «escluse dall’annessione all’Italia grazie all’armistizio di Cormòns». Infatti, la cessazione delle ostilità avrebbe azzerato le speranze dei patrioti e di tutti gli «Italiani “asburgici” desiderosi di diventare Italiani “regnicoli”». Ciò, senza dire che le sue origini «teoriche» andrebbero fatte risalire a Graziadio Isaia Ascoli (cui si deve la semantica «Venezia Giulia» quale denominazione del distretto nord-orientale italiano) e prima ancora, a Giuseppe Mazzini (sul complesso argomento, si veda: Giorgio Valussi, L’Irredentismo triestino, introduzione al saggio di Pino Cimino, Un monito all’Italia contemporanea dalla Trieste asburgica, Aviani & Aviani, Udine 2020, pagina 15).

4 La pregiudiziale irredentista del mensile in questione fu sempre chiara. Ad esempio, basti ricordare l’atteggiamento assunto da «L’Esule» (Milano, 1966-1993) e dal suo Direttore Paolo Venanzi in occasione della denuncia sporta contro Silvano Drago, Direttore del confratello «Difesa Adriatica», per avere definito il Maresciallo Tito «infoibatore e assassino»; e del processo che ne seguì durante il 1961, concluso con la piena assoluzione dell’imputato, che – come emerse dalle motivazioni della sentenza – si era limitato a «dire la verità» (Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia: Pensiero e vita morale, Aviani & Aviani, Udine 2021, parte seconda, pagina 332). Per la convergenza del vecchio irredentismo in una nuova formulazione etica, se non anche spirituale, si veda la riflessione del medesimo Autore in: Il problema morale dell’irredentismo giuliano-dalmata, «Difesa Adriatica», Roma, febbraio 1960.

5 Quello della Democrazia Sociale Irredenta fu un movimento prevalentemente laico, con l’adesione maggioritaria di forze repubblicane e di esponenti del socialismo democratico, non senza qualche adesione cattolica, che tenne il suo Congresso di fondazione nell’aprile del 1918. Sviluppatosi, per l’appunto, nello scorcio conclusivo della Grande Guerra, perseguiva lo scopo prioritario di operare in favore dei popoli oppressi dalle vecchie autocrazie e di fondare, al termine dell’immane conflitto, una nuova era di progresso e di pace. Con il successo dell’Intesa nel successivo novembre, la Democrazia Sociale Irredenta parve avere conseguito il risultato primario che peraltro fu posto nuovamente in discussione dalle nuove attese futuriste e nazionaliste promosse dalle suggestioni, invero non infondate, della cosiddetta «Vittoria Mutilata» (per maggiori ragguagli, si veda: Ivanoe Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto 1870-1918, Einaudi, Torino 1944, capitolo XXXI, pagina 314. Il movimento, che doveva pervenire al momento più alto col Congresso tenuto in Campidoglio e col contestuale «Patto di Roma», ebbe origine da un «nuovo slancio vitale» dello spirito pubblico «imposto all’attenzione e alla simpatia del mondo» ed esteso, sia pure con diversi convincimenti, a tutte le formazioni politiche, sia pure con qualche perplessità fra cui quella più autorevole di Sidney Sonnino).

6 Per una sintesi esauriente e oggettiva, anche alla luce della dottrina giuridica di Raphael Lemkin, si veda: Italo Gabrielli, Venezia Giulia Istria Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Edizione Lithostampa, Pasian di Prato / Trieste 2011, 160 pagine. La tesi del patriota istriano è riassumibile nella documentata conferma del progetto di pulizia etnica e politica a danno di un intero popolo: il genocidio non si riferisce alle sole Vittime infoibate o altrimenti massacrate, ma anche ai 350.000 esuli dispersi nella diaspora. Di qui, il significato relativo assunto dalla disputa sostanzialmente accademica sulle reali cifre dei Caduti, siano essi i 45.000 stimati da Flavio Fiorentin (L’eredità del Leone, Aviani & Aviani, Udine 2018, pagina 360), i 20.000 del valore mediano, o le poche centinaia di cui alle valutazioni, chiaramente più che riduttive, di certa storiografia slava.

7 Il Governo Fascista, analogamente ai comportamenti assunti da quelli delle maggiori Potenze mondiali nella prima metà del Novecento, aveva perseguito una politica di stretto controllo delle minoranze cosiddette «alloglotte» nei territori entrati a far parte del Regno d’Italia dopo la Grande Guerra (per non dire di quelli delle colonie) introducendo forti limiti all’esercizio di libertà fondamentali come quelle di associazione, di stampa, d’insegnamento, e via dicendo. D’altra parte, l’irredentismo slavo sostenuto da alcuni gruppi d’azione clandestina come quelli di Orjuna e TIGR si era tradotto nell’organizzazione di diverse iniziative a carattere terroristico come quelle che, dopo processi celebrati alla presenza di vari osservatori internazionali, portarono alla condanna capitale di Vladimir Gortan (1929) e un anno più tardi, di Ferdo Bidovec, Franjo Marusic, Zvonimir Milos e Alojz Valencic, responsabili, fra l’altro, dell’uccisione del giornalista Guido Neri e di vari attentati: al riguardo è da aggiungere che novant’anni dopo (luglio 2020) i predetti «Quattro di Basovizza» furono «oggetto di una sostanziale riabilitazione da parte italiana» in occasione dell’incontro fra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’omologo sloveno Borut Pahor (sull’argomento si veda: Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia: Pensiero e vita morale, Aviani & Aviani, Udine 2021, pagine 55 e 305). Per quanto concerne la Seconda Guerra Mondiale, è congruo aggiungere che la discesa in campo dell’Asse a danno della Jugoslavia fu indotta dall’improvviso cambio di campo da parte di quest’ultima (già alleata dell’Italia sin dal 1937 per iniziativa del Governo di Milan Stojadinovic) intervenuto nella primavera del 1941 a seguito del colpo di Stato di Belgrado (Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia: Pensiero e vita morale, Aviani & Aviani, Udine 2021, pagine 59 e 309). In tutta sintesi, le «colpe» devono essere riconsiderate, a prescindere dalle vulgate, in una corretta valutazione all’insegna dell’oggettività storiografica.

(ottobre 2021)

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