Una Vittoria tradita
Illusioni e delusioni italiane dopo la Grande Guerra

Nella vasta messe di documenti e saggi che vengono proposti in concomitanza col centenario della Prima Guerra Mondiale, ricorre frequentemente il riferimento alla cosiddetta Vittoria «mutilata» in danno dell’Italia, a causa delle decisioni maturate durante la conferenza della pace in senso contrario agli impegni assunti col Patto di Londra del 26 aprile 1915. In tale occasione, com’è noto, il Governo di Roma si era impegnato a scendere in campo a fianco dell’Intesa, mentre gli Alleati avevano garantito, in caso di sconfitta degli Imperi Centrali, il trasferimento sotto la sovranità italiana del Trentino-Alto Adige, della Venezia Giulia e di gran parte della Dalmazia, per non dire di altre «zone d’influenza» nel Basso Adriatico e nell’Europa Orientale.

Patto di Londra

In realtà, quando venne firmato il Patto londinese, nessuno aveva messo in conto che la guerra potesse concludersi con la completa fagocitazione dell’Austria-Ungheria e con la creazione di tante nuove entità statuali: primo fra tutti, quel Regno degli Slavi del Sud che più tardi avrebbe assunto il nome di Jugoslavia, aggregando un vasto arcipelago di popoli e di nazionalità assai dissimili anche dal punto di vista linguistico, culturale e religioso. In tale situazione, aggravata da un atteggiamento nettamente sfavorevole alle attese italiane da parte degli Stati Uniti, che peraltro non erano presenti alla firma di Londra, essendo intervenuti nel conflitto solo in tempi successivi, apparve subito arduo conciliare le rispettive posizioni, tanto più che nel 1915 la città di Fiume era stata esclusa dall’accordo italo-franco-inglese nella sua qualità di porto ungherese destinato, nelle presunzioni dell’epoca, a restare sbocco naturale dell’entroterra magiaro: ciò, diversamente dagli auspici formulati dal Consiglio Comunale della medesima Fiume nella storica seduta del 30 ottobre 1918, quando venne chiesta l’annessione all’Italia, proprio alla luce del principio di autodeterminazione sostenuto a spada tratta dal Presidente Americano Wilson.

La delegazione italiana alla conferenza di Parigi non seppe fronteggiare una condizione di sostanziale isolamento diplomatico, arroccandosi su posizioni pregiudiziali spinte fino all’abbandono dei lavori, salvo farvi ritorno quando le prospettive risultarono a più forte ragione compromesse.

In tale situazione, il Trattato di Pace venne firmato soltanto con l’Austria, che uscì fortemente ridimensionata nella sua compagine statuale e che sul versante delle Alpi avrebbe ceduto all’Italia il Trentino-Alto Adige ed il comprensorio di Tarvisio. Al contrario, la questione sarebbe rimasta aperta ed impregiudicata sul confine orientale, lasciando spazio all’Impresa dannunziana di Fiume, alla Reggenza Italiana del Carnaro, ed infine, al Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 (stipulato dai Governi di Roma e Belgrado a ben due anni dalla cessazione delle ostilità) con cui le attese «dalmatiche» del Patto di Londra vennero sostanzialmente azzerate, fatta eccezione per la piccola enclave di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa; e quel che è peggio, creando il presupposto dello scontro fratricida consumato a Fiume nel «Natale di Sangue».

Il contributo dell’Italia alla vittoria dell’Intesa era stato fondamentale, anche dal punto di vista strategico, in specie dopo il crollo della Russia Zarista, e si era esteso ad importanti apporti umanitari nell’ottica della cooperazione militare, come il salvataggio dell’esercito serbo compiuto nella prima parte della guerra grazie all’impegno largamente maggioritario delle forze armate italiane, ed in primo luogo della Marina. Non meno significativo, nel medesimo contesto, fu l’atteggiamento disponibile assunto subito dopo l’armistizio nei confronti della maggioranza tedesca alto-atesina e delle minoranze slovene e croate affrancate dal dominio asburgico, per non dire delle zone di occupazione come il Tirolo Settentrionale: tutti contesti difficili in cui i Governatorati militari dei Pecori Giraldi e dei Petitti di Roreto si distinsero per la moderazione e per il tratto umanitario nell’affrontare i gravi problemi del momento, a cominciare dalla forte emergenza alimentare e dall’ordine pubblico.

Nondimeno, questi meriti oggettivi vennero considerati alla stregua di atti dovuti, sebbene fossero l’antitesi di quanto accadde in Alsazia e Lorena, dove ad oltre 100.000 Tedeschi oggetto di espulsione furono concesse non più di 24 ore per lasciare le proprie case con il solo viatico di un piccolo bagaglio: in larga misura, si trattava di immigrati dopo il trionfo prussiano del 1870, ma il comportamento assunto dalla Francia non fu certo la quintessenza di un beninteso spirito umanitario, né tanto meno, di una ragionevole cooperazione.

La Vittoria Italiana, più che mutilata, venne tradita: in primo luogo, da parte del momento politico e diplomatico, incapace di misurarsi ad armi pari con Stati Uniti, Gran Bretagna e la stessa Francia, sebbene uscita dal conflitto in condizioni per vari aspetti peggiori; ma nello stesso tempo, da parte di Alleati che non vollero o non seppero valutare le possibili conseguenze a medio termine di una frustrazione «nazionale» resa più accentuata dalle discriminazioni in campo coloniale, dove all’Italia nulla sarebbe stato riconosciuto a fronte delle perdite tedesche, fatta eccezione per la microscopica offerta compensativa dell’Oltre Giuba, nella Somalia Meridionale.

La politica «realistica» che il Cancelliere Bismarck aveva esaltato nello scorcio conclusivo dell’Ottocento con risultati oggettivamente ragguardevoli, ma che era stata fortemente criticata da quanti vi avevano ravvisato le negazioni del confronto democratico a livello internazionale, se non anche di taluni diritti umani, tornava prepotentemente alla ribalta nel momento in cui le Potenze vittoriose si spartivano le spoglie dei vinti, creando il presupposto di un revanscismo dalle conseguenze imprevedibili, acutamente rilevato da Benedetto Croce; e nel momento in cui, contestualmente, ignoravano il buon diritto italiano a riconoscimenti più adeguati ai titoli acquisiti.

Si obietterà che l’Italia doveva confrontarsi con problemi di politica interna non meno importanti, a cominciare dai diffusi timori di suggestioni massimaliste se non anche bolsceviche, e dalle strettezze di bilancio che furono determinanti, nei primi anni del dopoguerra, ai fini del ridimensionamento di ogni ambizione nel contesto internazionale, simboleggiata dall’affossamento del progetto dannunziano in ottica fiumana e dalmata, e proseguita, fra l’altro, nella rinunzia all’Albania.

L’osservazione non è infondata, ma l’assunto vale nella sola misura in cui esprime taluni aspetti della crisi palesemente patita dall’Italia liberale, ed il cui carattere sostanzialmente irreversibile sarebbe stato sottolineato dagli eventi successivi. Ciò, in quanto sottintende l’incapacità manifestata dalle varie forze moderate nel trovare un minimo comune denominatore, e quella delle controparti progressiste nell’assumere reali responsabilità di governo perché condizionate da pregiudiziali massimaliste, tanto più impolitiche nel momento in cui una forte componente dell’opinione pubblica reclamava soprattutto ordine e lavoro, oltre al sacrosanto rispetto per chi aveva combattuto e sofferto.

La Vittoria tradita avrebbe indotto effetti non effimeri nelle menti e nei cuori degli Italiani, dando luogo ad una maturazione delle coscienze capace di riconoscere il valore prioritario dei valori non negoziabili: in definitiva, di promuovere una nuova rivoluzione dell’ethos.

(dicembre 2014)

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