La spagnola, il coronavirus di cento anni fa
Molte analogie e poche differenze fra la prima pandemia della Storia e l’attuale coronavirus

Quattro milioni e mezzo di contagi e 400.000 morti solo in Italia, l’economia bloccata, tensioni sociali, appelli a mantenere le distanze, a evitare i luoghi affollati, a usare le mascherine. È fin troppo semplice associare queste immagini all’attuale pandemia di coronavirus. Ma non è il covid-19, è la «spagnola». La prima pandemia della Storia. Una pandemia stranamente semi-ignorata dagli storici e di cui abbiamo pochissima memoria.

I documenti del tempo dipingono immagini impressionanti. Scrive Anna Kuliscioff a Filippo Turati, il 12 ottobre 1918: «Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne dei morti della gente per bene nel “Corriere” per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari. Non si sa più dove mettere i bambini orfani di madri e i cui padri sono al fronte. È un problema trovare ora dei medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e in fondo nessuno è curato a dovere. Forse anche la grande mortalità è dovuta alla scarsa assistenza sanitaria». Il giorno dopo, giunge la risposta di Turati: «Per consolarci dall’influenza verdigera, che imperversa sempre più (a Roma 200 morti – anche a Torino è gravissima – alla Camera abbiamo 12 inservienti ammalati e un segretario della Biblioteca morto l’altro giorno; neppure le trincee di libri salvano da questa peste!), si vuole che tra le cagioni che determinano il mollamento tedesco ci sia il grippe [termine francese con cui viene chiamata l’influenza], che avrebbe messo a letto 300.000 soldati, e i casi in Germania si conterebbero (pigliala per quel che vale) a 12 milioni».

Che cosa sta succedendo?

Nell’ottobre del 1918 l’Italia è stremata da quattro anni di una guerra serrata, tra il fango delle trincee, i morti sul filo spinato o falciati dalle mitragliatrici. Ha resistito alla battaglia del Piave di giugno, estremo tentativo dell’Austria-Ungheria di cogliere una vittoria definitiva, e sotto l’imperversare della pioggia si prepara alla spallata di Vittorio Veneto che scardinerà tutto il sistema difensivo nemico provocando il crollo dell’esercito austriaco e la fine del conflitto. Ma questi sono giorni difficili, per chi è al fronte come per chi è rimasto nelle città: alla fine dell’estate sulla Penisola si è abbattuta una seconda ondata di influenza spagnola, che sta facendo più vittime della guerra. La prima ondata del virus, nella primavera dell’anno precedente, è passata quasi sottotraccia, ma il nuovo picco di settembre non può essere ignorato: la maggior parte dei circa 4 milioni e mezzo di contagi e 400.000 morti, su una popolazione di 36 milioni di abitanti, viene colpita proprio in quelle 13 settimane da settembre a dicembre.

Non è una «peculiarità» italiana. L’influenza spagnola (causata dal virus RNA H1N1), così chiamata perché le prime notizie appaiono sui giornali spagnoli (le altre Nazioni Europee tengono all’oscuro la popolazione per evitare lo sfaldarsi delle truppe al fronte), è la prima pandemia veramente globale della Storia: fra il 1918 e il 1920 arriva a infettare oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo (alcuni dicono 500 milioni), uccidendone da 25 a 50 milioni su un popolazione complessiva di due miliardi. Vengono colpiti persino alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico: un numero di vittime superiore persino alla terribile Peste Nera del XIV secolo.

A tutt’oggi non è chiaro da dove abbia avuto origine l’epidemia. Qualcuno ha indicato gli Stati Uniti, dove già alla fine del 1917 si registra una prima ondata in almeno 14 campi militari. Qualcun altro la Francia, e in particolare il campo militare e ospedale di Étaples, dove nello stesso periodo si registra l’insorgenza di una nuova influenza caratterizzata da un’alta mortalità. Altri ancora hanno puntato l’attenzione sull’Asia Orientale: una malattia respiratoria identificata come spagnola colpisce la Cina Settentrionale nel novembre del 1917, e potrebbe essersi diffusa nel mondo a seguito della mobilitazione dei lavoratori cinesi chiamati a prestare servizio sul fronte occidentale europeo; per ragioni ignote, le epidemie hanno sempre avuto la tendenza a spostarsi da Oriente verso Occidente, dalla Peste Nera all’aviaria alle influenze stagionali, mai in senso contrario. Altri ritengono che la spagnola esordisca in Austria già agli inizi del 1917, mentre potrebbe essere in circolo dentro gli eserciti europei già mesi prima dello scoppio della pandemia del 1918. Non si hanno certezze, se non quando l’epidemia è già diffusa.

In Italia, la situazione degenera rapidamente, anche per le tardive contromisure del Governo e delle amministrazioni locali, che in un primo momento hanno sottostimato l’impatto dell’influenza. Una volta che la guerra è finita, il Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando si trova costretto a una serie di misure per contenere il virus ed evitare il panico, giungendo a provvedimenti curiosi come quello di vietare il suono delle campane per i funerali soprattutto nelle città in cui il morbo fa più vittime, come a Torino dove nel mese di ottobre si registrano anche 400 morti al giorno.

In pieno autunno il bilancio della spagnola inizia a diventare insostenibile. Il 17 ottobre 1918 viene pubblicato il decalogo del Comune di Milano, che invita a «fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese, sale di conferenze). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento».

In pratica, si tratta di applicare le stesse regole messe in atto 100 anni dopo contro il coronavirus: non frequentare luoghi affollati, arieggiare le case, indossare mascherine protettive su bocca e naso, astenersi dalle strette di mano, lavarsi spesso le mani e guardarsi dai venditori di soluzioni e pozioni magiche. Dopo un secolo di progressi medici, non è cambiato nulla. I manifesti che annunciano le misure anti contagio vengono affissi sulle porte delle chiese, nelle osterie e nelle piazze.

Famiglia con mascherina

Famiglia con mascherina anti contagio. Al gatto la mascherina è stata messa solo al momento della foto, per fare ironia

In tutta Italia le autorità danno il via a una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici. L’inizio della scuola viene posticipato a data imprecisata, viene ridotto l’orario di apertura dei negozi (con la sola eccezione delle farmacie), cinema e teatri restano chiusi nonostante le proteste dei proprietari che chiedono di essere risarciti. Si pensa di fermare tutti i servizi non essenziali, facendo lavorare a pieno regime solo le principali attività economico-produttive, con la conseguenza dell’aumento di assembramenti all’ingresso dei negozi alimentari.

Il Governo sceglie di assicurare il pane ai ceti popolari, al netto della carenza di beni di prima necessità, e di non fermare le fabbriche, ma gli spostamenti quotidiani di migliaia di operai moltiplicano le occasioni di contagio: le condizioni igieniche e lavorative non possono garantire la salute dei lavoratori, la distanza non è rispettata, né le precauzioni seguite alla lettera. Così la malattia avanza inesorabilmente nelle industrie facendo crollare la produttività. Nei centri di Roma, Ancona, Terni e Chieti si registrano dal 10 ottobre al 27 novembre 1918 12.426 casi d’influenza su 40.048 operai.

In realtà, l’unica soluzione possibile per debellare la spagnola – condivisa in tutto il mondo – è il distanziamento sociale. Ma non è facile. I malati isolati in casa, privi di cure, muoiono in gran numero e propagano l’epidemia ai familiari che vivono con loro. Negli ospedali il personale sanitario è abituato a una routine lenta, compassata, con procedure farraginose, incapace di adeguarsi con la dovuta rapidità. I medici protestano per le estreme condizioni lavorative, con poco personale e mezzi inadeguati, e alcuni di loro arrivano ad abbandonare il servizio.

Con il passare delle settimane il peso della seconda ondata di influenza spagnola presenta il conto a tutta la popolazione italiana, che manifesta la propria preoccupazione. La prima ondata di influenza è stata meno letale, ed è prevalso nei cittadini il desiderio di liberarsi dal peso e dai dolori della guerra. Una buona parte della popolazione vive in piccoli borghi, o nei villaggi, e vede lo Stato come una realtà astratta, distante, che si presenta soltanto per le tasse e la leva militare. Questa diffidenza verso le istituzioni si trasforma in avversione durante la seconda ondata influenzale, quando ci si rende conto che le misure di contenimento volute dal Governo non hanno l’effetto previsto: si arriva persino a teorie del complotto, affermando che il malfunzionamento delle istituzioni sia frutto di chissà quali oscuri interessi di Roma. Oggi i «complottisti» puntano l’indice contro la Cina, accusata di aver prodotto il coronavirus in laboratorio e di esserselo lasciato «scappare»: cosa, questa, tutta da dimostrare, mentre è effettivamente vero che la responsabilità è comunque del Governo Cinese, che nei primi decisivi giorni del diffondersi del contagio non ha fatto nulla per fermarlo né per mettere in guardia la popolazione (per non dire le altre Nazioni), arrivando addirittura a perseguitare i medici che denunciavano l’insorgere della nuova epidemia; è anche possibile che il coronavirus si sia sviluppato a causa delle pessime condizioni sanitarie del mercato di Wuhan, dove gli animali vengono portati vivi, macellati sul posto e consegnati agli acquirenti senza alcun controllo sanitario.

A novembre l’epidemia sembra aver allentato le maglie, e già il 9 del mese la Giunta Sanitaria di Milano, rilevando «il quasi completo ripristino dello stato normale della salute pubblica», chiede la revoca di tutti i provvedimenti eccezionali, ferme quelle disposizioni la cui efficacia è stata dimostrata. In pratica, si passa alla «fase 2». Ma nelle settimane successive i contagi riprendono a crescere. Nel Mezzogiorno l’influenza colpisce ancora più forte, anche per l’inadeguatezza delle strutture sanitarie e la scarsa preparazione di una parte della classe dirigente. Riaprire e tornare alla normalità porta una terza ondata della pandemia, anche a causa dei reduci del conflitto, che tornano alle loro case e alimentano nuovi focolai. Riferendosi alla spagnola, l’11 gennaio 1919 il periodico socialista «La Squilla» di Bologna scrive che «la “maledetta” continua ad ammazzare! / Dopo il cannone, lei ci voleva! / Ma da che mondo è mondo la peste andò sempre dietro la guerra. / È storia; è anche nella Bibbia!».

Al contagio, nei mesi immediatamente successivi alla Grande Guerra, si somma il malcontento – cavalcato soprattutto dai comunisti –. Nel 1919 gli scioperi operai e agrari aumentano in modo considerevole di intensità e visibilità, portando l’Italia sull’orlo della rivoluzione per l’instaurazione di un Governo bolscevico. Anche in altri Paesi del mondo si assiste a una serie di guerre civili tra rivoluzionari comunisti e Governi legittimamente eletti – per esempio, in Sudafrica.

Le violenze delle frange più estremiste dei partiti di Sinistra non portano però alla presa del potere, ma hanno il risultato di spianare la strada al movimento fascista fondato nel marzo precedente dall’ex socialista Benito Mussolini. Nella seconda metà del 1920 il fascismo si organizza in squadre paramilitari, si preoccupa di spezzare la rete delle organizzazioni socialiste e di quelle cattoliche, e attira attorno a sé un blocco sociale composto in prevalenza da ceti medi ed egemonizzato dal padronato agrario e industriale. Si pone come garante dell’ordine, l’unica alternativa alle violenze e al rischio della rivoluzione, prosciugando in questo modo la base di consenso che ancora rimaneva alle Sinistre.

Nel novembre del 1921 nasce il Partito Nazionale Fascista; passerà meno di un anno prima che Mussolini decida di far marciare su Roma decine di migliaia di «camicie nere» e diventare Capo del Governo (ottobre 1922).

In questo scorcio di storia d’Italia il peso dell’influenza spagnola è quasi del tutto assente. Non è più una priorità per il Governo, né viene considerata una causa scatenante delle rivoluzioni del 1919. Se, come spiega Marco Mondini, professore di Storia dell’Università di Padova, «sappiamo che l’epidemia ebbe un ruolo nella fine della guerra, contribuendo a decimare ulteriormente gli eserciti», «abbiamo meno correlazioni con quel che è arrivato dopo. Potremmo trovare un legame solo indiretto, immaginando come l’ulteriore piaga possa aver esacerbato il popolo». Oltretutto, i movimenti delle masse, le violenze su larga scala e i tentativi rivoluzionari potrebbero aver contribuito non tanto alla fine dell’influenza spagnola, quanto alla percezione di questa nell’opinione pubblica: la gente aveva ben altro di cui preoccuparsi!

Fatto sta che nel corso del 1919 e negli anni successivi la spagnola scompare in modo definitivo in tutto il mondo. Nonostante non vi siano prove certe di come ciò possa essere accaduto, la risposta più probabile è che la quarantena abbia portato i suoi benefici: le comunità che se la sono cavata meglio sono state quelle che hanno applicato con più rigore il distanziamento sociale, mentre quelle che non l’hanno applicato hanno avuto maggiori problemi. Il paragone con quanto sta avvenendo oggi col coronavirus è lampante: i Paesi che hanno deciso di non applicare il distanziamento sociale, o che l’hanno applicato troppo tardi o sono passati troppo presto alla riapertura delle attività commerciali e produttive (dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla stessa Cina), hanno visto accendersi nuovi focolai di contagio.

È probabile che con il passare dei mesi il virus abbia subito una mutazione verso una forma meno letale, oppure che nell’estate del 1919 tutti quelli che erano entrati in contatto con il virus siano morti o abbiano sviluppato una forma di immunità (la cosiddetta «immunità di gregge»). Certo è che, come spiega il professor Mondini, «se guardiamo l’Italia sappiamo che l’epidemia, combinata alla Grande Guerra, uccise circa 1.200.000 persone per lo più comprese tra i 18 e i 30 anni nel quinquennio 1915-1920. Il combinato delle due cause devastò la piramide demografica italiana in modo talmente profondo che secondo alcuni demografi ne siamo venuti fuori solo dopo la Seconda Guerra Mondiale». Un marchio impresso a fuoco nella storia non solo italiana, ma anche mondiale: una lezione della Storia di cui troppo spesso non ci curiamo!

(giugno 2020)

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