Roccagorga: un eccidio dimenticato fra le tensioni sociali alla vigilia della Grande Guerra (1913)
Un fatto ancora poco conosciuto, che si inserisce in una serie di repressioni (spesso sproporzionate rispetto ai disordini che le provocarono) che furono una delle caratteristiche dei primi decenni dell’Italia post-unitaria

Nell’Italia del liberalismo post-unitario la conservazione dell’ordine costituito era un imperativo sostanzialmente assoluto, tale da non escludere, all’occorrenza, il ricorso alle armi: in tale ottica, i fatti di sangue imputabili ad iniziative di repressione diventarono tristemente ricorrenti, anche a prescindere dall’intervento «manu militari» nel Mezzogiorno, che nei primi dieci anni del Regno giunse ad impegnare un massimo di 120.000 uomini ed a provocare – secondo una storiografia molto attendibile[1] – circa 14.000 vittime. Basti pensare ai moti di Torino del 1865 indotti dal trasferimento del Governo a Firenze, od ai cannoni del Generale Fiorenzo Bava Beccaris che nel maggio 1898 spararono ad alzo zero sulla folla di Milano in cerca di pane, provocando, alla luce di valutazioni rimaste ufficiose, ma sempre vive anche nella tradizione orale, qualche centinaio di morti.

Durante il mezzo secolo intercorso fra la proclamazione dell’Unità (1861) e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914) le repressioni avvenute in Italia furono una trentina, con qualche migliaio di caduti (senza contare quelli relativi alla repressione del «brigantaggio» meridionale nel corso degli anni Sessanta, di cui si è detto). Tali eccidi, le cui matrici furono sostanzialmente univoche, e riconducibili ad un diffuso disagio sociale, avvennero in tutto il territorio italiano, coinvolgendo diversi capoluoghi di provincia e parecchi centri minori, con una significativa prevalenza nelle Regioni Meridionali (Candela di Puglia, Cassano delle Murge, Cerignola, Torre Annunziata) e nelle Isole (Caltavuturo, Grammichele, Lercara, Monreale, Buggerru). È appena il caso di rammentare che la maggior parte dei casi è rimasta ai margini della storiografia.

Nel 1913, ultimo anno di pace, fu la volta di Baganzola (Emilia), Comiso (Sicilia) e Roccagorga (Lazio). In quest’ultimo Comune si ebbero sette vittime, fra cui due donne ed un bambino, e il fatto indusse una risonanza particolare in tutto il territorio nazionale, protrattasi a lungo perché la repressione voluta dal Governo Giolitti con l’intervento armato dei Carabinieri diede luogo ad effetti significativi in termini di azioni giudiziarie e di proteste da parte delle forze politiche di Sinistra e della stampa, tra cui si distinse un giovane Benito Mussolini, all’epoca direttore del quotidiano socialista (al riguardo, si può aggiungere che nel 1936, durante la visita resa a Roccagorga in occasione di un tragico incidente causato dalla caduta di un aereo sul centro del paese, il Duce del fascismo sarebbe stato insignito della cittadinanza onoraria del Comune, e che il ricordo del suo impegno per i fatti del 1913 è rimasto vivo nella memoria storica locale ed in quella della nuova provincia pontina, fondata un trentennio più tardi).

I fatti di Roccagorga ebbero luogo il 6 gennaio, in concomitanza con la festa dell’Epifania: ulteriore motivo in più, per cui quell’infausta data è rimasta viva nella memoria storica locale, senza dire che la sua visibilità si è tradotta, sin da allora, nell’intitolazione della piazza centrale del paese laziale. Oggi è congruo interrogarsi meglio sulle cause di quella tristissima esperienza, in cui la forza pubblica non si fece scrupolo di aprire il fuoco su cittadini inermi e privi di qualsiasi specifica responsabilità: in effetti, era stata semplicemente asportata una bandiera tricolore dal palazzo comunale al semplice scopo di farne il vessillo guida della manifestazione, ma i Carabinieri, come in altre occasioni, si lasciarono prendere la mano nella presunzione che si trattasse di una rivolta, o comunque di un’iniziativa a carattere sovversivo.

Come si è detto, non fu un caso isolato, anche in quello stesso 1913, ma l’aver colpito bambini e donne, una delle quali incinta, fu motivo di particolare esecrazione, giustificando il titolo di «Assassinio di Stato» per l’articolo con cui Mussolini diede la notizia sul giornale del suo partito, levando un grido di sdegnato dolore che chiedeva giustizia, non senza minacciare che, se non fosse stata ottenuta nelle sedi competenti, sarebbe stata perseguita col sangue (dichiarazioni per cui venne incriminato e processato).

Sta di fatto che le condizioni socio-economiche dell’Italia erano particolarmente critiche, dando luogo a frequenti conati di protesta: l’Unità non aveva risolto parecchi problemi di fondo, dall’analfabetismo (oltre una persona su tre non sapeva leggere né scrivere), all’emigrazione (che proprio nel 1913 avrebbe raggiunto il suo massimo storico con circa 900.000 partenze), alla carente giustizia fiscale e, come causa scatenante, al caropane.

Si potrebbe aggiungere che il suffragio universale rimase un miraggio per diversi decenni: quello maschile venne concesso nello stesso anno, in concomitanza col Patto stipulato tra i liberali giolittiani ed il conte Vincenzo Gentiloni, che permise di congelare il «non expedit» rendendo ufficiale il ritorno dei Cattolici sulla scena politica italiana, ed il loro suffragio a favore di candidati moderati e di un programma elettorale concordato.

In questo panorama non può sorprendere che i Governi Italiani dell’epoca (quasi 50 in poco più di mezzo secolo) avallassero, o nella migliore delle ipotesi tollerassero, l’uso della forza per «reprimere» e nello stesso tempo per «prevenire» anche se alcuni, come quelli del Generale Luigi Pelloux e dello stesso Giolitti si distinsero per l’assoluta sproporzione degli interventi rispetto a disordini socialmente motivati e storicamente comprensibili.

Fu una stagione senza dubbio difficile, di chiara marca conservatrice, destinata a produrre effetti significativi anche a lungo termine, e nello stesso tempo, a suscitare crescenti, irreversibili attenzioni per la questione sociale, e per la sua priorità umana e civile.


Nota

1 Nell’ambito di un’ampia e documentata storiografia, confronta in particolare: Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Edizioni Feltrinelli, terza edizione, Milano 1974, 484 pagine (con il corredo di un’esaustiva bibliografia).

(agosto 2018)

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