Dal Quindici al Diciotto
Pensiero e azione nell’ultima guerra romantica

Le celebrazioni del Primo Conflitto Mondiale continuano ad imperversare, soprattutto in Italia, con frequente insistenza sugli aspetti più drammatici di una guerra che avrebbe cambiato i destini dell’umanità, anche per le sue proiezioni a medio e lungo termine. È certamente cosa buona e giusta onorare quella schiera largamente maggioritaria di caduti che non conobbe nemmeno le ragioni del proprio estremo sacrificio, e prendere le necessarie distanze etiche, politiche e militari dalla conduzione scriteriata e spesso sciagurata della Grande Guerra: basti pensare alle vicende apocalittiche del Carso o dell’Isonzo, per non parlare della Galizia, della Serbia, delle Ardenne, e via dicendo.

C’è un lungo filo conduttore che collega gli anni di combattimento, dall’inizio alla fine, e che può riassumersi in una paradossale sintesi di valore, di sacrificio e di rassegnazione: quel che è peggio, senza risultati proporzionali nemmeno per gli Stati vincitori, non meno dissanguati di quelli sconfitti. Eppure, quella guerra non fu soltanto una mattanza, perché indusse la maturazione di una nuova coscienza civile, ed in alcuni casi, come in quello dell’Italia, l’affermazione dell’idea nazionale: come fu detto, il cemento della trincea, da questo punto di vista, ebbe un impatto di gran lunga superiore a quello del Risorgimento e delle sue guerre d’indipendenza.

L’assunto trova conferma nella cultura dell’epoca, nel giornalismo e nella letteratura; fra gli interventisti che si distinsero con il volontariato ed il sacrificio della vita, gli scrittori ed i poeti ebbero un ruolo significativo ed emblematicamente esemplare: in primo luogo, gli irredenti come Scipio Slataper, caduto sul Calvario nell’estate del 1915, o come Carlo Stuparich, che poco dopo si diede la morte sul Monte Cengio per non cadere prigioniero del nemico; ma nello stesso tempo, non pochi di coloro che anche in altre regioni avevano visto nella discesa in campo contro gli Imperi Centrali, da uomini di cultura e di sensibilità storica, l’occasione per chiudere la partita contro le ultime autocrazie, in una sorta di palingenesi umana e sociale finalmente liberatrice. Basti pensare ai Toscani Giosuè Borsi e Vittorio Locchi, al Romagnolo Renato Serra, ed agli altri «spiriti della vigilia» a cui fece riferimento la pertinente definizione di Camillo Pellizzi: antesignani di un nuovo ordine, ma non immuni da permanenti suggestioni romantiche.

Gli intellettuali, in sostanza, diedero un contributo importante all’interpretazione della Grande Guerra in chiave di pensiero fin dai suoi esordi, quando le sorti militari erano quanto meno incerte, ma nello stesso tempo di azione: oltre ai caduti, nelle loro file furono parecchi i feriti, spesso con permanenti conseguenze invalidanti, come nel caso di Napoleone Battaglia o di Fulcieri Paolucci de’ Calboli, che sarebbero scomparsi dopo lunghissime agonie; o come in quelli di Fernando Agnoletti, Nicola Moscardelli, Giovanni Orsini, Ardengo Soffici, Alberto Viviani, e via dicendo. È bene sottolinearlo, soprattutto in una stagione come l’attuale, in cui le pur condivisibili critiche sulle matrici e sulla conduzione del conflitto finiscono per assumere toni dissacranti, di cui non si sente affatto il bisogno.

Vale la pena di sottolineare che il maggior contributo di sangue, compreso quello dei martiri irredenti come Cesare Battisti, Fabio Filzi e Nazario Sauro (per citare soltanto i più noti), venne versato nello scorcio iniziale della Grande Guerra, quasi a sottolineare la celerità del sacrificio a danno degli spiriti più alti; senza per questo sminuire il valore dei «ragazzi» che nel 1918 si immolarono sul Piave e sul Grappa nella difesa contro le ultime spallate del nemico, e poi nella vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto: combattenti maturi e consapevoli nonostante la giovanissima età, che avevano «tratto gli auspici» dall’esempio di chi era caduto eroicamente sul fronte giuliano o su quello degli Altipiani.

Anzi, in detto valore (non soltanto militare, pur esaltato dall’apporto di nuovi corpi come quello degli Arditi, ma nello stesso tempo umano e civile, nell’ottica di una cooperazione a tutto campo fra gli uomini al fronte e le donne impegnate nell’industria e nei servizi) è possibile cogliere il superamento almeno parziale di quella rassegnazione cui si faceva riferimento, a proposito precipuo del primo triennio di guerra, fino alla drammatica pagina di Caporetto.

La Vittoria rimase «mutilata» per l’ostracismo degli Alleati nei confronti di un’Italia che aveva dato un contributo essenziale al successo dell’Intesa, senza dire del comportamento perfettibile della sua delegazione alla conferenza della pace. È una storia lunga, che a sua volta avrebbe indotto conseguenze di grande rilievo politico e sociale, ma che non elide affatto il valore del soldato italiano, tanto più degno di encomio, visto che muoveva da condizioni di preparazione assai carenti anche dal punto di vista psicologico. Resta il fatto che tra il Quindici e il Diciotto si assiste ad una mutazione epocale: alla vigilia della guerra, con un interventismo fortemente minoritario (nonostante le celebri orazioni dannunziane) non soltanto nel Paese ma persino nell’ambito parlamentare; e nello splendore di Vittorio Veneto, con un abbraccio unitario ai veterani ed ai «ragazzi» che avevano avuto ragione di «uno dei più potenti eserciti del mondo» (secondo la lucida sintesi di Armando Diaz, il Duca della Vittoria).

Non basta. Quando l’Italia scese in campo nel «maggio radioso» era reduce da un’attesa di dieci mesi (uguale a quella che avrebbe iterato fra il 1939 ed il 1940: coincidenza che fa pensare) ed aveva attraversato condizioni di forti incertezze: nazionalismo e futurismo, che furono i primi movimenti favorevoli all’intervento, non avevano fatto mistero delle loro iniziali propensioni a schierarsi con Vienna e con Berlino, perché il richiamo di Nizza, e soprattutto quelli di Malta e della Corsica, ad ampia valenza strategica, trascendevano le attese di Venezia Giulia e Dalmazia, ancora in mano asburgica, senza che fosse comparsa all’orizzonte l’ombra jugoslava. Al contrario, quando il sole e la gloria di Vittorio Veneto parvero simili, stavolta per l’onore italiano, al sole ed alla gloria di Austerlitz, non c’era più traccia delle dispute talvolta feroci che avevano caratterizzato l’anteguerra, e tutti i partiti si strinsero attorno ai combattenti, ai mutilati, alle vedove di guerra, alle madri che avevano perso i figli al fronte, pur nella valutazione delle responsabilità, non sempre oggettiva ma pienamente comprensibile.

Quella del 4 novembre 1918, a dire il vero, fu breve euforia: il rientro dei prigionieri, la salute pubblica messa in crisi dalla «spagnola», la difficile riconversione dell’industria bellica, il rientro delle promesse fatte ai combattenti contadini, le polemiche sulle trattative di pace con gli Alleati (e poi con il neonato Regno degli Slavi del Sud, ovvero la futura Jugoslavia), avrebbero ripreso rapidamente il sopravvento, ma senza compromettere il «culto» della Grande Guerra che ebbe il momento di più alta suggestione e condivisione popolare nel viaggio del Milite Ignoto da Aquileia a Roma. In ogni caso, l’Italia non era più quella che aveva visto i cannoni di Bava Beccaris sparare sulla folla inerme che chiedeva pane, come accadde nella Milano del 1898, né tanto meno quella di Adua e delle prime incerte imprese coloniali, fino alla guerra di Libia voluta dal Ministero Giolitti.

L’Italia era consapevole dei suoi limiti di Stato «giovane» con tanti problemi economici, sociali ed infrastrutturali ancora da risolvere, ma aveva acquistato la coscienza di una forza che scaturiva non tanto dalla Vittoria, quanto da una nuova e diffusa consapevolezza unitaria, dalle Alpi alla Sicilia.

C’è di più: la Grande Guerra aveva esorcizzato le ultime resipiscenze clericali, grazie alla partecipazione dei Cattolici al Governo di Unità Nazionale presieduto da Boselli, ed era riuscita a promuovere un confronto con la Sinistra che non era più improntato alle antiche pregiudiziali ma instaurava una dialettica aspra, eppure potenzialmente collaboratrice. In altri termini, tra il Quindici e il Diciotto si compie una maturazione «rivoluzionaria» in quanto unitaria, che non avrebbe avuto eguali nemmeno nell’età contemporanea, caratterizzata da forti antinomie, da ricorrenti logomachie, e soprattutto dalla progressiva perdita dei valori per cui si erano battuti, assieme ad un popolo ormai convinto della sua centralità e del suo ruolo, gli intellettuali ed i patrioti di quel quadriennio per tanti aspetti irripetibile.

A tali valori, peraltro, è congruo fare riferimento, pur nel giudizio storico ormai obiettivo su quella tragedia incommensurabile, e nel conclamato «ripudio» della guerra come strumento risolutivo delle controversie internazionali statuito dalla Costituzione (con tutti i distinguo suggeriti dall’esperienza ed elaborati dalla dottrina), quando si vogliano perseguire rinnovati obiettivi di fede e di speranza, a cominciare dal recupero di un’effettiva sovranità statuale e di una politica degna di questo nome, preposta – secondo l’antica definizione – al perseguimento del bene comune.

(dicembre 2015)

Tag: Carlo Cesare Montani, Prima Guerra Mondiale, Italia, Grande Guerra, Primo Conflitto Mondiale, Scipio Slataper, Carlo Stuparich, Toscani Giosuè Borsi, Vittorio Locchi, Renato Serra, Camillo Pellizzi, Napoleone Battaglia, Fulcieri Paolucci de’ Calboli, Fernando Agnoletti, Nicola Moscardelli, Giovanni Orsini, Ardengo Soffici, Alberto Viviani, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Nazario Sauro, Arditi, Vittoria mutilata, maggio radioso, Armando Diaz, 4 novembre 1918, Milite Ignoto.