Centenario della Quarta Guerra d’Indipendenza: dal ricordo agli auspici
La Prima Guerra Mondiale ed il formarsi di una coscienza nazionale italiana: alcuni spunti per chi intenda riflettere

Non si può dire che nel caso della Grande Guerra la ricorrenza del centenario stia passando senza adeguate celebrazioni. Al contrario, le iniziative culturali e rituali si vanno moltiplicando; dal canto loro, la storiografia e la memorialistica si sono arricchite quasi impetuosamente con un’ampia fioritura di pubblicazioni e di saggi, che hanno dimostrato l’esistenza di una sensibilità nazionale molto più diffusa di quanto sarebbe stato logico presumere, tenuto conto che, in concomitanza coi 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, si era parlato persino di «morte della Patria».

Non pochi di quei contributi sono improntati a toni critici, ed in taluni casi, alla negazione dei valori non solo patriottici che, sia pure fra tante contraddizioni, coincisero con la decisione di intervenire, assunta a dieci mesi dallo scoppio del conflitto dopo parecchie incertezze ma non senza sofferte valutazioni delle alternative possibili. In realtà, la Grande Guerra, con una durata superiore a tutte le aspettative della vigilia, avrebbe indotto un numero straordinariamente elevato di vittime ed una serie di sofferenze indicibili, anche fra le popolazioni civili: ciò, alla luce di un sostanziale equilibrio tra le forze in campo, per non dire di strategie militari quanto meno anacronistiche.

Non sembra giusto, peraltro, esprimere giudizi fortemente avversativi in base alle diverse valutazioni etiche di un secolo dopo, pur nell’ambito della «contemporaneità» ormai acquisita tra i canoni storiografici essenziali. È necessario, invece, tenere in considerazione anche lo spirito dell’epoca e le attese di una palingenesi definitiva che si erano diffuse prioritariamente proprio in Italia.

Ciò, con particolare riguardo all’idea della cosiddetta «ultima guerra» maturata in diverse coscienze liberali o democratiche, cui premeva l’affrancamento dei popoli dalle ultime autocrazie, perseguibile con l’opzione militare.

Non meno importante fu l’apporto del pensiero nazionalista, e della sua evoluzione dall’iniziale fedeltà alla Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali alla scelta di schierarsi a fianco dell’Intesa, suggellata dal Patto di Londra del 26 aprile 1915: un punto di svolta irreversibile che coincideva con la garanzia di assicurare all’Italia le terre irredente della Venezia Giulia, e di gran parte della Dalmazia, il cui «grido di dolore» era stato udito sin dal 1866, in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza.

Giova ricordare che quel Patto, con decisione conforme alle strategie dell’epoca, ma tutto sommato opinabili, venne tenuto segreto, e che sarebbe diventato di pubblico dominio soltanto due anni dopo, quando la Rivoluzione Sovietica venne in possesso degli archivi diplomatici. In tale ottica, le «radiose giornate di maggio» di dannunziana memoria finirono per assumere un ruolo determinante, sebbene minoritario, suffragando la presunzione di motivazioni dell’intervento difformi dall’effettivo interesse nazionale, caro al neutralismo giolittiano.

Cento anni più tardi, è facile dire che le offerte austriache formulate «in extremis» per scongiurare la discesa in campo italiana avrebbero potuto essere oggetto di valutazioni più adeguate. In realtà, esse sopraggiunsero quando la firma di Londra era già stata apposta, ed in ogni caso sarebbero state largamente riduttive rispetto alle statuizioni del nuovo Patto: un buon motivo in più per avallare la tesi della «Vittoria mutilata» diffusa a guerra finita, quando le garanzie di Londra vennero sostanzialmente stracciate, anche per responsabilità italiane.

Per una celebrazione meno soggettiva di questo centenario è più congruo fare riferimento al fatto che quella del 1915-1918 fu davvero la Quarta Guerra d’Indipendenza, secondo una definizione fatta propria da una parte significativa della storiografia italiana, ma anche estera: si pensi, ad esempio, alla tesi del «Lungo Risorgimento» proposta da Gilles Pécout. In effetti, questa è un’idea da condividere, non tanto alla luce di un conseguimento dell’Unità ancora imperfetto (la Dalmazia sarebbe rimasta irredenta con la sola eccezione di Zara, e Fiume avrebbe dovuto attendere fino al 1924), quanto alla stregua di una nuova consapevolezza della realtà nazionale italiana, maturata in trincea.

Il Risorgimento era stato opera certamente elitaria delle minoranze liberali e progressiste ed aveva dovuto confrontarsi, non senza forti contrasti, con l’opposizione cattolica, e non soltanto nel Mezzogiorno, con quelle dei movimenti pre-unitari; invece, con la Grande Guerra la maturazione civile del popolo fece un salto di qualità e di quantità, come non era mai avvenuto in precedenza, nonostante l’avvento del suffragio universale (1913) ed il Patto Gentiloni che aveva sostanzialmente rimosso il «non expedit» pontificio.

È certamente doveroso porre in evidenza, come si sta facendo in buona parte delle celebrazioni, il grande sacrificio di sangue imposto dalla guerra, non solo ai troppi caduti, ma anche ai mutilati ed alle famiglie; tuttavia, non è inutile ricordare, contemporaneamente, quegli «Spiriti della Vigilia» che, come Camillo Pellizzi volle sottolineare nel duplice ruolo di patriota e di sociologo, ebbero un ruolo di straordinaria importanza nella decisione di intervenire.

Dal punto di vista strategico, è altrettanto importante mettere in luce che l’apporto italiano alle forze militari dell’Intesa ebbe un rilievo decisivo, impegnando, soprattutto dopo il 1917 e l’uscita della Russia dal conflitto, gran parte dell’Esercito Austro-Ungarico.

In questo quadro, si deve aggiungere che il fronte italiano, dapprima sull’Isonzo, e poi soprattutto sul Piave, si avvalse delle forze alleate in misura sostanzialmente simbolica, e che furono i nostri soldati, col valido aiuto della Marina e dell’Aviazione, non meno eroiche, a reggere l’urto delle offensive nemiche, ed infine, a «sciogliere le ali» della Vittoria: in specie dopo Caporetto, l’Italia era diventata veramente una, e pienamente cosciente della propria unità.

La Grande Guerra, pur nei suoi tremendi limiti umanitari, fu anche l’occasione per un contributo italiano alla cooperazione militare rimasto senza eguali nella storia del conflitto: il salvataggio dell’Esercito Serbo tra la fine del 1915 e gli inizi del 1916, con un’operazione di alto impegno strategico in cui si immolarono altri caduti, ma che valse a ricostituire un’intera armata, il cui impiego nelle fasi belliche successive sarebbe stato di grande utilità strategica.

Molto si potrebbe aggiungere in sede celebrativa, ma ciò che soprattutto preme chiarire in questa sede è l’effetto a lungo termine, indotto dalla Grande Guerra nella coscienza civile italiana: in fondo, la stessa proliferazione storiografica espressa dal centenario ne costituisce la riprova. Come un fiume carsico che riemerge dopo il lungo silenzio seguito alla plumbea stagione del 1945, alla cosiddetta «solidarietà nazionale», al trattato di Osimo ed alla «morte della Patria», la riscoperta di antichi valori da parte dell’uomo della strada è motivo di speranza: se non altro, onde non sia vano quell’immenso ed indimenticato sacrificio.

I «vigliacchi d’Italia» su cui si appuntarono gli strali di Giosuè Carducci sono sempre in agguato, ma quando la storia offre spunti di meditazione idonei a coniugare felicemente il pensiero e la volontà, come nel caso della Grande Guerra, non è infondato esprimere la fiducia che possano scaturirne «egregie cose».

(marzo 2015)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, Belle Epoque, Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale, Quarta Guerra d'Indipendenza, Patto di Londra, terre irredente, Dalmazia, Fiume, Lungo Risorgimento, Gilles Pécout, Patto Gentiloni, Camillo Pellizzi, trattato di Osimo, Giosuè Carducci.