Il Plebiscito dei Morti Fiumani
Cento anni dalla ricerca sui monumenti funerari del cimitero di Cosala (1919) nel ricordo di Luigi Maria Torcoletti e di Andrea Ossoinack: spunti storici e valori attuali

A distanza di un secolo dalle discussioni che sorsero durante le trattative di pace conseguenti alla Grande Guerra, con particolare riguardo alle sorti di Fiume, è congruo ricordare il «Plebiscito dei Morti» di cui al numero unico pubblicato dal «Circolo Giovanile Alessandro Manzoni» della città liburnica (1919) dove vennero riportate alcune cifre mutuate dalla paziente indagine di un patriota locale, Monsignor Luigi Maria Torcoletti[1]. Tale ricerca, effettuata sui sepolcri del camposanto cittadino – con riferimento alle lingue ivi proposte in memoria dei «trapassati» – aveva evidenziato che in 81 epigrafi su 100 era stato utilizzato l’italiano, contro sette in croato, cinque cadauna in tedesco e ungherese, e due in altri idiomi.

Dopo il «Plebiscito dei Vivi» che si era effettuato il 30 ottobre 1918 quando non c’era stato bisogno di ricorrere alle urne perché tutto il popolo fiumano era sceso in strada per dimostrare in favore dell’italianità e il Consiglio Nazionale Cittadino ne aveva compendiato la volontà univoca col celebre proclama a firma del Presidente Antonio Grossich, la testimonianza dei morti portava un ulteriore argomento a favore della tesi secondo cui Fiume non poteva appartenere che all’Italia, a prescindere dalle statuizioni del Patto di Londra, stipulato nel 1915 prima della sua entrata in guerra, quando non era ancora prevedibile che l’Impero Asburgico ne sarebbe uscito totalmente distrutto.

Il «Plebiscito dei Morti» era stato particolarmente impietoso nei confronti della minoranza croata, cosa che permise a un altro grande patriota fiumano, Andrea Ossoinack[2], di affermare quanto fosse infondata l’affermazione di parte slava secondo cui «l’italianità di Fiume data da ieri». Caso mai, era vero il contrario: infatti, soltanto da tempi piuttosto brevi, e più specificamente da non oltre mezzo secolo, la componente croata era andata aumentando in modo rapido a causa della politica di slavizzazione voluta da Vienna per accrescere le difficoltà italiane, e soprattutto per mettere un freno strumentale alle motivate attese dell’irredentismo.

Dal punto di vista culturale e civile, non meno che sul piano etnico, la questione non avrebbe dovuto essere nemmeno proposta. Basti pensare che sei secoli prima lo stesso Dante, pur cadendo nell’errore di collocare i «termini» dell’Italia presso il Carnaro escludendone la Dalmazia, aveva chiaramente escluso che dai suoi confini naturali potessero essere escluse le terre istriane e quelle del Golfo Fiumano. Ne emerse un motivo in più per consentire a Ossoinack di perorare in termini convinti e incisivi la causa della sua città anche in sede di conferenza della pace, dove fu presente quale unico rappresentante di Fiume e dove poté incontrare anche il Presidente Statunitense Woodrow Wilson, apertamente schierato a favore della futura Jugoslavia: in tale circostanza, benché non avesse ottenuto alcunché di concreto, Ossoinack avrebbe conseguito un risultato di forte significato morale facendo udire alto e solenne il suo «grido di dolore» e quello di una grande maggioranza del popolo fiumano.

A 100 anni dai «plebisciti» di Fiume, e trascorso oltre mezzo secolo dalla scomparsa di Andrea Ossoinack, su cui si va stendendo una coltre di oblio a causa di una fede irredentista diventata volutamente inattuale dopo il Trattato di Osimo e dopo l’entrata di Slovenia e Croazia nell’Unione Europea, non è inutile rammentare il valore di quelle pronunzie popolari e il significato etico dei loro contenuti, che restano incancellabili anche dopo la Seconda Guerra Mondiale e il «diktat» del 1947 con cui si andarono a definire compiutamente le conseguenze giuridiche del conflitto, a carico dell’Italia. Anzi, quelle manifestazioni plebiscitarie di volontà costituiscono un memento a futura memoria che deve essere onorato, e proprio per questo, portato a conoscenza dei troppi ignari.

Nel 1950, il primo giornale fiumano dell’esilio, risorto a Venezia per volontà di alcuni patrioti, scrisse nell’editoriale dell’esordio che il capoluogo quarnerino non poteva più vivere «senza l’Italia». Sono trascorsi settant’anni senza che la città sia morta fisicamente, ma il punto non è questo: bisogna approfondire come abbia vissuto, come avrebbe potuto vivere in un contesto meno iniquo, e sottolineare che quella diagnosi era politicamente e moralmente condivisibile. In effetti, a seguito della diaspora, «Fiume d’Italia» avrebbe continuato a vivere soltanto nel cuore e nel dolore degli esuli.

Sta di fatto che il lungo silenzio della volontà politica nazionale circa la tragedia dell’Istria e della Dalmazia ha inciso negativamente sulla memoria storica dando luogo a una svolta epocale che ha visto, da un lato la slavizzazione di quelle due regioni, e dall’altro una sostanziale accettazione dei fatti, che contraddice gli auspici dei patrioti e il buon diritto al riconoscimento dei torti subiti, con buona pace di ogni buon «defensor civitatis» quali furono – per Fiume e non solo – Monsignor Luigi Maria Torcoletti e l’Onorevole Andrea Ossoinack.

Molti plebisciti sono passati alla storia per non essere corrispondenti alle volontà dei votanti, non sempre edotti a sufficienza circa i temi sottoposti a un suffragio «universale» che in parecchi casi fu adottato in deroga a leggi elettorali ordinarie assai restrittive circa l’esercizio del diritto di voto, e con largo anticipo rispetto ai tempi in cui tale suffragio sarebbe stato riconosciuto e garantito.

Ebbene, nella fattispecie del 1918-1919 di cui si è riferito a proposito di Fiume non si può parlare di plebisciti opinabili perché il popolo non andò ai seggi per votare ma in piazza per decidere, con il concorso delle bandiere tricolori e di un consenso praticamente unanime; oppure, come nel caso delle epigrafi funerarie del «Plebiscito dei Morti» perché il loro linguaggio costituisce una prova indiscutibile, e davvero lapidaria, di appartenenza nazionale.

Oggi, la negazione dei diritti giuliano-dalmati e il genocidio programmato di cui alle lucide intuizioni di un altro patriota istriano quale Italo Gabrielli[3] sono una realtà storica che ha trovato conferma anche nei silenzi internazionali, e in qualche caso, in fantasiose dichiarazioni di incompetenza giudiziaria o di non luogo a procedere, come accadde per il «processo agli infoibatori». Proprio per questo è cosa buona e giusta che quei plebisciti abbiano avuto luogo, nella stessa misura in cui non si può dire altrettanto per il rifiuto di analogo plebiscito che il mondo esule attese invano nel secondo dopoguerra, a causa di precise responsabilità plurime. Si tratta di negazioni improvvide oltre che inique, perché la storia, secondo la suggestiva immagine hegeliana, è sempre pronta a farle riemergere dai meandri della memoria «come un cane rabbioso» e a pretendere giustizia.

A 100 anni dal «Plebiscito dei Morti» la sua attualità è tornata alla ribalta in occasione delle esternazioni che l’attuale Sindaco di Fiume, Vejko Obersnel, ha rivolto agli organi d’informazione, ivi compreso quello televisivo (Dossier RAI) nella ricorrenza di un altro centenario di fondamentale importanza per la storia della città quarnerina: quello dell’Impresa Dannunziana di Ronchi dei Legionari, della Reggenza Italiana, della Carta del Carnaro e del Natale di Sangue (settembre 1919-dicembre 1920).

Obersnel, che ha raggiunto il ventennio di insediamento ininterrotto nella carica (a quanto pare la legge croata consente la perenne iterazione delle candidature), pur avendo dato atto del carattere molto avanzato della Carta, ma affermando che Fiume apparteneva a un contesto già progredito (?), si è prodotto in una serie di affermazioni che appartengono alle «vulgate» dell’epoca titoista, e non certo alla conclamata democratizzazione della Repubblica di Croazia; oltre a costituire la negazione di verità storiche ormai acquisite.

Qualche esempio? Secondo la fertile inventiva del Sindaco di Fiume, Gabriele d’Annunzio avrebbe occupato Fiume imponendo ai suoi abitanti di «provare tra i primi la mano letale del fascismo» e manifestando la sua vocazione di «aggressore e tiranno». Di conseguenza, il monumento che il Comune di Trieste ha collocato in Piazza della Borsa in onore del Comandante, ricorrendo il centenario di Ronchi, è «cosa vergognosa e pericolosa» visto che «la costa croata e Fiume sono croate, difese e liberate dai partigiani nella Seconda Guerra Mondiale, proprio come Trieste». Non basta: se proprio si voleva erigere un monumento, per il Sindaco Obersnel questo avrebbe dovuto «essere eretto alle truppe partigiane che hanno liberato Trieste».

La storiografia ha chiarito in termini largamente maggioritari che il Vate non fu mai fascista e che il Governo della Reggenza fu sempre sollecito nell’onorare i diritti del popolo, compresi quelli delle minoranze linguistiche. Quanto alla cosiddetta «liberazione» tutti sanno di quali panni si sia vestita, coincidendo, a Trieste come a Fiume, o in Istria come in Dalmazia, con una lunga serie di efferati delitti contro l’umanità, la cui memoria è confermata da una serie altrettanto interminabile di documenti e di testimonianze, che Obersnel non può ragionevolmente ignorare.

La cosa assume, a più forte ragione, aspetti di amara perplessità, tenuto conto che Fiume è stata destinata a esercitare, nel corso del 2020, il ruolo di capitale europea della cultura, nel cui ambito – come da annuncio del Sindaco – troveranno spazio una mostra sull’esperienza dannunziana e iniziative volte ad approfondire la «sanguinosa occupazione della città» e i «crimini» di cui il Comandante si rese responsabile[4]. Cosa sempre commendevole, anche se nella fattispecie ha già trovato ampia visibilità nella mostra tenutasi a Trieste per iniziativa del Comune e della Fondazione del Vittoriale, senza dire dei nuovi apporti bibliografici, fra cui gli ultimi in ordine di tempo, ma particolarmente esaurienti e documentati, di Pietro Cappellari, Raoul Pupo e Giordano Bruno Guerri.

Trascorso un quarantennio dalla scomparsa di Tito (maggio 1980) sarebbe ragionevole prescindere, anche nelle nuove Repubbliche ex Jugoslave, da anacronistici atteggiamenti sciovinisti, contrari alle verità storiche e a un beninteso spirito europeo. In questo senso, ricordare «con mente pura» (alla maniera del Vico) il «Plebiscito dei Morti» fiumani e il suo significato morale e civile sarebbe cosa buona e giusta.


Note

1 Membro del Consiglio Nazionale di Fiume costituito intorno alla fine della Grande Guerra per promuovere l’italianità cittadina e quella del suo territorio, poi cofondatore del Partito Popolare Fiumano, Monsignor Luigi Maria Torcoletti (Fiume 1881-Loano 1956) era stato ordinato sacerdote nel 1904, e dopo la fine del Secondo Conflitto Mondiale fu oggetto di vessazioni da parte della polizia segreta jugoslava; non essendo emerse «colpe» specifiche a suo carico, riuscì a prendere la via dell’esilio e a portare in salvo il suo manoscritto di Tarsatica chiuso in un pacco di medicinali, con la bandiera tricolore parimenti nascosta (confronta Carlo Montani, La piccola Vedetta fiumana: Storia di un periodico dell’Esilio, Edizioni ANVGD, Firenze 1993). A proposito del Plebiscito delle lapidi, Monsignor Torcoletti avrebbe sottolineato il suo valore insostituibile perché «risalendo alle più lontane epoche documenta con le indelebili scritte marmoree quale sia stata nei secoli l’anima di Fiume». Ecco un’affermazione tanto più importante, tenuto conto delle distruzioni di parecchi monumenti italiani effettuate in epoche successive da parte del regime titoista, in una sorta di nuova campagna iconoclastica.

2 Andrea Ossoinack (Fiume 1876-Merano 1965), figlio di Luigi – un altro patriota fiumano che avrebbe legato il proprio nome all’impegno per l’italianità unitamente a quello per lo sviluppo industriale e mercantile della città, con particolare riguardo alle comunicazioni navali con l’Europa Settentrionale e gli Stati Uniti, e alle attività produttive in campo alimentare e in quello della lavorazione del legno – ebbe cultura poliglotta grazie agli studi compiuti all’estero, e si distinse presto anche per una vivace attività politica che lo avrebbe portato a rappresentare Fiume in seno al Parlamento di Budapest, dove ne difese il diritto all’autodeterminazione nella memorabile seduta del 18 ottobre 1918, quando il collasso degli Imperi Centrali appariva ormai imminente: ciò, non senza mettere in luce come la politica asburgica, volta a fomentare contrasti tra le varie nazionalità, fosse stata negativa per gli stessi interessi della Casa regnante. Dopo la Grande Guerra, Andrea Ossoinack fu accanto a Gabriele d’Annunzio dalla Marcia di Ronchi al Natale di Sangue e non ebbe parte attiva nella successiva esperienza autonomista di Riccardo Zanella, ritirandosi a vita privata dopo l’annessione all’Italia del 1924 e dedicandosi alle molteplici attività che aveva continuato a intraprendere; ma avrebbe dovuto scendere nuovamente in campo dal 1945 in poi, quale esule e irredentista di provata fede, il cui impegno diuturno avrebbe trovato spazio in una lunga battaglia compendiata nel celebre Atto d’accusa contro quanti hanno tradito la millenaria italianità adriatica pubblicato con ampia appendice di documenti a cura del «Centro Studi Adriatici» (Roma 1960, 260 pagine). Qui è da sottolineare come l’ultimo contributo del patriota, rivolto ai giovani, fosse improntato, coerentemente con una vita di fede e di passione, al forte invito di «tornare nelle nostre terre natie»: possibilmente in forma pacifica e col supporto «dell’Europa unificata» ma senza escludere ogni altra possibile opzione proposta dalla storia futura (Ibidem, pagine 110-115).

3 Italo Gabrielli (Pirano d’Istria 1921-Trieste 2018) è stato docente universitario, grande patriota e uomo di fede. Presidente dell’Unione degli Istriani, Consigliere comunale di Trieste e leader dell’opposizione locale al Trattato di Osimo, ha lasciato diversi contributi di esegesi storica a futura memoria tra cui il fondamentale Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018.

4 Gabriele d’Annunzio, a Fiume come altrove, non si rese responsabile di alcun crimine. Evidentemente, per l’attuale Sindaco Obersnel furono tali l’occupazione militare della città e la resistenza armata che concluse i 16 mesi di un’epopea oggettivamente memorabile. Certo, il «Natale di Sangue» ebbe oltre 50 vittime: in larghissima maggioranza militari, oltre ad alcuni civili che non caddero a opera dei Legionari ma dei bombardamenti «giolittiani» ordinati in quella «prova» di guerra civile che ebbe luogo negli ultimi giorni del 1920.

(febbraio 2020)

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