L’Italia verso la Grande Guerra
Ricordo dei dieci mesi di neutralità italiana

Nel luglio 1914, il mondo civile avrebbe conosciuto una svolta epocale in grado di cambiarlo per sempre, a causa della nuova guerra, le cui dimensioni finirono per diventare davvero mondiali: da un lato per il numero dei Paesi coinvolti, e dall’altro per le tecnologie brutalmente avanzate, capaci di incrementare in maniera esponenziale le cifre dei caduti, le sofferenze dei mutilati e la disperazione delle famiglie e dei popoli.

Ad un secolo da quella stagione plumbea, le motivazioni che scatenarono l’immane conflitto, a cominciare dall’uccisione di Francesco Ferdinando, l’erede al trono di Vienna, hanno finito per acquisire una dimensione sfumata, se non addirittura labile, che conviene valutare meglio nelle cause reali. Gli Imperi Centrali si illusero di poter liquidare l’Intesa (ed il suo programma di cancellare dalla geografia europea le ultime autocrazie) con una «guerra lampo» la cui utopia si sarebbe ripetuta anche un quarto di secolo più tardi; e l’Italia, dal canto suo, scelse una «non belligeranza» che si protrasse per dieci mesi, come avrebbe fatto nel 1939 con un singolare ma non sorprendente ricorso storico.

Molto si potrebbe dire sulla scelta del Governo di Roma, che in effetti avrebbe potuto restare definitiva, risparmiando una lunga serie di lutti ad un Paese ancora giovane, messo a dura prova da vicende sociali assai complesse (si pensi alle repressioni di Lunigiana nel 1894 ed a quelle di Milano nel 1898), e dal disastro epocale del 1908, quando il terremoto di Messina e Reggio Calabria uccise non meno di 120.000 vittime, innescando la tentazione di Conrad, Capo di Stato Maggiore Austriaco, di approfittare della circostanza per «liquidare» l’Italia: cosa che non avvenne grazie alla saggezza manifestata in quell’occasione da Francesco Giuseppe, che pure non esitava ad usare la mano pesante nei confronti di ogni opposizione ed a creare nuovi martiri, in aggiunta a quelli del Risorgimento.

Le trattative con l’Austria non andarono a buon fine perché Vienna non si rese conto di quanto fossero ormai irreversibili ed irrinunciabili talune attese italiane: quando parve disponibile ad accordi concreti era troppo tardi, dal momento che il Patto di Londra con l’Intesa era già stato concluso, e l’irredentismo propugnato dalla democrazia sociale, ancor prima che dai nazionalisti, aveva acquisito parecchi consensi precedentemente insperati.

Quei dieci mesi che in seguito sarebbero stati definiti preparatori non furono utilizzati in maniera funzionale sul piano politico-economico, governato da pur comprensibili incertezze, e nemmeno dal punto di vista militare, come avrebbero dimostrato le inutili stragi dell’Isonzo e degli Altipiani, e più tardi, il terribile disastro di Caporetto.

La Santa Sede, pur potendo contare sull’altissima autorità morale del Sommo Pontefice, non fu capace di ricondurre alla ragione i Governi Europei, e più tardi anche d’oltre Oceano, che finirono per cedere ad un triste effetto domino: quella del nuovo Papa Benedetto XV, salito al soglio proprio nel settembre 1914, fu una «vox clamans in deserto» sebbene ribadita da una ripetuta condanna della guerra, di alto spessore spirituale.

Nonostante la pervicace opposizione del socialismo massimalista, il disimpegno cattolico parzialmente eliso dal Patto Gentiloni del 1913, e l’attendismo di Giovanni Giolitti suffragato da importanti consensi parlamentari, la sensazione che «scendere in campo» fosse comunque inevitabile anche per l’Italia si fece progressivamente largo, soprattutto nelle classi superiori ed in quella borghese, che nonostante la recente introduzione del suffragio universale maschile erano tuttora in grado di controllare le decisioni fondamentali dello Stato, d’intesa con la Monarchia Sabauda e con quelli che oggi verrebbero definiti «poteri forti». D’altra parte, la stessa Sinistra radicale e repubblicana non era aliena dal considerare la guerra contro gli Imperi Centrali alla stregua di un ultimo sforzo per sconfiggere definitivamente le pervicaci autocrazie della Mitteleuropa ed avviare una palingenesi democratica all’insegna di un vivace «revival» degli ideali mazziniani.

Oggi, a distanza di cento anni dagli spari di Sarajevo e dalla decisione asburgica, più che austro-ungarica, di dichiarare guerra alla Serbia, pur nella consapevolezza delle conseguenze ad ampio impatto generale che ne sarebbero scaturite, ricordare quegli eventi e i dieci mesi di «non belligeranza» italiana si configura come atto dovuto ma in qualche misura accademico, se non altro alla luce di una bibliografia interminabile.

In questa ottica, giova andare all’essenziale: tutti si rendevano conto, talvolta loro malgrado, che la «belle époque» volgeva malinconicamente ma necessariamente al tramonto, e comprendevano che «la grande Proletaria», secondo la suggestiva definizione che il Pascoli aveva dato dell’Italia, si stava finalmente «muovendo» più di quanto avesse potuto fare con l’impresa libica: in una stagione che aveva visto la «settimana rossa» ed assisteva, sull’altro fronte, all’affermazione delle dirompenti idee futuriste, ostacolare quel movimento sembrava impensabile, sia a Destra, sia nell’ambito della Sinistra democratica.

Gilles Pécout, il grande storico belga, nella sua analisi del Risorgimento «lungo» che muove dal rifiuto della Santa Alleanza e dell’ordine statuito nel Congresso di Vienna, per protrarsi ben oltre Porta Pia ed il conseguimento di una compiuta unità nazionale, ha visto nella partecipazione italiana al Primo Conflitto Mondiale la «Quarta Guerra d’Indipendenza» che mirava a completare il disegno dei padri e ad acquisire la sovranità nazionale su Trento e Trieste, ma anche su Gorizia, Pola e Zara (per non dire di Bolzano, in ossequio allo «schermo alpino» contro la «tedesca rabbia» di petrarchesca memoria). In quella calda e complessa estate del 1914, questi sentimenti avevano già conquistato il cosiddetto «interventismo della cultura» che salvo rare eccezioni non ebbe dubbi sulla necessità di schierarsi con l’Intesa.

È vero che l’Italia era legata agli Imperi Centrali da una Triplice Alleanza sorta all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo dopo lo «schiaffo» di Tunisi e consolidata, qualche tempo dopo, dalla strage di Aigues Mortes: un ulteriore oltraggio ricevuto da parte della Francia con l’uccisione di tanti lavoratori italiani in cerca di pane, e ciò, in palese contrasto con gli ideali di eguaglianza e fraternità della Grande Rivoluzione. Tuttavia, è anche vero che l’Austria rimaneva uno Stato autocratico e che il Risorgimento Nazionale Italiano aveva potuto compiersi attraverso ripetuti confronti militari con le forze dell’Impero, il copioso sangue versato da tanti patrioti sui patiboli asburgici ed i lunghi patimenti di molti spiriti eletti, a cominciare da quelli emblematici di Silvio Pellico o di Pietro Maroncelli nelle fortezze di Francesco Giuseppe.

I dieci mesi di neutralità trascorsero, da una parte, nel soppesare a livello politico e diplomatico pregi e difetti delle varie soluzioni che si offrivano all’Italia; ma dall’altra, a livello intellettuale ed in qualche caso, anche popolare, a perseguire una maturazione sempre più convinta e motivata delle ragioni per cui una nuova conferma della Triplice non poteva essere eticamente condivisa. Pesavano i ricordi risorgimentali e quelli delle Guerre d’Indipendenza, ma esercitavano un ruolo importante, nello stesso tempo, i tentativi di fagocitare le attese dell’irredentismo, simboleggiati dal martirio di Guglielmo Oberdan (condannato a morte per un’intenzione) e da episodi relativamente minori ma politicamente significativi come il «dimissionamento» disposto in tempo reale dal Governo Crispi a carico del Ministro delle Finanze Federico Seismit Doda, un patriota dalmata che si era distinto nell’epopea risorgimentale di Venezia ed aveva avuto il grave torto di auspicare l’affrancamento delle sue terre dal giogo straniero.

In altri termini, quei dieci mesi debbono essere rivalutati perché manifestarono tutta la sofferenza di un disagio connesso ai limiti di qualunque scelta venisse fatta dall’Italia, compresa quella di proseguire nella neutralità. Francesco Giuseppe, nel maggio 1915, avrebbe parlato della decisione di Vittorio Emanuele III e del Governo di Antonio Salandra, come di un tradimento fra i peggiori della Storia, ma l’Austria aveva importanti responsabilità storiche ed attuali, anche a prescindere dal fatto che la Triplice Alleanza era sorta con finalità difensive confermate nei rinnovi, e che nel luglio precedente l’Italia non sarebbe stata tenuta a scendere in campo accanto alla Germania ed all’Austria, come di fatto avvenne.

In altri termini, la scelta compiuta a seguito delle «radiose giornate» e delle vibranti allocuzioni di Gabriele d’Annunzio a Quarto dei Mille ed in Campidoglio non diede luogo ad alcun «vulnus» del diritto internazionale, come si sostenne da parte austriaca per ovvie ragioni di propaganda. Comprensibile sul piano politico, nonostante le rilevanti lacerazioni da cui venne accompagnata, fu un atto di motivato realismo ed un’opzione legittima anche sul piano giuridico.

Erano tuttora prevalenti le concezioni elitarie della Storia come quelle di Roberto Michels, di Gaetano Mosca e soprattutto di Georges Sorel, improntate all’idea secondo cui il corso degli eventi viene scritto soprattutto dagli spiriti più alti. La Grande Guerra avrebbe corretto radicalmente l’assunto, perché senza l’apporto delle masse combattenti e la maturazione delle coscienze in una nuova consapevolezza critica di diritti, doveri ed attese, i destini dell’Italia e dell’Europa sarebbero stati verosimilmente diversi. In ogni caso, fu proprio nei dieci mesi di neutralità, ancor prima dei quattro anni di guerra, che questa consapevolezza ormai convinta divenne patrimonio diffuso, gettando semi che, sia pure a lungo termine, avrebbero germogliato nel senso di una condivisa e crescente partecipazione popolare alla vicenda pubblica.

(giugno 2014)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, neutralità, Prima Guerra Mondiale, Grande Guerra, Francesco Ferdinando, Vienna, Imperi Centrali, Intesa, Roma, Francesco Giuseppe, Patto di Londra, Papa Benedetto XV, Patto Gentiloni, Giovvanni Giolitti, Sarajevo, Serbia, Gilles Pécout, Santa Alleanza, Quarta Guerra d'Indipendenza, Triplice Alleanza, Tunisi, Francia, Aigues Mortes, Risorgimento Nazionale Italiano, Guglielmo Oberdan, Vittorio Emanuele III, Antonio Salandra, Gabriele d'Annunzio, Roberto Michels, Gaetano Mosca, Georges Sorel.