Gli Italiani e la Prima Guerra Mondiale
Un’analisi della Grande Guerra in Italia nei suoi aspetti economici, politici e sociali

Molto si è scritto sulla storia militare della Prima Guerra Mondiale, sulle battaglie, sulle sconfitte e sulle vittorie: poco, invece, si è detto sulle conseguenze del conflitto riguardo alla società italiana dell’inizio del Novecento.

L’alba del nuovo secolo ha delineato nella Penisola la crisi irreversibile del sistema liberale e la conseguente reazione delle classi dirigenti. Scrive l’anarchico Errico Malatesta: «Tutto il sistema sociale vigente è fondato sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed opprime la grande massa; tutta l’educazione che si dà ai ragazzi si riassume in un’apoteosi della forza brutale. […]

Il popolo soffre perennemente la fame; i signorotti spadroneggiano peggio che nel Medioevo; il Governo fa a gara con i proprietari, dissangua i lavoratori per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche; la polizia è arbitra della libertà dei cittadini ed ogni grido di protesta... è soffocato nel sangue dai soldati».

Il quadro più essere anche caricaturale, ma fondamentalmente rimane plausibile. Colpisce il richiamo alle «imprese dinastiche»: la Prima Guerra Mondiale viene letta come una guerra legata ai Savoia, non all’Italia in sé, con il 70-75% del ceto contadino costretto a combattere in un conflitto per un principio che non gli appartiene. Una cosa rimane però fuori discussione: la Grande Guerra è il primo momento di aggregazione degli Italiani!

Ma torniamo un attimo ad esaminare com’è la società italiana negli anni immediatamente precedenti alla guerra. È una società piramidale: l’alta e la media borghesia si trovano al vertice, e dominano sui ceti subalterni; nelle campagne brianzole esistono già elementi di proto-fascismo (lotte agrarie). L’esercito svolge la funzione di tutore dell’ordine pubblico, di custode del potere costituito. La metafora della piramide offre anche l’immagine di una società che si vuole statica, immutabile.

In realtà, il progresso sociale del cosiddetto «quarto stato», la parte più povera e più numerosa della popolazione, porta ad una richiesta della legittimazione della sua forza numerica, e fa capire che la volontà di ottenere maggiori diritti è molto forte. I socialisti si propongono come una forza autonoma contro un sistema politico nel quale i voti si possono comprare con estrema facilità. Se nelle campagne la Chiesa riesce a mantenere la pace sociale, nelle città la situazione è molto più complicata. Ma la guerra e l’attribuzione dei pieni poteri all’esercito arrestano momentaneamente il progresso sociale delle classi subalterne.

In un clima siffatto l’Italia entra in guerra: è il 1915, l’anno in cui le forze dell’Intesa stanno per essere travolte – e questo la dice tutta rispetto alla vecchia baggianata che saliamo sempre «sul carro dei vincitori» –; è per questa ragione che all’Italia vengono offerti territori sproporzionati a qualsiasi merito avrebbe mai potuto accampare: non solo Trento e Trieste, l’Istria (mutila però dell’italianissima Fiume) e la Dalmazia, ma anche l’Alto Adige (dove si parla tedesco), Valona in Albania col suo entroterra, e ancora l’Anatolia, la Siria, colonie in Africa ed Asia...

Nel corso del conflitto, si inizia a costruire la falsa immagine di una guerra ampiamente condivisa dalla popolazione: la mitizzazione della guerra di popolo. Sei milioni di Italiani, su un popolo che ne conta 34 e mezzo, vengono mobilitati per uno sforzo immane, per impegnarsi in una guerra «patriottica» che non hanno mai voluto; il patriottismo c’è davvero, ma nel ceto piccolo-borghese, soprattutto impiegatizio, che in seguito favorirà il crescere del fascismo. Le persone che appartengono alle classi agiate combattono la guerra per il dovere morale di dare l’esempio: sono 8.000 i volontari di guerra; una lettera inviata dal conte Calini di Brescia (morto in guerra sul Pasubio) mostra chiaramente tutta quest’idealità borghese e risorgimentale (è decoroso e positivo morire per la Patria): «Se Dio ci alzò di qualche poco dalla comune condizione impone l’obbligo ne diamo l’esempio […] perseverate a sostenere l’assoluta necessità della guerra». Nonostante questo, non bisogna dimenticare che la guerra è stata decisa per un cumulo di motivazioni del tutto personali (il prestigio nazionale, l’interesse delle grandi banche solidali con i grossi industriali che possono permettersi di concordare i prezzi con l’apparato di controllo militare – fornendo prodotti scadenti ma pagati a prezzo d’oro!).

La vita nelle zone di guerra è dura, i soldati semplici si accontentano di cose umili, come il rancio consumato nel fango delle trincee, mentre le fotografie dell’epoca mostrano ufficiali superiori e notabili che consumano i pasti all’ombra degli arbusti, seduti attorno a dei tavolini, come se si tratti di tranquille riunioni conviviali. Interi reparti di fanteria formati da contadini, abili a maneggiare il fucile ed abituati ad obbedire, sono letteralmente mandati al macello assaltando le trincee nemiche (il Generale Cadorna, che pure è un ufficiale di valore, non si è mai posto il problema di quanti morti gli sia costata un’avanzata di qualche centinaio di metri); si aggiunga poi che, dei 400.000 prigionieri italiani caduti in mano al nemico, 100.000 muoiono di stenti e di febbre spagnola nei campi di concentramento austriaci e boemi. La disparità di trattamento, di orientamento e di volontà aggraverà la divaricazione di classe esistente ed esploderà dopo la guerra nel cosiddetto «biennio rosso» e nella rivoluzione agraria del 1921 che porteranno al fascismo.

Nelle zone di guerra, nei paesi del Centro e del Nord Italia, per cinquanta mesi, dal maggio del 1915 al luglio del 1919, militari e civili – vecchi, donne e bambini – saranno costretti alla convivenza (con la proporzione di un civile ogni due o tre militari). Territori senza acquedotti, fognature, servizi igienici sufficienti per i residenti vengono di colpo «invasi» da giovani meridionali che parlano una lingua differente. Milioni di soldati si avvicendano. La gente reagisce prima manifestando volontà di chiusura (si evita di uscire di casa per paura dei «diversi»), poi si prova a ricavare dei profitti, e in modo non del tutto lecito: per esempio, ci sono dei paesani che vendono latte alterato con acqua ai soldati, visti come una risorsa economica. Alla fine, la comune matrice tra l’esercito (il fante contadino meridionale) e la contadina settentrionale che ha il marito che milita nello stesso esercito si rivelerà un elemento unificante, e si creeranno anche relazioni amicali.

Ragazzi e ragazze subiscono forse più degli adulti i problemi legati alla promiscuità coi militari. Con la partenza dei padri per il fronte, i figli – spesso senza esperienza di vita – sono costretti al lavoro quasi autonomo, necessario, sobbarcandosi le responsabilità dei capofamiglia, a volte rubando o vivendo di traffici coi militari, mentre le donne si assumono la responsabilità di sostenere l’esercito in guerra e della conduzione delle famiglie, e per questo entrano nel mondo del lavoro. Il fatto è molto importante: prima della guerra, il tema dell’emancipazione femminile è sentito solo nei ceti più elevati, e in modo diverso da quello che potremmo pensare – per esempio, l’Unione Femminile Nazionale a Milano, che raccoglie membri della buona e media borghesia, cerca un’emancipazione che però non stravolga i legami sociali e i ceti di classe: la donna deve rimanere sotto la tutela del marito, del padre o del fratello maggiore, bisogna elevarne l’istruzione, la difesa dell’infanzia e della maternità, però non si pensa assolutamente ad una parità di diritti con l’uomo. L’uomo ha un ruolo assolutamente primario in famiglia, e nessuno – neppure i socialisti – sfugge a questo concetto; la donna è definita a priori come una generatrice (l’«angelo del focolare», ed appare inconcepibile anche solo prestarle ascolto). La donna sul lavoro è sfruttata, i salari sono circa un terzo di quelli maschili, le operaie sono per lo più impiegate nei cotonifici e negli stabilimenti serici, nelle industrie metalmeccaniche, nelle filande che possono assumere migliaia di lavoratrici, in condizioni simili a quelle dell’Inghilterra della Prima Rivoluzione Industriale. La presa di coscienza di sé passa anche attraverso il contatto con l’autorità: tutta l’economia viene sussidiata dallo Stato, e la donna si trova a dover dialogare con i rappresentanti del Governo per avere i sussidi (scarsi). Durante la guerra il livello dei salari salirà del 350%, ma l’inflazione addirittura del 400%. Gran parte del personale femminile trova impiego in lavori nella pubblica amministrazione, ma quando al termine del conflitto si chiede di esprimere il grado di gradimento del lavoro femminile, i commenti parlano quasi sempre di personale non adatto per mancanza di competenze, di istruzione o per l’eccessiva frivolezza.

Ragazze giovani, da sempre assoggettate ad una rigida disciplina familiare e sociale, con la partenza degli uomini per il fronte possono assaporare una ventata di libertà stigmatizzata dai benpensanti come un peggioramento dei costumi ed un allentamento dei vincoli familiari. Negli anni tra il 1911 e il 1921, nelle zone di guerra si nota una diminuzione del 30-40% delle nascite legittime, ma un aumento di oltre il 100% di figli illegittimi di padre ignoto (il diritto di famiglia garantisce all’uomo la possibilità di dichiarare un figlio come suo e di una donna che non vuole essere conosciuta). Aumentano anche gli infanticidi e i feticidi, delitti prima quasi inesistenti, perché una ragazza rimasta incinta da parte di un soldato getta discredito su di sé e sull’intero gruppo familiare.

La fine della guerra non porta l’atteso benessere. Il mondo è mutato, l’ambasciatore dello Zar non c’è più, al suo posto siede il Presidente Americano Thomas Woodrow Wilson che non ha firmato il Patto di Londra con l’Italia e non si sente vincolato ad esso: così, i nostri compensi territoriali si riducono notevolmente, la Dalmazia andrà al neonato Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (la futura Iugoslavia), l’Anatolia sarà data alla Grecia (che la perderà miseramente già nel 1922), la Siria alla Francia che insieme alla Gran Bretagna si spartirà allegramente le colonie ex-tedesche in Africa ed Asia ch’erano state garantite all’Italia.

Si aggiunga che il Governo Italiano aveva promesso l’elargizione di terre ai giovani soldati della classe del 1899, ma una volta terminato il conflitto, le cerimonie commemorative e l’assegnazione delle medaglie, molti possidenti non hanno nessuna intenzione di cedere i loro terreni; vi sono scontri con morti e feriti nel tentativo di difendere l’ordine costituito.

Gli uomini tornati a casa dal fronte ricercano in modo spasmodico di ottenebrare la mente, di dimenticare gli orrori visti e vissuti attraverso il vino e i liquori, che accentuano l’uso della violenza (anche in ambito familiare), nonostante le severe leggi contro l’alcolismo. I proprietari delle fabbriche si liberano della manodopera «scomoda» (cioè sindacalizzata) ed estromettono le donne per ridar posto agli uomini, ciononostante il tasso di disoccupazione rimane altissimo. Il clero è il baluardo per ripristinare i ruoli dell’anteguerra, per far sì che i «cattivi costumi» non si infiltrino, perché la guerra non può spezzare un cammino di continuità, di rispetto dei ruoli: l’ultimo subordinato dei lavoratori agricoli non può alzare la testa nei confronti del proprietario terriero, né la donna nei confronti dell’uomo, perché si esporrebbe alla pubblica riprovazione. Gli stessi socialisti ritengono sconvolgente l’idea che la donna sia pari all’uomo, è diversa per nascita, per temperamento, e per provarlo si aggrappano alle stereotipie di genere (un po’ come facciamo oggi quando ironizziamo sul fatto che «le donne non sanno guidare»...); Turati, addirittura, non accetta la possibilità che le donne abbiano accesso alla vita pubblica.

Con l’ascesa del fascismo, il patrimonio esperienziale della guerra deve diventare unico e unanimemente riconosciuto (emblematiche le parole di Mussolini al Re: «Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto rinfrancata dalla Vittoria»). Il fascismo si legittima come unico interprete dell’Italia in guerra, appiattendo ogni dissenso col manganello, l’olio di ricino e soprattutto con l’elemento di continuità: il conflitto ha giovato alla conservazione, perché ha bloccato la possibilità di affermazione dei ceti popolari; il socialismo ha perso ogni potere anche per il suo rifiuto di coesistere con la Chiesa (più che come un’ideologia politica, si pone come un credo religioso, la cui appartenenza implica la non appartenenza ad altre correnti di pensiero). Il ruolo della donna italiana nella politica sociale e demografica del fascismo è quello di «sposa e madre esemplare», anche come colei che genera e cresce i giovani fino a cederli allo Stato totalitario che li inquadra nell’esercito. Viene valorizzato il ruolo femminile della maestra nelle scuole elementari, tutelata la maternità, concessi aiuti ed elargizioni, ma mai diritti. Il clero incita ad un miglioramento dello stato sociale della donna, ma sempre nel rispetto dei ruoli. Per molto tempo, anche dopo la caduta del Regime, la società italiana resterà fissa su modelli ormai obsoleti.

(settembre 2015)

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