Una Nazione in cerca di fortuna: l’Italia in Africa (1882-1896)
Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia iniziò la sua penetrazione in Africa Orientale, in posizioni strategicamente importanti sul fronte del commercio, tra crescenti difficoltà

Gli anni che seguono l’unificazione dell’Italia sono densi di dibattiti: alcuni pensano che il Paese dovrebbe dedicarsi a curare le proprie piaghe, altri sono dell’idea che la Nazione debba diventare una grande potenza. Sono anni di piena espansione coloniale, durante i quali tutti i maggiori Stati Europei vanno occupando territori in Asia, nell’Oceania, in Africa, per crearvi colonie; anche l’Italia affronta questo problema decidendo di tentare una grande avventura. La spinta all’espansione è causata da motivi economici e demografici, connessi al continuo accrescersi della popolazione: l’Italia passa dai 27 milioni di abitanti del 1871 ai 33 del 1900 ed ai 35 del 1911; le risorse della Penisola sono insufficienti e si cercano territori di popolamento, dove migliaia di Italiani potrebbero sistemarsi. Infatti, nel corso degli anni gruppi sempre più numerosi di persone lasciano l’Italia per andare a cercare lavoro in altri Paesi: fino al 1880 la maggioranza degli emigranti proviene dal Nord, poi è la volta dei Meridionali; gli emigranti sono 60.000 nel 1870, 100.000 nel 1876, 170.000 nel 1886, 300.000 nel 1896, 800.000 nel 1906, 900.000 nel 1913. Gli emigranti permanenti, che hanno scelto una nuova patria nell’America Meridionale o Settentrionale, nel 1910 sono già oltre 5 milioni e mezzo. Per l’assistenza agli emigranti viene costituito nel 1901 un Commissariato per l’emigrazione, preceduto dalle iniziative di Monsignor Scalabrini (1887, per l’America), Santa Francesca Cabrini (1889, per gli Stati Uniti) e Monsignor Bonomelli.

Ma torniamo all’Africa. L’Italia vi si installa anche per una reazione anti francese: i due Paesi sono ai ferri corti da quando il Governo di Roma ha deciso di aderire alla Triplice Alleanza a fianco di Germania ed Austria. Già prima, nel 1880, Parigi aveva deciso di occupare la Tunisia, dove non aveva interessi, per penalizzare l’Italia, che in Tunisia aveva una colonia e molti interessi. Alla Penisola «serve» quindi una colonia africana, e la trova nell’Eritrea: è dal 1869 che la Società di Navigazione Rubattino, istituendo una linea di navigazione per l’India, ha acquistato la Baia di Assab, nel Mar Rosso, per farne una base di rifornimento di carbone per le proprie navi. Nel 1882 il Governo Italiano, a seguito di alcune contestazioni sorte tra la Rubattino e il Governo Egiziano, acquista a sua volta la base, d’accordo con l’Inghilterra, e vi costituisce la prima «colonia italiana all’estero». Nel 1885 il Presidente del Consiglio Agostino Depretis, capo della Sinistra, ordina l’occupazione di Massaua, un incerto possesso turco-egiziano, da parte del Colonnello Saletta, per tentare da lì l’avanzata verso l’Abissinia, uno dei pochi territori africani non ancora occupati dagli Europei. È il 5 febbraio.

La Battaglia di Dogali

Michele Cammarano, La Battaglia di Dogali, 1896

La cosa non piace all’Imperatore d’Etiopia, il Negus Neghesti («Re dei Re») Giovanni IV, un Sovrano feudale, che deve vedersela con vassalli infidi e spesso più potenti di lui; è così che il Ras Alula, governatore dell’Asmara, a Dogali assale a tradimento una colonna di 500 soldati guidata dal Colonnello De Cristoforis, massacrandola fin quasi all’ultimo uomo (1887). Verso la fine dell’anno, quando sale al potere Francesco Crispi, viene inaugurata una politica coloniale più energica: a Massaua è inviato un esercito di 13.000 soldati sotto il comando del Generale Baldissera, che occupa Cheren e l’Asmara senza sparare un colpo di fucile; nello stesso tempo, si forniscono aiuti al Ras dello Scioa, Menelik, perché s’impadronisca del trono dell’Abissinia. È costui una figura interessante, un misto di forza ascetica e di energia guerriera, di rudezza politica e di ambizione imperiale. Morto Giovanni IV in una spedizione contro i dervisci, Menelik sale al potere e il 2 maggio 1889 firma con l’Italia il Trattato di Uccialli, con il quale – in cambio del riconoscimento italiano al suo titolo di Imperatore d’Abissinia – riconosce la sovranità italiana sui territori del Mar Rosso occupati dagli Italiani. Il 1° gennaio 1890, i possessi italiani vengono riuniti sotto il nome di Eritrea (dall’antico nome dell’Oceano Indiano). Nel frattempo, alcuni Sultanati della Somalia accettano pacificamente la sovranità italiana.

L'Imperatore Menelik sul trono

L'Imperatore Menelik sul trono, fotografia della fine del XIX secolo o dell'inizio del XX

Ma nel 1893 Menelik brama riprendere la propria libertà d’azione e dichiara rotto il patto con l’Italia, prendendo a pretesto alcune contestazioni nell’interpretazione del Trattato (l’articolo 17 nella versione italiana precisa che «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattative di affari che avesse con altre Potenze o Governi», implica quindi un protettorato, e come tale è riconosciuto da tutte le Potenze esclusa la Russia; mentre la versione amarica recita che «il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i Regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia», quindi esclude ogni protettorato). Dopo l’apertura delle ostilità gli Italiani, comandati dal Generale Oreste Baratieri (un uomo basso, sgraziato, occhialuto), nel 1894-1895 ottengono alcuni successi occupando la regione del Tigrai, fertile e popolosa, ai confini fra l’Eritrea e l’Abissinia. Menelik avanza con un esercito di 100.000 Abissini, di cui 9.000 sono ottimi cavalieri, e con 50 bocche da fuoco fra cannoni e mitragliatrici; ha munizioni perfette, vendutegli proprio dall’Italia; il soldato abissino è facile al panico ed al disordine, fatalista e superstizioso, ma è anche un ottimo camminatore, sobrio, resistente, coraggioso, affezionato ai comandanti, impetuoso nell’assalto, conoscitore abile del terreno. Il maggiore Toselli viene inviato sull’Amba Alagi con 2.500 soldati e 1.500 ascari, per arrestarne la marcia. Si crede il nemico male armato, senza artiglieria pesante, discorde e timoroso di uno scontro in campo aperto. Toselli, circondato da 35.000 Abissini, viene massacrato con la maggior parte dei suoi; il maggiore Galliano, lasciato con 1.200 uomini nel forte di Makallé, è costretto a ritirarsi dopo un’eroica resistenza (il nemico strabiliato gli concede l’onore delle armi). Queste sconfitte sono dovute a diversità di preparazione politica e militare: mentre gli Abissini sono chiamati ad una sorta di «guerra santa» contro i bianchi, con le truppe istruite da ufficiali europei ed armate di armi da fuoco nuovissime, con strade riattate verso i confini e con provviste raccolte in gran quantità, gli Italiani sono numericamente insufficienti al presidio del territorio, spesso senza affiatamento e con scarso armamento, senza depositi di viveri e di armi, senza lavori stradali, senza organizzazione del servizio informazioni e senza impegno di guerra, con scarsi mezzi finanziari e con un’azione tendente a seminare discordie fra i vari Ras che sortisce addirittura l’effetto opposto.

Il 1° marzo 1896 il Generale Baratieri, male informato e male orientato sul terreno, si trova di fronte un nemico che lo sovrasta numericamente ed è armato esattamente come i suoi: 105.000 Abissini contro 16.000 Italiani. Le truppe italiane sboccano nella conca di Adua stanche ed assonnate, dopo una marcia notturna durante la quale i reparti hanno perso i contatti fra loro, e le colonne in cui sono divise si presentano alla spicciolata al confronto contro un nemico riposato e compatto. La battaglia dura dall’alba alle 14 e, nonostante il grande eroismo degli Italiani, termina con una loro tremenda sconfitta: cadono 6.700 uomini, tanti quanti furono i morti di tutte le battaglie del Risorgimento messe assieme. Dopo questa sconfitta il Crispi è costretto alle dimissioni: al suo posto sale al potere il marchese di Rudinì, conservatore. Il 4 marzo il Generale Baldissera assume il comando di tutte le forze, le organizza, le solleva di morale; con le truppe di rinforzo che sbarcano a Massaua sconfigge i dervisci, libera dall’assedio Cassala ed Adigrat, ma l’opinione pubblica ed il Parlamento ne bloccano l’iniziativa. Il Governo di Roma firma nell’ottobre 1896 la pace con Menelik; con essa, l’Italia rinuncia al protettorato sull’Abissinia e al possesso del Tigrai, stabilisce il confine coloniale sulla linea Mareb-Delesa-Muna e versa 10 milioni di lire per il riscatto dei prigionieri. La guerra è costata, tra morti e feriti, 30.000 uomini, equamente divisi tra Italiani ed Abissini.

Pochi anni dopo, l’Italia ottiene un’altra colonia: la città cinese di Tientsin, elargitole dopo la sconfitta del Celeste Impero nella rivolta dei Boxers. Ma la cosa si rivela un fatto del tutto ipotetico e senza reali conseguenze.

(marzo 2018)

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