L’istruzione elementare nel Regno d’Italia
Dalla Legge Casati alla Legge Daneo-Credaro: come la scolarizzazione favorì non solo l’istruzione, ma anche la partecipazione da parte del popolo alla vita civile e politica italiana

La promulgazione della Legge Casati, dal nome del Ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna, Gabrio Casati, è certamente un momento fondamentale nella storia della scuola italiana. Sebbene non avesse l’istruzione popolare come primo obiettivo, diede il suo indubbio contributo alla scolarizzazione del popolo italiano.

Detta legge venne promulgata il 13 dicembre del 1859, in clima di pieni poteri dell’esecutivo. Appena tre giorni prima era stata firmata la Pace di Zurigo con la quale il Regno di Sardegna aveva acquisito la Lombardia austriaca e a questa intendeva estendere il suo sistema scolastico. Con qualche aggiustamento, che doveva tener conto delle differenze sociali e culturali delle varie regioni, tale legislazione venne poi estesa anche ai territori che man mano entrarono a far parte dello Stato che di lì a poco avrebbe assunto la denominazione: Regno d’Italia.

Si è scritto molto sulla validità e sui limiti di tale legge: oltremodo statalista, calibrata per la realtà piemontese e lombarda, ma difficilmente adattabile agli altri territori del costituendo Stato Italiano, secondo l’opinione di Cattaneo, che come è noto auspicava per l’Italia una soluzione federale.

Cerchiamo ora di vedere nel dettaglio le disposizioni che riguardano l’istruzione di base. Nel titolo V[1], che tratta dei compiti dell’istruzione elementare, vediamo l’articolo 315 che così recita: «L’istruzione elementare è di due gradi, inferiore e superiore. L’istruzione di grado inferiore comprende l’insegnamento religioso, la lettura, la scrittura, l’aritmetica elementare, la lingua italiana, nozioni elementari sul sistema metrico. L’istruzione superiore comprende, oltre lo svolgimento delle materie di grado inferiore, le regole della composizione, la calligrafia, la tenuta dei libri, la geografia elementare, l’esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, le cognizioni di scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi ordinari della vita. Alle materie sovr’accennate saranno aggiunti, nelle scuole maschili superiori, i primi elementi di geometria ed il disegno lineare; nelle scuole femminili, i lavori donneschi».

L’articolo 317 afferma che: «L’istruzione elementare è data gratuitamente in tutti i Comuni. Questi vi provvedono in proporzione delle loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti».

È chiaro che una simile formulazione lasciava spazio a una notevole flessibilità al momento dell’attuazione in ogni singola realtà locale. Le esigenze di bilancio avevano la priorità, per cui se mancavano i fondi necessari, si poteva tralasciare di istituire la scuola elementare.

Un altro articolo che balza all’attenzione e sul quale è doverosa una qualche considerazione è il 326, che nella sua prima parte così recita: «I padri, e coloro che ne fanno le veci, hanno l’obbligo di procacciare, nel modo che crederanno conveniente, ai loro figli dei due sessi in età di frequentare le scuole pubbliche elementari del grado inferiore, l’istruzione che vien data nelle medesime».

L’obbligo è riferito all’istruzione, i modi per attuarla sono lasciati alla discrezione dei padri, che possono decidere di mandare i figli a scuola oppure, come era costume nel ceto nobiliare, farli istruire da precettori. Per le classi popolari c’era l’obbligo di mandare i figli a scuola, in caso di inadempienza la legge prevedeva una procedura che partiva dall’esortazione che il sindaco doveva rivolgere ai genitori inadempienti, affinché mandassero i figli a scuola, si poteva arrivare fino alla punizione, secondo le leggi penali dello Stato.

Altri elementi interessanti ai fini del presente discorso li possiamo cogliere scorrendo i vari articoli. L’età per accedere alla scuola elementare è di sei anni, i corsi inferiore e superiore sono strutturati a loro volta in due classi, quindi il ciclo completo risulta di quattro anni; il numero minimo di allievi per poter istituire una scuola (che a tutti gli effetti è una classe) è di 50, mentre 70 è il numero massimo.

Il corpo insegnante è costituito di maestri e di maestre che abbiano compiuto rispettivamente 18 o 17 anni, sotto il controllo del maestro principale è consentito l’insegnamento anche a docenti di 16 e 14 anni (articolo 331). Per poter svolgere l’attività di maestro nella scuola elementare pubblica è necessario aver conseguito una patente di idoneità tramite esame e un attestato di moralità rilasciato dalle autorità comunali (articolo 330).

Si prevede anche l’istituzione del «Monte delle pensioni pei maestri elementari» (articoli 347, 348, 349, 350, 351). La normativa non pare essere particolarmente generosa, questo del resto è in linea con le retribuzioni, anche queste alquanto modeste; chi aveva maturato 30 anni di servizio e 55 anni di età poteva godere dello stipendio minimo percepito durante l’ultimo quinquennio, ma questo trattamento andava applicato solo nei confronti di chi non era in grado di continuare il servizio.

La Legge Casati trovò molti motivi d’opposizione sia d’ordine ideale sia da un punto di vista della sua applicazione concreta. La Chiesa era preoccupata dell’invadenza dello Stato in un campo che storicamente le apparteneva. Chi simpatizzava con le idee mazziniane e socialiste non vedeva con favore un’istruzione fondata su principi monarchici e borghesi. Per contro, gli ultraconservatori temevano che un popolo istruito sarebbe stato meno rispettoso nei confronti del potere.

Ma anche altri elementi contribuivano a ostacolare l’espansione dell’istruzione: le spese che gravavano sui bilanci dei Comuni e inducevano gli amministratori, specie quelli dei piccoli centri, a ignorare questo settore, poi c’erano le famiglie che si vedevano i figli sottratti dal sistema scolastico, mentre potevano essere utili, anche in tenera età, per lavorare i campi. E i bambini che cosa avranno pensato? È certo che non sempre si va scuola volentieri, se poi si aggiunge quanto avranno sentito dire in casa, viene da pensare che ci saranno stati parecchi problemi.

Nonostante ciò l’istituzione scolastica ha continuato il suo cammino irrobustendosi, pur con rilevanti differenze, su tutto il territorio nazionale. Certamente il fenomeno trova risposte in relazione allo sviluppo economico, sociale e politico dell’Italia, ma ci piace anche pensare che a un certo punto sia nata nella mente di tanti genitori e di tanti alunni la convinzione che è bello imparare. La scuola, pur con tutti i suoi limiti, è un luogo in cui si apprende e si sta bene insieme.

Alla legge fondamentale di cui abbiamo detto seguirono i relativi programmi, per ciò che riguarda la scuola elementare i primi portano la data del 15 settembre 1860. La religione, la lingua italiana e l’aritmetica sono comuni a tutte le classi, mentre la lettura inizia in seconda. È chiaro che l’apprendimento della lingua italiana era considerato di fondamentale importanza come momento di unificazione nazionale. La religione nella scuola statale aveva una rilevanza per così dire civica, perché inculcava nei giovinetti il senso di obbedienza e di sottomissione all’autorità. Il discorso non è molto diverso da quanto si faceva nel periodo austriaco e in quello napoleonico. Per la verità più che il cittadino si tendeva a formare il suddito o regnilcolo, come è definito nello Statuto Albertino.

Nel 1867 il Ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino[2] operava dei ritocchi ai programmi volti a «semplificare ragionevolmente la materia già data dei vecchi programmi e di coordinarla al meglio», come si legge nelle Considerazioni generali delle Istruzioni del sopraccitato Ministro. Il fine della formazione elementare era duplice: per le classi popolari essa costituiva la sola e unica forma di «ammaestramento», come si diceva allora; per altri, appartenenti a strati sociali più elevati, detta istruzione era invece propedeutica agli studi successivi.

L’attenzione del legislatore era rivolta in primo luogo agli strati più bassi della popolazione, per liberarla dall’analfabetismo. In questi ritocchi non è menzionata la religione, si parla invece di «Nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino»; questa omissione è stata variamente interpretata: c’è chi diceva che si è inteso mettere l’insegnamento religioso in secondo piano, a favore di un’educazione più prettamente civica, altri invece ritenevano che le vecchie disposizioni, ancora valide, non avessero bisogno di altre puntualizzazioni. Del resto, il discorso è incentrato soprattutto sulla lingua italiana, per il motivo che abbiamo detto poco sopra, le disposizioni riguardanti l’aritmetica sono molto ridotte.

La notorietà di Coppino è legata soprattutto alla legge del 1877 che porta il suo nome e che introduce in maniera più decisa l’obbligo scolastico. L’articolo 1 nella sua prima parte così recita: «I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuto l’età di sei anni, e ai quali i genitori o quelli che ne tengono luogo non procaccino la necessaria istruzione, o per mezzo di scuole private ai termini degli articoli 355 e 356 della legge 13 novembre 1859, o coll’insegnamento in famiglia, dovranno essere inviati alla scuola del Comune».

Il 1876 aveva visto l’avvento della Sinistra storica al potere, che, pur con tutti i limiti del suo moderatismo e la sua tendenza al compromesso, manifestava anche una diversa sensibilità. La nuova classe politica vedeva nell’istruzione delle masse un elemento fondamentale per lo sviluppo della Nazione. Si trattava di educare il popolo ai patri valori e anche di istruirlo sui primi rudimenti del sapere.

La Legge Numero 3961, sull’obbligo dell’istruzione elementare, vide quindi la luce il 15 luglio 1877. Essa si proponeva di rendere effettivo l’obbligo, già peraltro previsto nella precedente legislazione, anche se largamente disatteso. Ai Comuni fu affidato il compito di sorvegliare e di operare affinché i bambini dai sei ai nove anni frequentassero il corso inferiore della scuola elementare (articoli 3, 4, 5, 6). Per far questo avrebbero dovuto stanziare una parte dei fondi del bilancio, con possibilità anche di aumentare le entrate, nei termini previsti dalla già citata Legge Casati.

Nel 1888, durante il secondo Governo Crispi, con Paolo Boselli alla Pubblica Istruzione, vennero emanati i programmi per le scuole elementari, definiti dagli storici come «positivistici». La commissione preposta alla loro elaborazione era composta di studiosi che gravitavano intorno a questa linea filosofica. Il più citato è Aristide Gabelli, già autore di un Metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia nel quale si parla della necessità di insegnare una modalità di approccio al sapere che parta da una percezione sensoriale dei dati concreti. Detti programmi si proponevano quindi in primo luogo l’obiettivo dell’acquisizione di un «habitus» piuttosto che l’apprendimento di nozioni libresche. Davano inoltre importanza all’educazione fisica, alla ginnastica, al canto e alla musica. Mancava invece l’insegnamento della religione, che costituiva materia facoltativa, per la quale lo Stato non intendeva intervenire.

I commentatori hanno fatto notare come fra le Istruzioni, che costituiscono la parte preponderante del testo, e i Programmi veri e propri vi sia una notevole distanza, come pure distanti erano le possibilità di realizzazione nella concreta prassi didattica.

Non passarono che sei anni e il Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, presentava al Re i Nuovi Programmi per la scuola elementare, definiti dagli storici della scuola come «programmi del conservatorismo».

L’Italia visse nell’ultimo scorcio dell’Ottocento una crisi profonda, alla quale le istituzioni risposero con una chiusura reazionaria che porterà ai noti tragici eventi, tanto per citare quelli più eclatanti, possiamo ricordare i fatti di Milano nel 1898, la spietata repressione attuata dal Generale Bava Beccaris, e il tentativo, peraltro non riuscito, del Primo Ministro Pelloux (1898-1900) di esautorare il Parlamento delle sue prerogative. Il regicidio del 1900, avvenuto durante il Governo del moderato Saracco, sembrò far precipitare l’Italia in una spirale di insurrezione e repressione, che per fortuna non si verificò.

Questo clima di chiusura anche a causa della violenza delle manifestazioni era già iniziato qualche decennio prima, con i Governi Crispi e Rudinì e, a parte la breve parentesi del Governo Giolitti (1892-1893), proseguì con un altro Governo Crispi e poi ancora con Rudinì.

La scuola del Regno d’Italia svolgeva la sua funzione tentando di inculcare, con i mezzi che le erano propri, i valori della classe dominante, i Programmi del 1894 si proponevano questo obiettivo, mentre i precedenti venivano considerati troppo progressisti. Si temeva da parte dei conservatori che la scuola potesse diventare sobillatrice di pericolose idee; a questo proposito sono emblematiche le parole del Ministro della Pubblica Istruzione, Baccelli: «Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può». Si tratta chiaramente di educare ai valori che chi è al potere non intende mettere in discussione.

Il conservatorismo che dominava la scena politica, accompagnato talvolta da punte di pensiero reazionario, vedeva con preoccupazione l’emancipazione della masse a cui la scuola contribuiva; nel corpo insegnante non pochi maestri avevano idee socialiste. Giovanni Giolitti in un libro autobiografico intitolato: Memorie della mia vita, così racconta: «Si raccolse a Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il coraggio di proporre per tutta riforma, abolizione dell’istruzione elementare, perché i contadini e i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove».

In questo clima i Programmi del 1894, presentati come semplificazione di ciò che è troppo prolisso, sono comunemente considerati dai vari commentatori come ispiratori di uno spirito conformistico e forse anche controriformistico. Nel 1889 vennero aggiunte ai programmi per la scuola elementare le Istruzioni per l’insegnamento delle prime nozioni di agricoltura, del lavoro manuale educativo, dei lavori donneschi, dell’igiene e dell’economia domestica. Vi erano scuole rurali con annesso campicello e scuole urbane che in certi momenti diventavano laboratori. Lo scopo era in primo luogo didattico: osservazione della natura e dell’intervento umano nelle coltivazioni agrarie, acquisizione di nozioni teoriche attraverso la pratica del lavoro manuale; come finalità di più lungo termine questi insegnamenti si proponevano di avvicinare il popolo alla terra e al lavoro in genere. Ciascuno era chiamato a operare nell’ambiente in cui era nato, senza illusioni di cambiamenti sociali, quanto poi agli alunni destinati agli studi superiori, la pratica del lavoro avrebbe dovuto renderli più coscienti del valore e delle fatiche che questo comporta.

Arrivando al nuovo secolo, si ricorda la Legge Nasi del 19 febbraio 1903, numero 45, questa introduceva la figura del direttore didattico, per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, con almeno 20 classi elementari. La Legge Orlando dell’8 luglio 1904, numero 407, estendeva l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, prima e seconda costituivano il corso inferiore, terza e quarta quello superiore, quinta e sesta il corso popolare.

I primi decenni del Regno d’Italia furono assai ricchi di disposizioni legislative riguardanti la scuola elementare; i nuovi programmi che si susseguivano a breve distanza di tempo non costituivano tuttavia un capriccio del legislatore ma derivavano dalla presa di coscienza di una situazione nazionale che di volta in volta richiedeva degli aggiustamenti. I Programmi del 1905 si collocavano in un’epoca di rilevanti aperture sociali, comunemente denominata «Età giolittiana». Il decollo industriale portava con sé molti problemi: concentrazione di popolazione nelle città industriali, d’altra parte l’emigrazione d’oltralpe e d’oltreoceano, già iniziata nei decenni precedenti, ebbe la sua punta massima negli anni del Novecento precedenti il Primo Conflitto Mondiale.

La classe politica, anche quella più recalcitrante, prendeva sempre più coscienza dell’importanza dell’istruzione elementare, quantomeno per l’apprendimento della lingua italiana e delle prime nozioni di calcolo. Era chiaro che l’istruzione costituiva il veicolo fondamentale per la trasmissione dei valori nazionali, per completare quell’unione sociale e culturale faticosamente iniziata dopo l’unificazione politica del territorio della Penisola.

I nuovi programmi miravano quindi al potenziamento della lingua italiana, eliminando il più possibile ogni traccia di dialetti regionali, l’insegnamento storico rivestiva un carattere prettamente patriottico, illuminato, per così dire, dall’educazione morale e dall’istruzione civile.

La Legge Daneo-Credaro del 4 giugno 1911, numero 487, dava avvio al processo di statalizzazione della scuola, il provveditore agli studi diventava il capo di tutta l’Amministrazione scolastica e presiedeva il Consiglio provinciale dell’istruzione, prima presieduto dal prefetto. I Comuni persero l’amministrazione finanziaria delle scuole, eccezion fatta per quelli capoluogo di provincia, e la competenza per la nomina degli insegnanti passava al Consiglio provinciale scolastico.

Così guardando a ritroso gli anni intercorsi dalla proclamazione del Regno d’Italia si può dire che molti progressi si sono compiuti nel campo dell’istruzione di base, certo che il divario tra quanto affermano le disposizioni e le concrete realizzazioni è ancora molto ampio, con marcate differenza da territorio a territorio. L’alfabetizzazione nel corso di questi cinque decenni è passata dal 22% al 53,3%. Di pari passo con la scolarizzazione è aumentata la partecipazione alla vita civile e politica, non a caso nel 1911 si arriva al suffragio universale maschile. Rispetto alle altre Nazioni l’Italia poteva ritenersi moderatamente soddisfatta della posizione raggiunta; inutile dire che tanto restava da fare.


Note

1 www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1859/1859-3725.doc

2 www.sba.unifi.it/upload/scienzesociali/mostre/costruire.../legge_coppino.pdf


Bibliografia

Catarsi E., Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1990

De Vivo F., Linee di storia della scuola italiana, Editrice La Scuola, Brescia 1990

Genovesi G., Storia della scuola italiana dal Settecento a oggi, Editori Laterza, Roma Bari 2007.

(novembre 2018)

Tag: Raffaele Pisani, istruzione elementare nel Regno d’Italia, Legge Casati, storia della scuola italiana, 13 dicembre 1859, Gabrio Casati, Monte delle pensioni pei maestri elementari, Statuto Albertino, Michele Coppino, Considerazioni generali delle Istruzioni, lotta all'analfabetismo, Legge Coppino, 15 luglio 1877, obbligo dell’istruzione elementare, Paolo Boselli, programmi per le scuole elementari, Aristide Gabelli, Guido Baccelli, programmi del conservatorismo, Giovanni Giolitti, Legge Nasi, 19 febbraio 1903, Legge Orlando, 8 luglio 1904, Legge Daneo-Credaro, 4 giugno 1911.