Irredentismo e nazionalismo
La svolta storica italiana del 1910 per una nuova sinergia patriottica

Nel lontano 1910 il primo Congresso Nazionalista di Firenze[1], per iniziativa prioritaria di Luigi Federzoni, Enrico Corradini e Scipio Sighele decise di effettuare una scelta di campo decisamente innovatrice a favore dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata che nel ventennio precedente aveva costituito una sostanziale esclusiva della Sinistra radicale e repubblicana (ma non di quella socialista), mentre le forze moderate erano state costrette dalla ragione di Stato a una stretta osservanza governativa, subordinata all’Alleanza con gli Imperi Centrali. Si tratta di una svolta che vale la pena di sottrarre al progressivo silenzio della storia, perché segna un punto di non ritorno nella politica estera del partito «azzurro».

In effetti, la scelta austriacante delle forze governative, e in particolare della Sinistra crispina, era sembrata innaturale, ma dopo l’acquisizione di Tunisi da parte francese, all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento l’Italia era rimasta isolata sul piano diplomatico e aveva dovuto derogare alle ispirazioni risorgimentali, optando per un’alleanza che a molti era apparsa innaturale, non diversamente da quanto sarebbe accaduto in occasione del «Patto d’Acciaio» che il Governo Mussolini avrebbe firmato 30 anni più tardi con la Germania hitleriana, non certo in chiave irredentista.

La convergenza dell’estrema Sinistra e della Destra radicale diventava un fatto nuovo, nella prospettiva – sia pure contingente – di «equilibri più avanzati» (come si sarebbe detto in una diversa e più recente stagione politica: quella del secondo dopoguerra, con la crisi del quadripartito che era stato promosso da Alcide De Gasperi tramite l’alleanza della Democrazia Cristiana coi partiti di democrazia laica, superata dall’apertura al Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni, antesignana di quella al Partito Comunista Italiano).

Sempre nel 1910, il Governo di Vienna espresse formali proteste nei confronti dell’Italia perché – pur facendo parte della Triplice – si era resa «responsabile» di avere nominato Senatori del Regno uomini come Luigi Pastro, compagno dei Martiri di Belfiore che l’Austria aveva consegnato al boia durante la famigerata stagione del Feldmaresciallo Radetzky quale Governatore di Milano; e come Giacomo Ciamician, illustre chimico ed esule triestino, ma in quanto tale «suddito» asburgico. Era un altro segnale oggettivo di ripensamento critico della medesima Triplice, che si aggiungeva a quello di un anno prima, quando il Generale Franz Conrad von Hoetzendorf, nella sua qualità di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Imperiale, aveva proposto di «liquidare» l’Italia, approfittando del terribile disastro causato dal terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908: una pagina ingloriosa che è bene rammentare alla memoria dei posteri e dei pochi austriacanti superstiti.

Decisamente pervicace nell’intento, anche nel 1911, a seguito della guerra con la Sublime Porta e del conseguente impegno militare che l’Italia aveva assunto in Libia, Conrad avrebbe chiesto nuovamente di «regolare i conti» con Roma, mentre Paolo Boselli (il futuro Capo del Governo di Solidarietà Nazionale all’indomani di Caporetto) commemorando alla «Dante Alighieri» il cinquantenario dell’Unità Nazionale, avrebbe affermato solennemente che «il grido di dolore» raccolto da Vittorio Emanuele II durante il Risorgimento stava tuttora «risuonando» nelle contrade di Venezia Giulia e Dalmazia. A onore della verità, si deve aggiungere che gli appelli di Conrad non vennero accolti da Francesco Giuseppe e dal suo Governo, emarginando le inique attese della classe militare, anche se l’appuntamento con la guerra e la sua «inutile strage» di cui alla celebre allocuzione del Papa Benedetto XV venne soltanto rinviato alla calda estate del 1914, quando l’Austria-Ungheria scese in campo contro la Serbia per vendicare l’uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, dando inizio a un lungo conflitto che strada facendo sarebbe diventato mondiale.

Per l’irredentismo furono momenti decisivi, perché nel suo nome le antiche simpatie di uomini della Sinistra estrema come Giovanni Bovio, Felice Cavallotti e Matteo Renato Imbriani si vennero a saldare con i nuovi orientamenti adriatici del nazionalismo che si erano già manifestati a partire dal 1903, sia pure in maniera episodica e non ancora ufficiale: del resto, non si poteva ignorare il coraggio dei patrioti triestini che, eludendo la vigilanza dell’occhiuta polizia austriaca, erano riusciti a innalzare il vessillo tricolore sul pennone del Municipio. Sembravano ormai lontani i tempi in cui il Presidente del Consiglio Francesco Crispi non aveva esitato a «dimissionare» il Ministro delle Finanze del suo Governo, il Dalmata Federico Seismit Doda «colpevole» di avere partecipato, nel 1890, a una riunione irredentista tenutasi a Udine, e di avere brindato a Trieste italiana[2]. A volte, i tempi della politica cambiano con improvvisa sollecitudine, come accadde in quella fattispecie, alimentando una stagione di forti speranze sia nelle terre irredente sia negli ambienti patriottici: speranze destinate a trovare uno sbocco decisivo nella Grande Guerra, che non a caso alcuni storici come Gilles Pécout hanno considerato alla stregua di un ultimo atto del Risorgimento e delle sue lotte per l’indipendenza nazionale[3].

L’attualità di questi eventi non ha bisogno di approfondite esegesi, quanto meno per elidere ogni residua «nostalgia». Al riguardo, senza scomodare le icone dei Martiri dell’irredentismo giuliano e istriano, da Guglielmo Oberdan a Nazario Sauro, basti aggiungere che proprio nel 1909 il patriota goriziano Cesare De Bellis venne arrestato perché si era macchiato della grave colpa di avere affrancato una lettera col francobollo di Francesco Giuseppe «a testa all’ingiù».

Piuttosto, sulla falsariga di Croce e di Meinecke, è bene evidenziare che la storia di ogni epoca è sempre «attuale» in tutte le sue interpretazioni: proprio per questo, gli eventi a cui si è fatto rapido riferimento continuano a essere piuttosto scomodi, tanto che al giorno d’oggi la storiografia delle «vulgate» preferisce ignorarli. Nei confronti dell’irredentismo adriatico, che nel 1910 veniva naturalmente accomunato a quello trentino (ma trascurando Corsica, Nizza, Savoia e Malta), esiste una sorta di permanente pregiudiziale ideologica fondata sul timore che dalla sua storia, fatta di alti principi, di nobili sentimenti e di tanto sangue versato, possano scaturire auspici «contemporanei» a cui si nega diritto di cittadinanza nel nome di una nuova ragion di Stato ancora meno giustificabile rispetto a quella promossa al tempo della Triplice Alleanza: ciò, con un evidente paralogismo, perché l’Italia di oggi, come attesta solennemente la sua Costituzione, è una Repubblica che «ripudia» la guerra e persegue la soluzione di ogni controversia nelle opportune sedi negoziali o sovranazionali.

In altri termini, non dovrebbe esistere alcun timore nel riconoscere all’irredentismo, senza distinguo e senza resipiscenze, un indiscutibile ruolo storico motivato, e soprattutto il suo «diritto alla vita»: non già in formulazioni talvolta aberranti nel metodo, anche nella civile Europa, come quelle tuttora presenti in Spagna, in Irlanda o nella stessa ex Jugoslavia, ma nell’affermazione dei valori etici e culturali che Don Luigi Stefani, Cappellano della «Tridentina» ed Esule da Zara, già dagli anni Cinquanta del secolo scorso aveva posto alla base del suo nobile «irredentismo cristiano»[4] e di una grande lezione di vita.


Note

1 Il Congresso del 1910 decise la costituzione formale del movimento come Associazione Nazionalista Italiana, raccogliendo le istanze dei precursori, e in particolare di Alfredo Oriani, che era appena mancato alla lotta politica lasciando un patrimonio politico, storiografico e letterario di sostanziale rottura con gli ideali del Risorgimento mazziniano e di affermazione del nuovo mito fortemente patriottico consacrato alla «Grande Proletaria» cui avrebbero aderito, fra gli altri, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Pascoli. Nel corso della Grande Guerra, l’Associazione non avrebbe mancato di sostenere le istanze più avanzate del combattentismo e poi dell’Impresa dannunziana di Fiume, in specie attraverso l’impegno dello stesso Federzoni e di Alfredo Rocco, che sarebbero diventati Ministri del Governo Mussolini. Col sesto Congresso Nazionalista, tenutosi nel 1923 all’indomani della Marcia su Roma, l’Associazione si sarebbe sciolta per confluire nel Partito Nazionale Fascista, auspice prioritario il Quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, pur dovendo prendere atto del disaccordo di una significativa minoranza.

2 L’episodio ha trovato illustrazione in una storiografia riveniente da precise testimonianze dirette: al riguardo, confronta Ivanoe Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-1918), terza edizione, Einaudi, Torino 1969, pagine 78-79. Ciò, con riguardo specifico all’atteggiamento del Presidente del Consiglio Francesco Crispi nei confronti dell’irredentismo, definito «nemico di quell’unità che intende integrare e di quella pace di cui pure si afferma l’Apostolo: il suo grido, sfida a tutta quanta l’Europa, è infatti grido di guerra, che potrebbe rimettere in forse l’esistenza stessa della Nazione». Concezione indubbiamente strumentale e opinabile, perché agli antipodi dei valori umanitari che erano alla base di gran parte del pensiero irredentista.

3 Sull’argomento, confronta Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Editore Bruno Mondadori, Milano 2004, 480 pagine. È certamente significativo che tale interpretazione risorgimentale muova dalle prime, timide avvisaglie italiane del principio di nazionalità, per concludersi all’indomani della Marcia di Ronchi compiuta dai Legionari di Gabriele d’Annunzio e della sua catarsi nel Natale di Sangue, sottolineando la permanenza di attese, in specie mazziniane, anche nel periodo post-unitario, sia pure coeve a esperienze di tutt’altro segno come il trasformismo o il colonialismo (ma quest’ultimo si distinse anche per caratteri umanitari tipicamente italiani, come nella concezione di Pasquale Stanislao Mancini, nell’opera del barone Leopoldo Franchetti e, naturalmente, nel ruolo dei Missionari). D’altra parte, non sono mancati altri interpreti che hanno esteso il Risorgimento fino al secondo dopoguerra: è il caso di Riccardo Basile, Cronologia essenziale della storia d’Italia e delle terre giuliane al confine orientale, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2010, 130 pagine; ciò, con particolare riguardo all’eccidio compiuto dalla polizia del Governo Militare Alleato nel novembre 1953, i cui sette Martiri triestini – ivi compresi i giovanissimi Piero Addobbati e Leonardo Manzi appartenenti a famiglie esuli – vengono significativamente definiti «gli ultimi Caduti del Risorgimento Italiano» (pagina 89).

4 Un inquadramento esaustivo della figura carismatica di Monsignor Stefani, quale espressione di alto idealismo cattolico e nazionale, tradotto in significative attività di volontariato e di testimonianza, e nella sua concezione dell’irredentismo quale movimento preposto prioritariamente all’affrancamento dei popoli dai vincoli del bisogno e della povertà (ma senza escludere le vecchie e nuove questioni dei confini), è quello di Carlo Montani, Pensiero e azione di un patriota dalmata: Don Luigi Stefani, seconda edizione, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Firenze 1996, 80 pagine.

(settembre 2019)

Tag: Carlo Cesare Montani, irredentismo e nazionalismo, svolta italiana del 1910, Luigi Federzoni, Enrico Corradini, Scipio Sighele, Benito Mussolini, Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Luigi Pastro, Maresciallo Josef Radetzky, Giacomo Ciamician, Generale Franz Conrad von Hoetzendorf, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele II di Savoia, Francesco Giuseppe, Francesco Ferdinando, Papa Benedetto XV, Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Matteo Renato Imbriani, Francesco Crispi, Federico Seismit Doda, Gilles Pécout, Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro, Cesare De Bellis, Benedetto Croce, Friedrich Meinecke, Don Luigi Stefani, Alfredo Oriani, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Pascoli, Alfredo Rocco, Cesare Maria De Vecchi, Ivanoe Bonomi, Gabriele d’Annunzio, Pasquale Stanislao Mancini, Leopoldo Franchetti, Riccardo Basile, Piero Addobbati, Leonardo Manzi.