Guerre dell’Italia Unita
Panorama dei conflitti avvenuti in 160 anni di storia unitaria

Sono trascorsi 75 anni dalla primavera del 1945, quando si concluse una guerra che in Italia era stata tanto più amara e sanguinosa perché era diventata anche «civile». In seguito venne scritta la Costituzione repubblicana promulgata all’inizio del 1948 e l’opzione in favore della pace parve assumere i caratteri di un imperativo categorico suffragato dalla Carta fondamentale dello Stato ma destinato a più deroghe, come hanno dimostrato in tempi diversi e relativamente recenti le operazioni militari compiute in territori lontani non senza parecchie vittime italiane: i casi occorsi in Afghanistan e Iraq parlano chiaro.

Le guerre che hanno contrassegnato il percorso dell’Italia unita dalla proclamazione del Regno in poi (almeno una dozzina) nonostante le tante dichiarazioni in favore della pace, sono state un fenomeno ricorrente, a prescindere dalla natura politica dei Governi alla guida del Paese. Secondo la vulgata, le responsabilità militari del fascismo sarebbero state largamente prevalenti su quelle altrui, ma senza negare gli effetti particolarmente nefasti e disastrosi della Seconda Guerra Mondiale dichiarata da Benito Mussolini nel celeberrimo discorso del 10 giugno 1940, la storia attesta che dal punto di vista numerico la maggior parte dei conflitti si è svolta sotto l’egida di Governi «democratici» o presunti tali.

Sin dall’epoca precristiana, la guerra aveva trovato opposizioni sia pure minoritarie in spiriti eletti e sensibili come il poeta latino Albio Tibullo che aveva condannato duramente chi aveva «inventato le terribili armi». Nondimeno, all’atto pratico il ricorso alla forza militare è rimasto una sorta di triste costante universale, e il fatturato mondiale dell’industria bellica ha raggiunto cifre da capogiro: secondo le ultime stime, oltre 1.700 miliardi di dollari in ragione annua, che d’altra parte costituiscono «soltanto» il 2% del prodotto lordo planetario.

Nessuno, salvo chi sia prigioniero di paralogismi, può anteporre la guerra alla pace, o quanto meno a un ragionevole negoziato preventivo. Eppure, anche dopo l’avvento della nuova Costituzione, l’Italia ha fatto propria l’opzione militare come nei casi citati in premessa, in aderenza a direttive «atlantiche» di matrice essenzialmente nordamericana, manifestando condizioni di sovranità limitata che, sebbene non giustificabili, avrebbero potuto essere comprensibili nel 1947, quando le esigenze della ricostruzione imposta dalle precedenti emergenze avevano carattere imprescindibile; ma non da quando ebbe luogo la riammissione in ambito ONU mentre il Paese si avvitava nella ricorrente affermazione secondo cui avrebbe compiuto una scelta d’obbligo per la salvaguardia della democrazia e, per l’appunto, della pace.

L’Italia unita è uno Stato giovane che vanta appena 160 anni di vita durante i quali, peraltro, le guerre sono state all’ordine del giorno. Il più delle volte, la decisione di scendere in campo, talvolta senza specifiche dichiarazioni formali, venne assunta all’insegna di una ragione di Stato confortata da fattori contingenti ancor prima che politici: è accaduto nei casi citati dell’Afghanistan e dell’Iraq ed era già accaduto in tempi lontani come nella terza guerra d’indipendenza, nella «liberazione» di Roma dal potere temporale, e nella conquista della Libia.

Muovendo dalle origini, si può ricordare che nel 1866, in occasione della guerra contro l’Austria che fu il suo battesimo del fuoco, l’Italia riuscì ad annettere il Veneto nonostante la vergogna di Lissa e il blocco imposto a Giuseppe Garibaldi nel Trentino: l’annessione, seguita dal plebiscito più massimalista della storia (i voti favorevoli superarono largamente il 99%), fu consentita, nonostante le sconfitte italiane, dalla grande vittoria dell’alleato prussiano a Sadowa, che diede inizio alla decadenza militare e politica dell’Austria.

Quattro anni dopo, la guerra «informale» contro lo Stato Pontificio si risolse a Porta Pia alla fine di dieci giorni difficili anche sul piano militare, e dopo la resa degli zuavi imposta dal Papa Pio IX per evitare inutili spargimenti di sangue; ed è inutile aggiungere che senza la disfatta di Napoleone III a Sèdan la Città Eterna avrebbe dovuto attendere chissà quanto prima di diventare la nuova capitale d’Italia. Quanto alla «discesa» in Libia, l’attacco alla Turchia voluto dal Governo di Giovanni Giolitti (prima esperienza bellica italiana del nuovo secolo) fu consigliato non solo da esigenze geo-politiche e coloniali – senza dire di talune pressioni del mondo finanziario – ma prima ancora dal disfacimento politico e militare in cui versava l’Impero Ottomano alla vigilia della sua dissoluzione, donde derivarono fallaci presunzioni di una facile passeggiata militare.

Che cosa dire della prima guerra d’Africa che nel 1896 aveva portato l’Italia al disastro di Adua (già anticipato dalla pur gloriosa tragedia di Dogali) che fu certamente il maggiore fra quelli occorsi agli Stati Europei durante i conflitti di espansione coloniale? Illusioni, impreparazione e sottovalutazione di un avversario valoroso ne furono cause convergenti, assieme a una volontà di potenza come quella di Francesco Crispi che non aveva adeguato ed efficace corrispettivo nella strategia e nella tattica. Del resto, per dirne una, sin dal primo sbarco a Massaua i soldati italiani erano stati oberati da passamontagna più idonei a combattimenti sulle Alpi che non a quelli nell’infuocato deserto eritreo, sottolineando un pressappochismo programmatico che sarebbe stato pervicacemente confermato in parecchie occasioni.

Nel 1915, dopo vari «giri di valzer» e nove mesi di neutralità, l’Italia riuscì a comportarsi da grande Potenza rinunciando al «parecchio» che era stato offerto dall’Austria (si trattava di Trento ma non di Trieste né dell’Istria e della Dalmazia che sarebbero state garantite dal Patto di Londra vanificato a guerra finita dai Paesi Alleati e in primo luogo dal Presidente Statunitense Woodrow Wilson) e schierandosi a fianco di Francia e Gran Bretagna in ossequio alle lunghe attese dell’irredentismo e al comune impegno contro le autocrazie dell’Europa Centrale. Il contributo italiano alla Vittoria fu determinante, in specie dopo l’uscita della Russia dalla guerra, e tanto più significativo se non addirittura eroico, in specie nella gloriosa resistenza su Monte Grappa e sul Piave dopo la miope strategia militare imposta da Luigi Cadorna nel primo triennio, quanto meno anacronistica, causa di troppi caduti.

Una guerra non dichiarata sarebbe stata quella del dicembre 1920 contro la Reggenza del Carnaro, che vide Giolitti ancora una volta protagonista e facile vincitore sui Legionari di Gabriele d’Annunzio ma che avrebbe consentito al Comandante di affermare valori imprescrittibili come quelli statuiti nella Costituzione di Fiume e corroborati dall’estremo sacrificio dei Volontari. Il conflitto fiumano concluso col celebre «Natale di Sangue» assunse il carattere di una vera guerra civile, triste anticipazione di quella estremamente più cruenta che avrebbe dilaniato il Paese dal settembre 1943 all’aprile 1945 (senza contare gli ulteriori effetti a breve e lungo termine).

Una parte della storiografia ha catalogato fra le guerre italiane anche quella di Spagna che peraltro deve considerarsi atipica, perché coloro che si fronteggiarono sul suolo iberico furono soprattutto uomini dell’una e dell’altra parte politica accorsi a supporto rispettivo dei nazionalisti e dei repubblicani, anticipando quanto sarebbe accaduto negli anni Quaranta sul territorio nazionale. Al contrario, fu guerra autentica quella combattuta in Etiopia, che nel 1936 coincise con la fondazione dell’Impero dando luogo alla massima espansione del colonialismo europeo in terra d’Africa e promuovendo un consenso popolare plebiscitario, momentaneamente entusiasta ma altrettanto effimero.

Il resto è storia nota, che chiama in causa la guerra del «sangue contro l’oro» e una pagina di gloria, o se non altro di doveroso rispetto, suffragata dall’esempio di uomini come Carmelo Borg Pisani, Luigi Durand de la Penne, Carlo Fecia di Cossato, Nicolò Giani, Berto Ricci, Guido Pallotta, Franco Aschieri, Stefano Petris (cui mille altri potrebbero aggiungersi) e nello scorcio conclusivo, come il Comandante Junio Valerio Borghese e i «ragazzi» della Decima, caduti per l’estrema difesa dell’Istria e della sua civiltà latina e veneta. Non si può dire altrettanto dell’Italia di Pietro Badoglio, che nell’autunno del 1943 si rese protagonista di un’ulteriore dichiarazione di guerra: quella contro la Germania, nell’improbabile tentativo di recuperare credibilità presso gli Alleati, destinato a essere impietosamente frustrato nell’immediato, e soprattutto nelle condizioni del «diktat» ma non senza aver procurato ulteriori lutti per la reazione dell’esercito tedesco e per quella davvero criminale delle SS.

A proposito della Seconda Guerra Mondiale, si deve aggiungere una postilla concernente il conflitto con la Jugoslavia dell’aprile 1941: a suo modo, una «guerra nella guerra» che fu determinata dall’improvviso cambio di campo di Belgrado a seguito del colpo di Stato con cui il Governo di Re Pietro aveva abbandonato l’Asse per schierarsi sul fronte opposto: particolare spesso dimenticato ma significativo perché sottintende che la Jugoslavia venne attaccata per sopravvenute necessità di strategia militare (con attacco concentrico da parte di Germania, Italia, Bulgaria e Ungheria) diversamente da quanto sostenuto nelle trattative di pace, e pervicacemente perpetuato da una quota preponderante della storiografia.

La guerra è una sciagura da prevenire e possibilmente da evitare, perché i suoi danni sono incommensurabili, compresi quelli a carico del vincitore, come è stato dimostrato da tante esperienze. Tuttavia, il suo «ripudio» da parte dell’Italia, codificato nella Costituzione, non è conforme a talune scelte dei suoi Governi, ispirate dal pragmatismo degli interessi concreti pur nell’ambito di valutazioni politiche ad ampio respiro, ma pur sempre riduttive della sovranità, ormai considerata alla stregua di un diritto affievolito. È un ottimo motivo in più per ripensare la storia delle guerre italiane in un’ottica oggettiva, capace di mettere a fuoco ragioni e torti con onesta consapevolezza critica e, se non altro, di onorare tutti i caduti nel riconoscimento degli ideali che avevano presieduto al loro sacrificio.

(giugno 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, guerre dell’Italia Unita, Costituzione di Fiume, Benito Mussolini, Seconda Guerra Mondiale, Albio Tibullo, Reggenza del Carnaro, Giuseppe Garibaldi, Papa Pio IX Mastai Ferretti, Napoleone III, guerra d’Etiopia, Giovanni Giolitti, Francesco Crispi, Woodrow Wilson, Gabriele d’Annunzio, guerra di Libria, breccia di Porta Pia, Carmelo Borg Pisani, Luigi Durand de la Penne, Carlo Fecia di Cossato, Nicolò Giani, Berto Ricci, Guido Pallotta, guerra di Spagna, Franco Aschieri, Stefano Petris, Junio Valerio Borghese, Pietro Badoglio, Pietro di Jugoslavia, terza guerra d’indipendenza, Natale di Sangue.