La guerra di Libia
La conquista della «Quarta Sponda», rivelatasi più difficoltosa del previsto, non portò quei vantaggi che tutti si aspettavano, fu anzi una delle cause che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale

Nei primi decenni dell’Ottocento, molti esploratori europei che avevano diretto le loro ricerche in Africa, avevano descritto il continente come ricchissimo di materie prime. La conseguenza fu che le più potenti Nazioni d’Europa fecero a gara a chi riuscisse a fondare il maggior numero di colonie su una terra poco popolata e zeppa di risorse: nel 1830 la Francia iniziò la conquista dell’Algeria e nel 1857 completò quella del Senegal, mentre l’Inghilterra, che già possedeva la Colonia del Capo, si affrettò ad occupare la Nigeria ed il Natal. Dopo l’apertura del Canale di Suez (anno 1869), che avvicinò di molto l’Africa Orientale alle coste europee, le conquiste si fecero ancora più febbrili: nel 1881 la Francia si accaparrava la Tunisia in funzione anti italiana, e l’anno dopo l’Inghilterra s’impossessava dell’Egitto; la Germania fondava le colonie del Camerun e del Togo mentre il Belgio, nel 1885, s’impadroniva del vasto e ricchissimo territorio del Congo.

Di fronte a tali conquiste, l’Italia non poteva rimanere indifferente: essa si trovava nella necessità di evitare che le maggiori Nazioni Europee, insediandosi sulle coste dell’Africa Settentrionale, le ostacolassero il commercio e la navigazione nel Mar Mediterraneo. Per scongiurare un tale grave pericolo, la Penisola non aveva che un mezzo: assicurarsi anch’essa dei possedimenti nel continente africano. Già dal 1855 l’Italia aveva iniziato la conquista dell’Eritrea, sul Mar Rosso, e alcuni anni dopo s’era assicurata alcuni porti sulla costa somala dell’Oceano Indiano. Ma, per esser certa di poter mantenere la propria libertà nel Mediterraneo, l’Italia doveva porre piede sulle coste settentrionali dell’Africa.

Dopo la conquista del Marocco da parte della Francia, gli unici territori non ancora occupati dagli Europei erano la Tripolitania e la Cirenaica, che facevano parte dell’ormai decadente Impero Ottomano, la Turchia. Oltretutto, erano posti proprio di fronte alla Sicilia. Il Parlamento li aveva già adocchiati nel 1881; nel 1902 si era stipulato un accordo segreto con la Francia, per cui questa – in cambio del Marocco – ci lasciava liberi di andare in Africa, e cominciarono a nascere accese discussioni in Parlamento se bisognasse andare in Libia o rinunciarvi (alcuni la ritenevano uno «scatolone di sabbia»). La maggioranza dei giornali appoggiava l’impresa: gli inviati speciali descrivevano la Tripolitania e la Cirenaica come la «Quarta Sponda», una sorta di Terra Promessa che avrebbe portato vantaggi per tutti, per il proletariato, per la borghesia, per il Meridione, un nuovo mercato ed una nuova terra da colonizzare per l’eccedenza della popolazione: se ne esaltavano le enormi risorse economiche e minerarie, le miniere di fosfati e di piombo, si ricordava che la Libia era stata il granaio dell’antica Roma e che il terreno era fertilissimo, l’acqua si trovava ad appena mezzo metro di profondità; le popolazioni arabe locali erano dominate dai Turchi con sistemi feroci, e si supponeva che avrebbero accettato di buon grado il Governo Italiano, che le avrebbe trattate con maggiore umanità. Un’ondata di fanatismo e di retorica invase la Penisola, un giornale arrivò a scrivere che «Roma con le sue aquile imperiali e la sua civiltà redentrice» doveva andare in Africa. Molti deputati rimproveravano il Governo d’essere esitante. Poche erano le voci dissonanti: a Forlì scoppiarono disordini e dimostrazioni, e tra gli arrestati furono condannati ad un anno di carcere il socialista Benito Mussolini ed il repubblicano Pietro Nenni; altrove, i dimostranti tentarono di fermare i convogli carichi di soldati sedendosi sui binari ferroviari.

Quando la Turchia venne a sapere che l’Italia aveva mire sui suoi territori, tolse ogni possibilità di lavoro a quegli Italiani che risiedevano a Tripoli. Il Governo Italiano inviò un’energica protesta, che quello turco non prese nemmeno in considerazione. Ormai, essendo caduta qualsiasi possibilità di accordo, l’Italia si decise a dichiarare la guerra!

Le ostilità iniziarono il 29 settembre 1911. Alle ore 15 dello stesso giorno, le navi svettanti il Tricolore erano già in azione nel Mar Ionio: il Duca degli Abruzzi, comandante delle siluranti, diede ordine di attaccare due torpediniere nemiche uscite dal porto greco di Prevesa con l’intenzione di portarsi nell’Adriatico per catturare bastimenti italiani diretti in Africa. L’azione portò all’affondamento della torpediniera turca Tocat. Il giorno dopo, in un nuovo scontro navale, al largo di Prevesa le navi italiane colarono a picco due cacciatorpediniere nemiche e catturarono due piroscafi.

Compreso ormai che la flotta turca, nonostante la superiorità numerica, poteva essere facilmente tenuta a bada, gli Ammiragli Italiani decisero di occupare Tripoli con le truppe da sbarco – un piano audace, perché si aveva avuto notizia che i Turchi stessero concentrando le loro forze a pochi chilometri dalla città.

A mezzogiorno del 2 ottobre 1911, le corazzate italiane fecero il loro ingresso nel porto di Tripoli mentre a poca distanza cinque compagnie di marinai, comandate dal capitano Umberto Cagni, attendevano l’ordine di sbarco. Il bombardamento ai forti del porto durò per ben due giorni, e al terzo i marinai italiani iniziarono lo sbarco. Non sentendosi ben preparati e preferendo ingaggiare battaglia più verso l’interno, i Turchi si ritirarono senza opporre alcuna resistenza. Il 5 ottobre, a pochi giorni dall’inizio della guerra, nel porto della principale città libica sventolava il Tricolore.

Dopo il successo riportato a Tripoli, le operazioni di sbarco si susseguirono senza sosta: in Cirenaica, Tobruk e Derna furono occupate dopo accaniti combattimenti. Il 19 ottobre, i marinai italiani tentarono uno sbarco a Bengasi; ma questa volta i Turchi, aiutati da truppe arabe, erano decisi a far fallire l’operazione: non appena avvistarono le navi nemiche, le investirono dalla costa con un tremendo fuoco d’artiglieria. Le corazzate della Penisola risposero immediatamente con i loro cannoni; dopo alcune ore di accanita battaglia, una compagnia di marinai tentò lo sbarco, incurante del fuoco. Alcuni caddero uccisi, altri riuscirono a prender terra; dietro il loro esempio, tutto il corpo di sbarco si lanciò verso la costa. Per ben nove ore i solati italiani si batterono contro le truppe turco-arabe: ma, verso sera, la bandiera italiana sventolava anche su Bengasi.

Il corpo di spedizione italiano era composto da 35.000 uomini (poi saliti a 50.000) comandati dal Generale Caneva: erano per lo più inesperti militari di leva, non avevano interpreti né carte topografiche, ed erano restii a lasciare la costa dove potevano contare sull’artiglieria delle navi. Il 12 marzo 1912, l’esercito turco, forte di 8.000 uomini e rinforzato dai contingenti delle tribù arabe (che avevano solidarizzato coi vecchi padroni, diffidando dei «liberatori»), sferrò una poderosa controffensiva, ma fu disfatto dal Generale Ameglio presso Bengasi nella battaglia delle Due Palme. Dopo sei mesi di guerra, tuttavia, se gli Italiani avevano ottenuto dei progressi ed occupato parte della Libia, il conflitto era ancora ben lungi dall’essere concluso; le truppe turco-arabe continuavano a resistere con tenacia nell’interno del Paese e andavano ad ingrossare le fila dei guerriglieri, i «mehalle», comandati da un abile ufficiale, il Colonnello Turco Enver Bey. La Francia, ora che aveva in mano il Marocco, aveva fatto carta straccia degli accordi firmati con l’Italia e passava attraverso la Tunisia armi per Enver. Nei territori occupati dagli Italiani la giustizia era sommaria, ed anche i militari turchi che si infiltravano in abiti civili nelle linee italiane erano immediatamente fucilati. Per contro, la stampa continuava a tenere alto l’entusiasmo nella Penisola, raccontando con toni epici anche le più insignificanti operazioni belliche, tacendo della repressione sulle popolazioni civili e celebrando i soldati italiani come «novelli eroi».

Artiglieria italiana contro Ain Zara

Aldo Molinari, Artiglieria italiana contro Ain Zara, 26 novembre 1911

Enver Bey

Il Colonnello Ismail Enver Bey

Alla fine, il comando italiano decise di estendere la guerra anche sul mare: era naturale che la Turchia non si dichiarasse vinta finché avesse avuto tutta la flotta in piena efficienza.

Tra il 26 aprile e il 19 maggio si diede inizio alle operazioni navali nel Mar Egeo, ed un corpo di spedizione italiano occupò Rodi ed altre dodici isole che costituivano il cosiddetto Dodecaneso, nelle Sporadi Meridionali. L’Imperatore di Germania aveva autorizzato un’azione contro la Turchia purché non fosse condotta in territorio europeo, e il Ministro San Giuliano riuscì a persuadere gli Austriaci che il Dodecaneso non era in Europa ma in Asia. Una squadra di corazzate italiane tagliò i cavi sottomarini che univano le isole di Imbro e di Lemno al continente e si presentò dinanzi allo Stretto dei Dardanelli per indurre la flotta turca al combattimento. Ma, nonostante le numerose sfide lanciate al nemico, le navi turche non uscirono mai dai loro porti. Allora il capitano Enrico Millo progettò un piano audace: penetrare direttamente nello Stretto dei Dardanelli per tentare l’affondamento delle navi turche all’ancora.

Verso la mezzanotte del 18 luglio, cinque siluranti, comandate proprio dal Millo, si spinsero sino all’imboccatura dei Dardanelli. Le batterie nemiche tacevano: i proiettori non avevano scoperto le navi italiane. Si spinsero in formazione serrata oltre lo Stretto, e allora si scatenò l’uragano: tutte le batterie della costa aprirono un fuoco infernale, mentre i proiettori concentravano sulle navi i loro potenti fasci di luce. Ad un tratto, una silurante andò ad impigliarsi in un cavo d’acciaio; quattro marinai si gettarono in acqua, si portarono sotto la poppa della silurante e riuscirono a liberare dal cavo l’elica impigliata, salvando la nave. Nel frattempo, il bombardamento nemico si era fatto ancora più violento, rendendo troppo pericoloso inoltrarsi ancora di più nello Stretto. Il capitano Millo ordinò il ritorno alla base: sebbene prese di mira da un fuoco incessante, tutte le siluranti italiane riuscirono a raggiungere il mare aperto. Lo scopo principale – affondare le navi nemiche – non era stato raggiunto, ma l’impresa era valsa a mostrare al mondo il coraggio della marina italiana.

Nella guerra di Libia venne usato per la prima volta l’aeroplano nelle operazioni militari. Il primo volo di guerra fu compiuto il 23 ottobre 1911 dal capitano Carlo Piazza: egli volò sul nemico per un’ora e un quarto e, al ritorno, portò informazioni preziose sulle posizioni nemiche; lo stesso capitano compì per primo un volo notturno, dimostrando ch’era possibile volare nel buio col solo aiuto della bussola. Il contributo dato dagli aviatori fu molto valido: grazie ad essi, le truppe di terra venivano tenute al corrente di ogni movimento dell’esercito nemico, che poteva essere mitragliato anche dall’alto. Il primo ad effettuare un bombardamento sugli accampamenti turchi fu il sottotenente Gavotti, la cui impresa venne rievocata dal poeta Gabriele D’Annunzio. Durante la guerra di Libia furono effettuati 153 voli, di cui 7 con lancio di bombe. Anche i dirigibili diedero il loro contributo: il dirigibile volava ad una quota massima di 1.000 metri e sganciava bombe di 15 chilogrammi.

Dirigibili italiani bombardano le postazioni turche

Dirigibili italiani bombardano le postazioni turche in Libia, 1911

Verso l’autunno del 1912, la Turchia venne a trovarsi in grande difficoltà: oltre ad aver subito gravi perdite nella guerra contro l’Italia, era minacciata dalla Lega Balcanica di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria, che guardavano all’Italia come allo Stato-guida di una nuova «crociata». Furono proprio le guerre balcaniche a destabilizzare tutta quella regione – un’autentica polveriera – e provocare l’attentato di Sarajevo che spalancò le porte alla Prima Guerra Mondiale.

Minacciata da uno sbarco italiano a Smirne e dai primi scontri con la Lega Balcanica, la Turchia si costrinse ad avviare trattative con l’Italia: la pace fu firmata il 18 ottobre 1912 ad Ouchy presso Losanna e con essa la Turchia riconobbe all’Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica (su cui conservò solo un’autorità religiosa), alle quali fu posto il nome romano di Libia. Dal canto suo, l’Italia si impegnò a sgombrare il Dodecaneso quando le truppe turco-arabe avessero deposto le armi: ma, poiché la guerriglia durò ancora per anni, il Dodecaneso rimase all’Italia. La guerra era costata più di un miliardo di lire, i morti erano 3.431 (più della metà per tifo e malaria), i feriti 4.220, i dispersi 600: ma aveva dato al Paese almeno un po’ di fiducia in se stesso, e fatto superare il «complesso» di Adua. I Turchi avevano avuto circa 24.000 morti ed oltre 5.000 feriti.

Teatro della guerra italo-libica

Il teatro della guerra italo-libica, con le acquisizioni italiane

La Libia era italiana: tuttavia non vi si trovarono né acqua, né miniere, né terra fertile – fra tanto parlare, il Governo non aveva mai mandato nessun agente ad indagare come realmente fosse la Libia. Una vignetta satirica rappresentava Tripoli come un grosso osso spolpato, dato da rosicchiare ad un vecchio macilento, ch’era il popolo italiano. Nello stesso periodo la Sardegna chiese 500.000 lire per il porto di Terranova, e le furono negate. Ma la retorica aveva avuto la sua vittoria, e questa retorica avrebbe accompagnato la vita nazionale ancora per molti decenni.

La resistenza araba fu stroncata solo nei primi anni Trenta dal Generale Rodolfo Graziani, costretto a massacri e deportazioni di massa, anche se probabilmente molto meno estesi di quanto certa stampa di Sinistra, ancor oggi, voglia far credere. Del resto, gli Italiani porteranno in Libia «non fucili e cannoni, ma vaccini e banchi di scuola», come ironizzava certa stampa inglese (e come dovrebbe invece fare ogni Nazione che si consideri civile). In segno di gratitudine per le svariate opere di civiltà apportate in Africa Settentrionale (strade, scuole, chiese, emittenti radiofoniche, ospedali, vaccini...) oltre che per opportunità diplomatica, gli Arabi consegneranno il 18 marzo 1937 a Tripoli al Duce la Spada dell’Islam, scegliendolo quale protettore del mondo arabo e della sua unità. Un anno e mezzo più tardi, quando la Libia sarà già considerata parte integrante del Regno d’Italia e verranno pacificate le sue vaste aree interne, da Genova, Venezia e Napoli salperanno per l’Africa Settentrionale un totale di 20.000 contadini, scortati da legionari della Milizia fascista; nel complesso, troveranno lavoro ed un futuro in Libia 120.000 Italiani. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ben 30.000 Arabi di Libia (il 3% della popolazione indigena!) si arruoleranno volontariamente nell’Esercito Italiano. Niente male, come esempio di «feroce» e «brutale» dominazione...

(aprile 2018)

Tag: Simone Valtorta, guerra di Libia, Quarta Sponda, colonialismo, Africa, Canale di Suez, Tripolitania, Cirenaica, Impero Ottomano, Turchia, Benito Mussolini, Pietro Nenni, Duca degli Abruzzi, Tripoli, Tobruk, Derna, Umberto Cagni, Bengasi, Generale Caneva, battaglia delle Due Palme, Enver Bey, Generale Ameglio, mehalle, Rodi, dodecaneso, Ministro San Giuliano, Stretto dei Dardanelli, Enrico Millo, Carlo Piazza, sottotenente Gavotti, Gabriele D’Annunzio, Lega Balcanica, attentato di Sarajevo, Prima Guerra Mondiale, pace di Losanna, Ouchy, conquista della Libia, Generale Rodolfo Graziani, Spada dell’Islam, Regno d’Italia.