Francesco Giuseppe
Nel centenario della scomparsa

Con gli onori funebri che il 30 novembre 1916 Vienna rese a Francesco Giuseppe, il Sovrano che aveva retto l’Impero Asburgico per oltre 68 anni, essendo salito al trono il 2 dicembre 1848 a seguito dell’abdicazione di Ferdinando, nella capitale austriaca si ebbe la netta sensazione della fine di un’epoca, sebbene le sorti della Grande Guerra non fossero compromesse in modo irreversibile per gli Imperi Centrali. Nove giorni prima, la scomparsa dell’Imperatore non era giunta inattesa, ed era stata accolta con regale sobrietà, conforme allo stile di un Monarca che sarebbe stato ricordato anche per il modo rigidamente spartano a cui aveva improntato la gestione della propria vita: basti dire che non aveva mai usato il telefono, e che era salito una sola volta in automobile, in occasione della visita di stato resa a Vienna dai Sovrani Inglesi.

Ritratto dell'Imperatore Francesco Giuseppe

Miklós Barabás, Ritratto dell'Imperatore Francesco Giuseppe, 1853, Hungarian National Museum, Budapest (Ungheria)

In effetti, quando Francesco Giuseppe chiuse una lunga e sofferta esistenza, era già un uomo del passato: nato nel 1830, aveva dovuto confrontarsi con tante dolorose vicende anzitutto personali, a cominciare dalla morte del fratello Massimiliano (1867), da quelle dell’unico figlio Rodolfo ed erede al trono asburgico (1889) e dell’Imperatrice Elisabetta (1898), per finire con l’assassinio di Francesco Ferdinando, il nuovo erede designato, la cui uccisione ad opera di Gavrilo Prinzip (1914) sarebbe stata la scintilla del Primo Conflitto Mondiale. Se esiste la nemesi di cui alle celebri rime di Giosuè Carducci per il castello di Miramare, non si può certo dire che Francesco Giuseppe ne sia stato immune, al pari del pronipote Carlo, l’ultimo Imperatore che avrebbe dovuto gestire la tragedia dell’ultima fine, e che sarebbe scomparso nell’esilio di Madera, in odore di santità, alla giovane età di 35 anni.

Già, la nemesi! Francesco Giuseppe aveva governato con estrema durezza, conforme ai criteri che avevano presieduto alla volontà di conservare ad ogni costo il sistema autocratico uscito dal Congresso di Vienna del 1815 e dalla Santa Alleanza, di cui il principe di Metternich sarebbe stato convinto e coriaceo assertore per diversi decenni. Molti patrioti, in specie italiani ed ungheresi, erano finiti sui patiboli austriaci, e lo stesso Imperatore era uscito pressoché indenne dall’attentato del 1853 con cui un rivoluzionario magiaro aveva inteso vendicare i compatrioti uccisi quattro anni prima nella strage di Arad (in quell’occasione venne costruita la Votivkirche, quale ringraziamento per lo scampato pericolo). Quanto all’Italia, le forche austriache avevano lavorato a pieno regime, tanto da suggerire la sostituzione del Feldmaresciallo Radetzky, governatore del Lombardo-Veneto, con un personaggio certamente più aperto e moderno, come l’Arciduca Massimiliano.

Nel 1867, l’anno della fucilazione del fratello a Querètaro, Francesco Giuseppe si decise a consentire l’apertura del Reichsrat, il primo Parlamento Austriaco, che peraltro rimase fortemente vincolato alle suggestioni autocratiche della Corte e dello stesso Imperatore, legato ad una concezione monarchica di diritto divino che aveva origini ben più remote della stessa Santa Alleanza, e che si era già manifestata palesemente nel 1849, quando il Sovrano, messo alle strette dai conati rivoluzionari del momento, aveva dovuto concedere una Costituzione, salvo revocarla dopo breve tempo, non appena l’ordine era tornato a regnare nei territori dell’Impero.

Quel medesimo 1867 ebbe notevole ed ulteriore importanza come anno di nascita della «Duplice Monarchia» e del nuovo trono di Budapest, a seguito dell’incoronazione di Francesco Giuseppe quale Re d’Ungheria, nel quadro di un avanzato sistema di autonomie non soltanto formali, che vennero concesse – tra l’altro – dietro vive sollecitazioni dell’Imperatrice, la cui simpatia per il popolo ungherese e per il conte Andrassy era nota da tempo.

Nel 1859, con la perdita della Lombardia, e nel 1866 con quella del Veneto, a seguito delle prime due Guerre dell’Indipendenza Italiana, il prestigio asburgico era stato alquanto ridimensionato persino dal punto di vista militare (basti pensare alle sconfitte di Solferino e San Martino ed a quella ancora più clamorosa di Sadowa), anche se non ne sarebbe scaturita alcuna apprezzabile revisione di un assolutismo destinato ad incidere negativamente, se non altro per taluni effetti a medio e lungo termine, a cominciare dalle relazioni con l’Italia: l’impiccagione di Guglielmo Oberdan dopo un processo alle intenzioni celebrato all’esordio della Triplice Alleanza (1882) fu un atto destinato a sedimentare negativamente ed a confermare almeno nell’uomo della strada, al di là delle ragioni politiche da cui il trattato aveva avuto origine, la presunzione che l’Austria rimanesse la «secolare nemica» del giovane Regno proclamato nel 1861.

In realtà, a quell’epoca il trono asburgico era ancora forte: l’Impero Asburgico era uscito bene dal Congresso di Berlino del 1878, con l’affidamento della Bosnia Erzegovina in amministrazione fiduciaria, e con un mandato che sarebbe stato tradito un trentennio dopo, quando Vienna proclamò l’annessione unilaterale senza nemmeno darne notizia all’Italia: un atto diplomaticamente improvvido, che sarebbe stato utile al Governo Salandra quando si pose il problema di denunciare la Triplice per aderire all’Intesa.

Fotografia di Francesco Giuseppe

Carl Pietzner, Francesco Giuseppe in una fotografia del 1885 circa

Fra i privilegi che si richiamavano addirittura al Sacro Romano Impero, Vienna conservava il diritto di veto in Conclave. Ebbene, in occasione di quello del 1903 che vide l’ascesa di Papa Sarto al Soglio Pontificio, Francesco Giuseppe lo utilizzò per l’ultima volta ai danni del Cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, che risultava essere nelle simpatie francesi. Non a caso, fu proprio Pio X a cancellare quella consuetudine ormai antistorica, nel quadro di rinnovata spiritualità che volle imprimere al proprio pontificato; ed a conferire al tramonto asburgico un affievolimento del prestigio di cui godeva anche in campo cattolico, non privo di conseguenze sul piano politico, tra cui le minori attenzioni vaticane per il «non expedit».

L’Imperatore, in ogni caso, ebbe un cumulo di onorificenze senza pari: almeno 11 austriache e 24 estere, conferite da 16 diversi stati tra cui l’Italia (Francesco Giuseppe era cugino di Vittorio Emanuele III che lo insignì, fra l’altro, del Collare dell’Annunziata, massimo riconoscimento sabaudo). Ciò, senza dire di quelle, parimenti massime, concesse dal Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta e dall’Ordine del Santo Sepolcro. Anche in questa ottica, il tramonto dell’Impero ebbe una grandezza conforme alle sue tradizioni, non certo contraddette dalla concessione del suffragio universale che ebbe luogo nel 1907, con un anticipo di qualche anno rispetto all’analogo provvedimento italiano, ma ancora una volta, con una valenza più formale che sostanziale.

A proposito dell’Italia, non è male rammentare che dopo il tremendo terremoto da cui Messina e Reggio Calabria vennero tragicamente distrutte alla fine del 1908, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Imperiale, Conrad von Hoetzendorf, si fece paladino di un vile intervento militare, volto a risolvere una volta per tutte la questione dei «giri di valzer» che Roma intratteneva al di fuori della Triplice: ebbene, fu proprio Francesco Giuseppe a bocciare senza appello quel disegno non certo nobile, con una decisione di cui è doveroso dargli atto.

Il rigido protocollo della Corte Imperiale ebbe un’eccezione significativa alla morte di Francesco Giuseppe, quando la figlia Vittoria consentì a Caterina Schratt di deporre una rosa sul feretro: riconoscimento postumo, non privo di suggestioni romantiche, alla ballerina viennese con cui l’Imperatore ebbe una relazione assai riservata a far tempo dal 1883, e che gli sarebbe stata di conforto, in specie dopo la tragica morte dell’Imperatrice, pugnalata da un anarchico italiano nella fosca anticipazione del regicidio che due anni dopo avrebbe stroncato la vita di Umberto I di Savoia.

Gli ultimi anni di Francesco Giuseppe furono vissuti in un’atmosfera da «crepuscolo degli dèi» a cominciare dalla dichiarazione di guerra firmata (luglio 1914) nella residenza estiva di Bad Ischl, per continuare con la pena di morte comminata ai patrioti che avevano scelto di battersi per l’affermazione delle loro nazionalità pur essendo sudditi dell’Impero e pur sapendo che, laddove catturati, non vi sarebbero state alternative al capestro. L’incapacità di comprendere la svolta storica che si era compiuta sin dall’Ottocento a supporto dei valori nazionali, e che avrebbe portato sulla forca uomini come Cesare Battisti, Fabio Filzi e Nazario Sauro, con il contorno di sceneggiate non certo conformi ad una moderna sensibilità civile, fu un limite giuridicamente accettabile ma eticamente imperdonabile: in qualche misura, il suggello di una fine dell’Antico Regime e dei suoi orpelli formali che avevano perduto senza appello la condivisione di tanti popoli ormai incapaci di riconoscersi nel romanticismo della musica viennese, perché stravolti dall’immensa tragedia della guerra, e da quella non meno drammatica della fame e della malattia.

È passato un secolo dalla scomparsa di Francesco Giuseppe, ma l’impressione è che sia trascorso un millennio. Ad onorare gli antichi fasti restano i monumenti funerari nella chiesa viennese dei Cappuccini: come avrebbe detto Thomas Gray, «i sentieri della gloria conducono solo alla tomba».

(novembre 2016)

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