Le donne nella Grande Guerra
Il contributo femminile

Il numero dei caduti e dei feriti nel corso del Primo Conflitto Mondiale non potrà mai essere conosciuto con precisione, anche se non mancano stime più o meno attendibili nell’ambito di una storiografia e di una saggistica ormai sterminate. Nondimeno, esiste una cifra ufficiale che la dice lunga sull’ampiezza di uno straordinario sacrificio umano e civile, ancora prima che militare: quella delle pensioni di guerra che vennero erogate ai familiari dei caduti, in maggioranza vedove e madri, e che pervennero a 655.705, parecchie delle quali rimaste attive per diversi decenni. Va da sé che gli scomparsi furono parecchi di più, perché la cifra non tiene conto dei caduti che non lasciarono alcun congiunto avente titolo per il conferimento della pensione ai superstiti; dei feriti che si spensero ben oltre la fine del conflitto per i postumi di malattie e ferite contratte in guerra; e nemmeno di quanti furono esclusi per indegnità della vittima, come nel caso delle fucilazioni e delle decimazioni, spesso immotivate. In ultima analisi, non è azzardato presumere che la stima più ricorrente, pari a 750.000 caduti, sia molto vicina alla realtà effettiva.

È facile comprendere come le maggiori conseguenze a lungo termine di questa vera e propria ecatombe siano ricadute soprattutto sulle donne, trovatesi a dover affrontare una vita di stenti e di problemi, non soltanto economici, a seguito della perdita del figlio, del coniuge, del fratello, del padre. Ciò, dopo lo strazio di una lunga speranza circa la salvezza del proprio congiunto al fronte, tragicamente interrotta da un freddo documento burocratico in cui assumeva caratteri a dir poco grotteschi l’esortazione a trarre conforto dal «pensiero che la Patria segnerà il nome del Caduto fra quelli dei suoi figli migliori». La burocrazia è sempre paradossale!

Va aggiunto che le donne avevano dato, contestualmente, un alto contributo alla guerra anche dal punto di vista operativo, specialmente nei distretti industriali in cui avevano sopperito ai vuoti lasciati dai combattenti, sia nelle fabbriche, sia nei servizi pubblici, come attesta un’amplissima documentazione iconografica; per non dire dell’agricoltura, tanto più che la maggior parte dei soldati proveniva proprio dalle classi contadine. Si tratta di un contributo che la storiografia ha analizzato in misura relativamente ridotta rispetto a quello riservato ai combattenti, anche attraverso i loro ricordi e le loro memorie, più diffuse tra gli ufficiali per la semplice ragione che una parte delle truppe era addirittura analfabeta e non comprendeva, al pari dei congiunti rimasti a casa, le ragioni di una guerra tanto cruenta quanto oscura.

L’apporto delle donne impegnate al fronte, con particolare riguardo alle crocerossine (non meno di 10.000) ed alle altre volontarie, fu minoritario ma non per questo meno significativo, senza dire di quello prestato nell’ambito dei servizi. Al riguardo, basti ricordare l’eroismo delle portatrici carniche, un Corpo ausiliario costituito da donne dall’età compresa tra i 15 e i 60 anni, che dall’estate del 1915 alla vigilia di Caporetto rifornirono le prime linee della zona di guerra portando in alta montagna, sotto il peso di grandi gerle, e con una marcia di ore, quanto serviva alla sopravvivenza dei combattenti, in termini di munizioni, generi di conforto e cibo. La loro epopea è rimasta viva nell’eroismo di Maria Plozner Mentil, colpita a morte da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916, che riposa nel Sacrario militare di Timau (Udine) e che fu insignita della Medaglia d’Oro al Valore soltanto parecchi decenni più tardi, per iniziativa del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: una dimenticanza storica che ha pesato e pesa ancor oggi, al pari di tante altre, sull’atteggiamento dell’Italia ufficiale nei confronti di quanti caddero senz’altro conforto (si fa per dire) che quello di avere onorato il proprio dovere.

Vi furono famiglie che ebbero diversi caduti: un caso emblematico fu quello dei Sacchi di Cagli, che videro scomparire nell’inferno bellico ben cinque fratelli, ma vi furono quelli di altre 27 famiglie che ne persero quattro (come i Cairoli del Risorgimento) e addirittura di 356 che ne persero tre. Esistono storie individuali angosciose se non addirittura allucinanti, che sono state affidate ad una memorialistica assai meritoria: qui, sia sufficiente ricordare che il sacrificio coinvolse tutte le regioni italiane, diventando motivo di effettiva e consapevole unità dopo tutte le discrasie e le contraddizioni che avevano caratterizzato il primo cinquantennio del Regno d’Italia, ed ascrivendo coefficienti talvolta maggiori nel Mezzogiorno (si pensi alla gloriosa epopea della Brigata Sassari).

Tra le lettere che si sono salvate dalla diaspora e che sono giunte sino a noi, assumono caratteri particolarmente tristi quelle destinate alle consorti rimaste a casa, spedite da combattenti che poi sarebbero scomparsi davanti al fuoco nemico, talvolta da veterani, dopo anni trascorsi al fronte: lettere che in genere esprimono preoccupazioni per i bimbi spesso piccolissimi, per i vecchi genitori, per i problemi degli animali o del campo, e via dicendo. Non si può fare a meno di pensare, leggendo quei documenti di vita e di morte, alle conseguenze che il sacrificio di un soldato ha indotto per tanti decenni nell’esistenza di un numero tanto alto di nuclei familiari e, più generalmente, nelle sorti nazionali dell’Italia, messa in ginocchio da tanti lutti, cui si sommarono quelli delle vittime civili di guerra e delle malattie (non meno numerosi dei caduti militari).

È stato osservato, non senza fondamento, che i soldati ebbero il conforto sia pure minimale del cameratismo e delle pause di riposo, e che in taluni casi non furono alieni dal reagire attraverso l’emulazione e gli atti di vero e proprio valore, mentre alle donne rimaste a casa restarono solo la speranza, la preghiera, ed almeno in quei 655.000 casi, le lacrime e la disperazione di una notizia irreparabile. Se non altro per questo, si può ben dire che il loro comportamento sia stato davvero improntato ad un eroismo silenzioso, non meno degno di quello degli uomini.

Nel centenario della Grande Guerra è sacrosanto onorare il sole di Vittorio Veneto, per l’Italia più splendido di quello di Austerlitz, ma è altrettanto doveroso rendere giustizia allo straordinario sacrificio femminile, ed al contributo decisivo che anche le donne seppero dare all’impegno della Patria in armi, ed infine, alla Vittoria.

(settembre 2018)

Tag: Carlo Cesare Montani, contributo femminile della Prima Guerra Mondiale, pensioni di guerra, Corpo delle portatrici, Caporetto, Maria Plozner Mentil, Sacrario di Timau, Prima Guerra Mondiale, Oscar Luigi Scalfaro, fratelli Cairoli, crocerossine, Brigata Sassari, Vittorio Veneto, Austerlitz, donne nella Prima Guerra Mondiale.