Delfino Borroni: l’ultimo Cavaliere
Qualche considerazione sulla Grande Guerra nel decennio dalla morte dell’ultimo Cavaliere di Vittorio Veneto

Novembre 2018: ricorre un decennio dalla scomparsa di Delfino Borroni, ultimo reduce italiano della Grande Guerra e ultimo Cavaliere di Vittorio Veneto, l’onorificenza che venne tardivamente istituita nel 1968, in occasione del 50° anniversario dalla fine del conflitto, per «esprimere la gratitudine della Nazione» a tutti coloro che avevano combattuto per almeno sei mesi. Con la morte di Delfino, si chiuse veramente un’epoca.

Borroni, nato nel 1898, era giunto alla veneranda età di 110 anni e aveva una memoria prodigiosa. Arruolato nel corpo dei Bersaglieri ciclisti, si era impegnato in aspri combattimenti sull’Altipiano di Asiago, sul Pasubio e a Caporetto, restando coinvolto nella ritirata fino a essere catturato dagli Austriaci ma riuscendo a fuggire e a riunirsi con un battaglione di cavalleria, e vivendo in prima persona l’epopea della Vittoria. Dopo la guerra riprese il suo tranquillo mestiere di meccanico e poi venne assunto in qualità di macchinista dall’Azienda Tranviaria Milanese, ma coltivava con affettuosa passione i suoi ricordi di combattente che oggi si trovano anche in rete.

Caporetto, narrava Borroni, era stata l’esperienza peggiore della sua guerra, con il freddo e la fame che facevano da padroni e, come se non bastasse, col frastuono incessante delle granate e talvolta con gli attacchi nemici supportati dal terribile gas asfissiante. Durante la battaglia dell’ottobre 1917 rischiò la morte quando fu colpito al piede da un proiettile, ma venne salvato dal provvidenziale spessore dello scarpone, mentre due commilitoni rimasero sul terreno proprio accanto a lui. Delfino amava la vita e chiedeva al diretto superiore perché mandasse lui, che era il più giovane, a ispezionare oltre la trincea strisciando sotto il filo spinato; nondimeno, ubbidiva in silenzio quando l’ufficiale gli diceva che «tutti gli altri hanno figli».

Non meno toccanti furono i racconti della prigionia e della rapida fuga. Borroni protestava perché voleva scrivere alla famiglia priva di sue notizie da sette mesi, e il capitano austriaco gli disse che non tornava a casa da dieci anni; ma subito dopo gli diede un foglio e una penna. Più tardi, alla fine di un giorno di marcia, accadde che la guardia rumena si addormentasse vinta dal sonno, permettendo a Delfino di fuggire e di incontrare non meno fortunosamente il reparto italiano che costituiva la salvezza.

L’ultimo Cavaliere si ricorda perché ha avuto la ventura di sopravvivere più di tutti e di raccontare con straordinaria lucidità, anche negli ultimi tempi della sua lunga vita, persino in televisione, le proprie esperienze belliche. Con la scomparsa di Delfino, la Grande Guerra si è trasferita in una dimensione «universale» e se così può dirsi, in un patrimonio etico, politico e culturale ormai definitivo, in cui le residue discussioni di strategia militare vengono circoscritte alla sfera accademica: ormai è lecito affermare che Caporetto fu una grande sciagura, ma nello stesso tempo, la premessa di una grande occasione di riscatto perché indusse quella reale unità di menti e di cuori che fu suggello del Risorgimento, fattore decisivo della Vittoria (assieme al vantaggio strategico offerto dalla drastica riduzione del fronte).

Una parte molto significativa della storiografia ha visto nella Grande Guerra l’ultimo episodio dell’epopea risorgimentale, con la liberazione di Trento e Trieste dal dominio austriaco e da un regime che non esitava a utilizzare la forca quale strumento di coercizione dell’irredentismo, come era accaduto nel caso emblematico di Guglielmo Oberdan, condannato a morte dopo un processo alle intenzioni di natura medievale. Tuttavia, nella memoria collettiva resta non meno viva l’opposizione del Santo Padre Benedetto XV nei confronti della «inutile strage» assieme alla consapevolezza dei sacrifici davvero sovrumani che furono richiesti ai combattenti: in effetti, quelli di Borroni sono soltanto un esempio reso più significativo dal riferimento simbolico all’ultimo superstite e dalla mancanza nelle sue parole, come in quelle di tanti altri vecchi combattenti, di ogni polemica o di ogni risentimento.

Nel bene e nel male, la Grande Guerra appartiene a un’Italia che ebbe modo di scoprire nel sacrificio, nella cooperazione e nell’unità indotta dall’esperienza di trincea i valori di un beninteso patriottismo. Al di là delle sue contraddizioni e dei suoi dolori questo rimane un punto fermo: i quattro anni del conflitto e il troppo sangue versato furono più importanti, al fine di rendere coese le coscienze e le volontà, che non il mezzo secolo dalla proclamazione dell’unità. Grazie ai combattenti della Grande Guerra, il cui ricordo si rinnova e si riassume nell’omaggio all’ultimo Cavaliere, l’Italia ha preso coscienza compiuta e irreversibile, dalle Alpi al Mediterraneo, della sua realtà morale di Nazione e di Stato, ancor prima che politica. Con buona pace degli amici del giaguaro, vecchi e nuovi.

(gennaio 2019)

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