Banca Romana: un grande scandalo dell’Italia liberale (1892-1893)
Dagli intrecci illeciti fra politica e finanza al processo senza colpevoli

Nella storia finanziaria italiana, e nelle sue correlazioni con quella politica, non sono mancati episodi di rilevanza oggettivamente straordinaria, con ripercussioni clamorose nell’opinione pubblica e con forti conseguenze di natura amministrativa e giudiziaria. Non a caso, l’avvento della Banca d’Italia come unico soggetto preposto all’emissione di moneta ebbe luogo a distanza di oltre trent’anni dalla proclamazione dell’Unità, quale chiaro effetto dello scandalo che nel 1893 aveva travolto la Banca Romana, assieme ad altri Istituti di credito, e condotto sul banco degli accusati diversi personaggi eccellenti, compresi alcuni parlamentari. Insomma, la «giovane» Italia liberale non era immune da vicende che spesso si ritengono erroneamente circoscritte all’epoca contemporanea, e che anche in quella circostanza divennero facile preda del giornalismo d’assalto e di un giudizio popolare, in tema di corruzione della classe politica, a dir poco unanime.

Governata dal Senatore Bernardo Tanlongo[1], personaggio assai abile nella tessitura di relazioni ad altissimo livello, ed elevato alla dignità del laticlavio dal primo Governo Giolitti, la Banca Romana, uno dei sei Istituti che avevano avuto il privilegio di poter emettere moneta a corso legale, aveva dimostrato di essere molto abile nel trarre vantaggi di forte rilevanza finanziaria dall’espansione industriale degli anni Ottanta, con riguardo prioritario all’edilizia, segnatamente a Roma. Peraltro, a causa di una notevole spregiudicatezza nella concessione dei crediti al sistema economico, il circolante giunse a superare di 65 milioni il limite legale, senza dire che una quota significativa era di moneta falsa, in quanto emessa in serie doppia; si trattava di fatti tanto più gravi perché una parte di tali mezzi finanziari era stata destinata a prestiti che l’Istituto concedeva a vari leader politici (e ai loro corifei), tra cui uomini del calibro di Francesco Crispi e dello stesso Giovanni Giolitti.

Quando il fenomeno venne a galla, anche a seguito di alcuni importanti dissesti, il momento politico non ebbe la possibilità di ignorarlo e fu costretto ad affidarsi alla Commissione d’inchiesta nominata sin dal 1889 per vigilare sulla politica creditizia e presieduta dall’Onorevole Giacomo Alvisi, che ebbe per massimo protagonista il dirigente ministeriale Gustavo Biagini, e i cui risultati furono resi di pubblico dominio alla fine del 1892 per iniziativa dell’Onorevole Napoleone Colajanni, vivace parlamentare dell’Estrema Sinistra repubblicana, dando vita a una successiva inchiesta amministrativa, affidata a un Gruppo di lavoro presieduto dall’Onorevole Gaspare Finali, e conclusa con l’arresto di Tanlongo e di altri personaggi eccellenti. Il Governo Giolitti finì per essere travolto dalla vicenda, ma il processo a carico del Governatore e degli altri imputati si chiuse col sorprendente e contestatissimo verdetto di assoluzione: la Corte, onde non coinvolgere nello scandalo uomini di primissimo piano e di conclamata milizia patriottica come lo stesso Crispi, si fece premura di motivare la sentenza alla stregua di un’istruttoria che sarebbe stata resa incompleta dalla scomparsa di alcuni documenti ad alta rilevanza probatoria[2].

Non mancarono altri fattori complementari ma tali da gettare nuovo discredito sulle istituzioni. Ad esempio, il Biagini, che era stato l’anima della denunzia, fu inviato in missione di lungo termine a Gorizia, all’epoca in territorio asburgico, con lo scopo di allontanarlo dal «luogo del delitto». In effetti, le interferenze tra politica e finanza erano assai profonde, e la pubblica opinione si convinse che quel colpo di spugna aveva motivazioni facilmente intuibili. D’altro canto, non tutto il male vien per nuocere: infatti, lo scandalo della Banca Romana si chiuse, sia pure solo formalmente, cancellando la facoltà di battere moneta riconosciuta a tale Istituto, assieme a tutti gli altri – di varia estrazione e posizione geografica – che ne avevano fruito, e attribuendola alla sola Banca d’Italia, il cui primo Governatore (a decorrere da quando venne istituita la carica e cioè dal 1928) fu quel medesimo Bonaldo Stringher che ne era stato direttore per quasi un trentennio, con fama di grande esperto e di assoluta probità.

La Banca Romana aveva provveduto all’emissione di moneta in misura superiore alle disposizioni vigenti, ma questa non fu certamente la «colpa» più grave. L’assunto è senz’altro da condividere qualora si pensi alla nuova strategia della crescita supportata dall’indebitamento, perseguita sostanzialmente dovunque sia nel successivo «secolo breve» che nel terzo millennio. Invece, all’epoca dello scandalo la base aurea era considerata alla stregua di un imperativo categorico, mentre oggi appartiene soltanto alla storia, a dimostrazione che anche nel mondo finanziario le strategie cambiano radicalmente in funzione di problemi indubbiamente cogenti, salvo dare luogo a qualche eccellente «dèfault» (con buona pace della solidarietà internazionale e di una politica di garanzie comuni).

Oggi non ci sono più dubbi. Il Governatore Tanlongo, tipica espressione della classe emergente nella «giovane» capitale d’Italia, si era reso responsabile di operazioni penalmente rilevanti e collegate alla proposta di nominarlo Senatore del Regno, cosa che apparve scandalosa in un periodo storico ancora molto sensibile ai valori patriottici del Risorgimento, e nello stesso tempo, alla politica finanziaria di rigore che pochi decenni prima aveva trovato in Quintino Sella il suo massimo assertore (unitamente a Bettino Ricasoli, il Presidente dell’Unità). Poi, lo scandalo fu tale da rimanere a lungo sulle prime pagine dei giornali, soprattutto perché giunse a lambire uomini come Crispi e Giolitti, sfiorando persino la Corona.

La questione della Banca Romana coincise con eventi che ebbero minore visibilità proprio a causa della vicenda capitolina ma che in condizioni normali sarebbero stati di straordinaria rilevanza politica. Basti pensare all’eccidio di Aigues Mortes, nel delta del Rodano, dove gli operai italiani furono massacrati per la sola colpa di avere accettato retribuzioni inferiori a quelle dei Francesi[3]; ai Fasci Siciliani; ai moti della Lunigiana soffocati nel sangue dal Generale Nicola Heusch; alle rinnovate pregiudiziali irredentiste dell’Estrema Sinistra repubblicana e radicale.

Ciò, per non parlare di alcuni morti eccellenti come Emanuele Notarbartolo[4] del Banco di Sicilia, che aveva denunziato altri abusi a carattere finanziario, e soprattutto, come il deputato Rocco De Zerbi[5] che fra l’altro era membro della Commissione parlamentare per il riordino della finanza statale, accusato di avere ricevuto mezzo milione (una cifra enorme all’epoca dei fatti) proprio dalla Banca Romana in cambio dell’impegno a non agire contro i suoi interessi.

L’antico saggio amava evidenziare quanto sia necessario che gli scandali accadano. Nel caso della Banca Romana l’affermazione deve essere condivisa, se non altro perché quella vicenda servì ad accelerare una riforma che l’Italia unita stava rinviando da troppo tempo per salvare talune cristallizzazioni dell’Antico Regime suscettibili di tradursi in rendite dalla legittimità per lo meno dubbia. Sta di fatto che quell’evento di fine Ottocento ebbe risonanza come pochi, consolidando un’impressione già diffusa: quella secondo cui il potere sarebbe corrotto e corruttore, allora come oggi.

Si tratta di una tesi che contiene un fondo di verità, ma che non può costituire, sulla scorta di quanto accadde per la Banca Romana, un tentativo di «assolvere» i Governi della Repubblica che si sono resi responsabili di ben altri disastri, a cominciare dall’indebitamento dello Stato in valori un tempo inimmaginabili, anche a prescindere dall’ulteriore crescita abnorme dello sbilancio, indotta dall’emergenza sanitaria del Covid-19. L’Italia liberale aveva le sue colpe anche gravi, ma il confronto con tante vicende successive le ridimensiona al ruolo di marachelle come quelle che, per usare una celebre espressione coniata ai tempi di Mani pulite, erano state compiute dal «mariuolo» di turno.

La questione della Banca Romana, alla luce della larga eco e della grande rilevanza mediatica, è stata oggetto di ampie trattazioni storiografiche. In tale ambito, esistono autorevoli commenti che si collocano nell’ambito di un’interpretazione della storia in termini attuali, e proprio per questo, di interesse prioritario[6]: non perché la storia sia maestra di vita, stante la sua incapacità di prevenire la ripetizione degli errori, ma alla stregua dell’idoneità a promuovere riflessioni non effimere circa la «magnifiche sorti e progressive» e l’amara conclusione del vecchio poeta secondo cui la fama – e a più forte ragione quella di segno negativo – «conduce solo alla tomba».

Le interpretazioni storiografiche non sono univoche, e si differenziano anche alla stregua dei tempi in cui furono formulate. Tuttavia, è facile cogliervi un minimo comune denominatore nella consapevolezza di un sistema che in pochi decenni si era visibilmente allontanato dai valori del migliore Risorgimento per lasciare un ampio spazio alla logica del profitto, e quindi alla prevalenza dell’economia sull’etica: effetto ricorrente della rivoluzione industriale e di uno sviluppo fondato sul realismo, senza troppi riguardi morali e nemmeno giuridici, a suffragio di una svolta storica che assumeva tutti i caratteri di un fenomeno irreversibile. In ogni caso, nessun commento appare propenso a giustificare il comportamento dei protagonisti di quello scandalo, compresi i giudici che decisero per un’assoluzione indiscriminata.

Una lettura ormai datata è quella di Ivanoe Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, terza edizione, Einaudi, Torino 1969, pagine 88-92. Sin dalla prima uscita del 1944, il vecchio Presidente del Consiglio, che dal luglio 1921 al febbraio dell’anno successivo aveva preceduto nella guida dello Stato i Governi di Luigi Facta e, subito dopo, di Benito Mussolini, si era fatto premura di ricostruire i fatti in maniera dettagliata, non senza denunciare l’atmosfera di «passioni politiche» impossibili da trattenere e tali da alimentare una vera e propria «bramosia dello scandalo» analoga a quella che nel medesimo periodo andava dilagando in Francia, dove il taglio dell’istmo di Panama «aveva gettato ondate di fango su uomini e cose». Nella medesima ottica, l’Estrema Sinistra Italiana non poteva perdere la ghiotta occasione, per dimostrare che il sistema «era guasto, corrotto, putrescente, e che bisognava distruggere per riedificare». Verissimo: ma i fatti erano tali da giustificare la caccia alle streghe, tradotta in parecchi mesi durante i quali fu cancellata «ogni altra preoccupazione all’infuori di quella di scoprire ladri, manutengoli, giornalisti corrotti, parlamentari compromessi». Il quadro era indubbiamente fosco e non lasciava presagire nulla di positivo. Infatti, la passione dello scandalo «dilagava e sommergeva, dando spazio alle vignette corrosive, ai versi amari e indignati dello Stecchetti, alle invettive della gente minuta che nella sua onesta povertà considerava l’Italia ufficiale» alla stregua di «una masnada di rapinatori»[7].

Meno epidermico ma parimenti pertinente è il giudizio di Ernesto Ragionieri, Dall’Unità a oggi: lo Stato liberale, in «Storia d’Italia», Edizioni Einaudi-Il Sole 24 Ore, Milano 2005, pagine 1.800-1.802 (ristampa dalla prima edizione del 1976). Infatti, lo storico fiorentino, dopo avere rilevato il nesso tra relazioni politico-finanziarie e scelte di tipo dirigista sgradite alle attese del liberismo, chiarisce il pressappochismo di tante strategie, la leggerezza di parecchi investimenti senza solide basi finanziarie, le sovvenzioni a «giornali dalla vita altrimenti fatiscente» e la pluralità delle banche di emissione quale singolare eccezione italiana. Il tutto, poi, si collocava in una situazione sociale a dir poco esplosiva, e nella crisi economica ben dimostrata dal peggioramento dei rapporti di cambio, dal regresso della Borsa con particolare riferimento al crollo del Credito Mobiliare, e infine dalla corsa dei depositanti agli sportelli delle banche, tanto grandi quanto piccole, dando luogo al massimo disastro finanziario della nuova Italia. In effetti, il dissesto della Banca Romana sarebbe stato un episodio, sia pure assai rilevante, di un problema notevolmente più ampio, o meglio, di un malessere generale evidenziato da un drammatico disagio sociale.

Una sintesi rapida ma oggettiva è quella di Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea (1776-1922), Bruno Mondadori, Milano 1999, pagine 363-364. Lo storico francese, dopo avere premesso che ancor prima dello scandalo si dovrebbe fare riferimento a una speculazione finanziaria e immobiliare che aveva raggiunto il culmine soprattutto a Roma, evidenzia che taluni Ministri in carica, quali gli stessi Crispi e Giolitti, avevano fruito di «prestiti a titolo gratuito» e quindi senza remunerazione per l’Istituto bancario. Ciò, facendo presumere che la nomina di Tanlongo a Senatore vitalizio fosse «una ricompensa per i servizi resi» in guisa da provocare motivate proteste di parte liberista, con particolare riguardo a quelle promosse dal «Giornale degli economisti» e con l’avallo sia pure strumentale dell’Estrema Sinistra. In queste condizioni, la difesa «della dignità dell’Italia» propugnata da parte governativa diventava necessariamente ardua e la ragione di Stato doveva cedere il passo di fronte alle accuse di «irregolarità finanziarie, trasgressione delle norme amministrative e ignoranza delle leggi». Poi, l’incriminazione di Tanlongo, unitamente a quella di Francesco Chauvet, direttore del «Popolo Romano», avrebbe fatto il resto e costretto Giolitti alle dimissioni «mentre i deputati lo fischiavano» e gli davano del ladro.

Infine, per lo meno sorprendente, anche alla luce della formazione idealistica, è l’interpretazione di Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, XI edizione, Giuseppe Laterza & Figli, Bari 1956, pagine 200-201. Infatti, lo storico e filosofo abruzzese dichiara che non è congruo «soffermarsi sugli incidenti dei cosiddetti “scandali bancari” e sulle indagini delle responsabilità e delle colpe, materia prediletta dai moralisti a buon mercato» perché gli affaristi e i politici «senza scrupoli e poco dignitosi» fanno regolarmente parte delle «cose di tutti i tempi e di tutti i Paesi». Caso mai, «il male vero si ha quando si addensano e non scoppiano, cioè quando non danno luogo alla reazione della coscienza onesta, e al castigo e alla correzione: il che non si può dire che accadesse allora in Italia, dove si ebbe con il male il rimedio, e gli scandali cessarono di esser tali, appunto perché furono qualificati e trattati come tali». Siffatta diagnosi di Croce, indubbiamente pragmatica, può ritenersi ammissibile in una «Realpolitik» all’italiana, ma sembra contraddire il momento etico dello Spirito, che nella sua concezione filosofica è superiore sia all’estetico, sia all’economico.

La vicenda della Banca Romana dimostra che la storia si ripete e che diventa tanto più «popolare» nella misura in cui affarismo e corruzione coinvolgono il momento politico. La meta di un’etica dei governi conforme all’assunto della scienza politica, fondato sui valori essenziali dello Stato e della comunità civile, rimane assai lontana ma diventa a più forte ragione motivo di riflessione e d’impegno da parte degli uomini di buona volontà.


Note

1 Bernardo Tanlongo (1820-1896) era già stato attivo nel mondo commerciale della Roma Pontificia ma assurse a ben maggiore visibilità dopo l’avvento della nuova capitale italiana. Già nel 1871 fu prestanome per l’acquisto della villa di Castelgandolfo destinata a residenza della «Signora di Mirafiori» (ovvero Rosa Vercellana, amica di Vittorio Emanuele II). Tre anni dopo era già noto come appartenente al ristretto gruppo dei massimi proprietari romani, amministratore di un alto numero di tenute reali, fornitore delle scuderie sovrane, e Consigliere del Banco di Napoli. Nel 1881 divenne Governatore della Banca Romana: incarico in cui si distinse per il carattere spesso spregiudicato di talune operazioni, fra cui il salvataggio della Banca Tiberina, legata a personaggi molto vicini a Umberto I. Più tardi, si rese protagonista di varie importanti speculazioni fra cui la lottizzazione di «Villa Massimo» col beneplacito del Comune, e nel 1890 aggiunse agli altri incarichi anche quello di Presidente della Camera di Commercio. Infine, nel 1892 ebbe luogo la nomina a Senatore, travolta nel breve termine dallo scandalo della Banca Romana, seguito dall’arresto ai primi del 1893, e dal successivo processo con assoluzione, tanto più clamorosa perché Tanlongo aveva ammesso parecchie responsabilità penali.

2 Francesco Crispi, e a più forte ragione Giovanni Giolitti, furono i maggiori protagonisti politici dello scandalo, ma alla resa dei conti la caduta del Governo, nello scorcio conclusivo del 1893, si risolse in un passaggio di consegne perché il nuovo gabinetto uscito dalla crisi fu proprio il terzo Ministero Crispi, sopravvissuto fino al marzo 1896 quando fu travolto in termini definitivi da un evento ancora più tragico: la sconfitta dell’esercito italiano nella sanguinosa battaglia di Adua, tra le pagine più ingloriose della storia coloniale europea. Dal canto suo, Giolitti sarebbe tornato ripetutamente alla ribalta: fra l’altro, guidando l’Italia nella guerra contro la Turchia per il possesso della Libia (1911-1912) che coincise col ritorno alle vecchie strategie di espansione oltremare, ancora una volta in funzione di precisi interessi economici e finanziari, in primo luogo romani; e assumendo la Presidenza del Consiglio per sei volte, sino all’ultima del 1920, prima di passare la mano a Ivanoe Bonomi.

3 Le cifre esatte dell’eccidio, avvenuto il 7 agosto 1893, non furono mai note, ma si conoscono i nomi di almeno dieci vittime italiane, cadute a causa del «pogrom» nazionalista ordito da parte francese. Le proteste del Governo Giolittiano non furono proporzionali alla rilevanza del delitto, anche per la concomitanza con lo scandalo della Banca Romana. Nondimeno, vale la pena di ricordare che il celebre giornalista napoletano Edoardo Scarfoglio si rese protagonista di una crociata a mezzo stampa in cui giunse ad auspicare la guerra riparatrice contro la Francia.

4 Emanuele Notarbartolo di San Giovanni (1834-1893) fu patriota del Risorgimento, partecipando anche alla spedizione dei Mille. Dopo l’Unità ebbe un ruolo importante nella ristrutturazione del sistema bancario siciliano, contribuendo attivamente, anche nella sua qualità di Presidente del Banco di Sicilia, alla riconsiderazione della politica creditizia in senso più oculato, avendo cura per le opportune garanzie. Inviso alla mafia, di cui si ritiene prima vittima eccellente, ebbe varie traversie fino al feroce accoltellamento mortale avvenuto in treno, presso Termini Imerese, ai primi di febbraio del 1893.

5 Rocco De Zerbi (1843-1893) fu valente giornalista, scrittore, uomo politico e deputato, esponente della Destra storica, diventato assai noto anche a seguito di una forte polemica letteraria con Giosuè Carducci. Coinvolto nella vicenda della Banca Romana con l’accusa di importanti finanziamenti illeciti, chiese lui stesso l’autorizzazione a procedere da parte della Camera, che venne accordata il 3 febbraio 1893. Pochi giorni dopo, l’Onorevole De Zerbi scomparve improvvisamente a causa di un infarto ma non mancarono ipotesi non dimostrate che si fosse tolto la vita.

6 Sulla questione della Banca Romana e il processo Tanlongo non mancano opere a carattere divulgativo: tra le più note, si veda Enzo Magri, I ladri di Roma. 1893. Scandalo della Banca Romana: politici, giornalisti, eroi del Risorgimento all’assalto del denaro pubblico, Edizioni Mondadori, Milano 1993, 348 pagine. Altri dettagli sono mutuabili da Francesco Savasta, Il processo della Banca Romana: il mistero delle assoluzioni, Edizioni Efesto, Roma 2017, 350 pagine.

7 Si tratta di un panorama destinato a ripetersi. Basti ricordare la grande rilevanza mediatica che durante il «secolo breve» fu assunta dalla vicenda concernente la morte di Wilma Montesi (1953) e il processo che vi fece seguito, tanto più clamoroso perché anche in tale occasione fu coinvolto il mondo politico. Analoga visibilità ebbe lo scandalo Lockheed (1976) circa la fornitura di aerei militari, con riferimenti anche al ruolo del Quirinale. Comunque, il vertice si raggiunse con Mani pulite quando l’indagine giudiziaria (1993) coinvolse quasi tutti i partiti del cosiddetto «Arco costituzionale».

(maggio 2021)

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