L’antisemitismo sulle colonne de «La Stampa» durante la guerra di Libia del 1911
La svolta del nuovo secolo. Agli inizi del Novecento, in Italia, l’antisemitismo acquisisce caratteristiche nazionaliste, mutuate dell’antiebraismo europeo più virulento

La conquista della Libia[1], iniziata il 3 ottobre 1911 con un bombardamento delle fragili fortificazioni che proteggevano Tripoli e con lo sbarco il 5 ottobre, non fu un evento sorprendente, poiché dall’inizio del Novecento il tema della «quarta sponda», così era definita la Libia dalla retorica nazionalista, aveva assunto un ruolo cardine nell’ambito diplomatico e politico.

Per quanto concerne le relazioni internazionali, l’Italia aveva cercato ed ottenuto il beneplacito delle potenze europee[2] per un’espansione militare nel territorio libico, facente ancora parte dell’Impero Ottomano, afflitto da una grave crisi interna che ne stava minando le fondamenta[3].

Il governo Giolitti colse l’occasione delle debolezze che tormentavano l’Impero Ottomano e della crisi internazionale che contrapponeva Francia e Germania per il controllo del Marocco, inviando, senza consultare il Parlamento, un pretestuoso ultimatum all’Impero e, poco tempo dopo, autorizzando l’intervento militare. L’impresa bellica fu caldeggiata da una gamma di sostenitori molto variegata al suo interno: gruppi finanziari speranzosi di trovare nuove floride opportunità di investimento; gruppi nazionalisti radicali, come l’Associazione Nazionalista Italiana guidata da Enrico Corradini e da Luigi Federzoni; stampa e organizzazioni cattoliche che vi vedevano una specie di Crociata contro l’Islam; tutta la stampa liberale, la quale riteneva che la conquista potesse far annoverare l’Italia fra le grandi potenze.

Dal 1910 l’opinione pubblica italiana fu sottoposta ad un’incessante opera di propaganda sia da parte del movimento nazionalista sia della stampa tesa a proporre l’immagine della Libia come di una terra promessa, ricca di risorse e capace di accogliere l’eccesso demografico che affliggeva il nostro Paese[4]. È interessante notare come durante questa vasta operazione di propaganda, di cui il movimento nazionalista era uno dei maggiori artefici, fossero divulgati stereotipi classici della polemica antisemita, come la predominanza ebraica nella finanza e nelle attività bancarie[5] e una presunta ambiguità dei comportamenti degli Ebrei Italiani nei riguardi della loro Patria. Protagonista della polemica, che ebbe il suo culmine nei mesi di ottobre e novembre del 1911, fu «L’Idea Nazionale»[6], tuttavia queste argomentazioni non rimasero confinate alle pagine del periodico nazionalista, bensì trovarono «spazio su quotidiani d’informazione di grande prestigio e rilievo, una constatazione che indica, più che un mutamento radicale della consistenza complessiva dell’antisemitismo nell’Italia liberale, che certe argomentazioni cominciavano comunque a trovare diffusione, credito, legittimazione, nel quadro delle reazioni all’ostilità manifestata dalla stampa europea nei confronti della guerra mossa dall’Italia all’Impero Ottomano»[7]. Tali accenti si possono ritrovare ne «La Stampa», giornale importante non solo per la considerevole tiratura, ma soprattutto per il doppio filo che lo legava alle élite piemontesi e al potere di Giovanni Giolitti.

Il corrispondente del quotidiano torinese era Giuseppe Bevione[8], ardente nazionalista e aperto sostenitore di un intervento militare, che si occupò della Libia prima delle operazioni belliche, essendo stato inviato in Tripolitania già agli inizi del 1911.

Un articolo molto interessante del giornalista focalizzava l’attenzione sulle quattro razze esistenti in Libia: Arabi, Neri[9], Ebrei e Turchi[10]. Il contributo, pubblicato nella terza pagina solitamente dedicata agli argomenti culturali, conteneva una descrizione dei caratteri e dei costumi delle quattro diverse razze presenti in Libia, con un’evidente svalutazione per fini prettamente politici dei Turchi, e, nel contempo, con una lusinghiera rappresentazione degli Arabi.

Per quanto concerne gli Israeliti[11], Bevione scriveva che «le loro caratteristiche sono quelle note: una fortissima disposizione agli affari commerciali e bancaroli (sic), o scarsa o nulla tendenza al lavoro agricolo e produttivo; un poderoso spirito di razza, che li mantiene compatti ed incolumi nell’ambiente ostile; pazienza, umiltà, rassegnazione, tenacia, flessibilità, finché sotto la corazza della ricchezza e con le catene del credito non si sia assoggettato il nemico e il persecutore»[12]. Nella seconda parte dell’articolo, l’autore riproponeva, senza alcuna variazione, uno stereotipo classico dell’antisemitismo, cioè l’esercizio dell’usura: «I ricchi israeliti tripolini hanno esercitato essenzialmente il grosso commercio di importazione e di esportazione, il traffico carovaniero con l’Africa Centrale, la banca e, prima della banca o contemporaneamente ad essa, l’usura. […] L’Israelita concede il credito, ma a condizioni spaventevoli. Ho inteso parlare del 200 o del 300 per cento»[13].

Allo stesso tempo, Bevione metteva in risalto come tutto fosse cambiato grazie all’opera del Banco di Roma[14], che «ha aperto il credito al pubblico a tasso onesto, iniziando anche, con grande stupore degli Arabi, spremuti dall’usura ebraica, un servizio di Monte di Pietà, che non confisca il pegno in caso d’inadempienza, come era l’uso ebreo»[15]. Tale attività, secondo l’autore, aveva provocato una «latente antipatia nell’ambiente commerciale tripolino; il quale, per strana coincidenza, è fatto in maggioranza da Israeliti»[16].

L’articolista sottolineava come gli Ebrei avessero optato per la cittadinanza italiana per avere una maggiore protezione, data la mancanza di eguaglianza giuridica rispetto ai musulmani. Bevione continuava affermando che «il giorno in cui dominio turco sia spezzato, ed un potere non musulmano sia costituito al posto suo, la situazione si rovescerà: la prepotenza araba non troverà più incoraggiamento, e l’uguaglianza delle condizioni sarà raggiunta e garantita. Così anche gli Israeliti, per ragioni diverse dagli Arabi, anelano ad un’occupazione europea della Tripolitania come alla fine della loro degradazione. Quale, fra le Nazioni europee, gli Ebrei preferiscono per quest’opera di redenzione è detto dal fatto che i più facoltosi e ragguardevoli della comunità, sono da generazioni sudditi italiani»[17].

Il servizio ebbe conseguenze anche dal punto di vista politico. Infatti, il 18 maggio compariva un nuovo articolo[18]: si trattava di una lettera editata in corsivo nella quale il giornalista spiegava come fosse stato informato di alcune proteste. In particolare, tornato a Tripoli, appena uscito dalla dogana, si trovò di fronte ad un capannello di duecento Ebrei. Uno di questi, un certo Beniamino Naim, intimava a Bevione e al suo collega, Pasetti del «Giornale d’Italia», di confidargli i nomi dei loro informatori. Bevione replicava chiedendo a Naim se fosse «suddito italiano». La risposta dell’uomo, «sono Turco», innescava una rissa, poi placata anche grazie ad alcuni esponenti della comunità ebraica locale. La protesta, a parere del giornalista, non aveva motivo d’essere poiché il suo servizio era «obiettivo nella forma e favorevole agli Ebrei nella sostanza proclamando ingiustificata la condizione sfavorevole in cui sono tenuti dagli Arabi»[19]. In conclusione all’articolo vi erano poche righe non firmate, ma sicuramente attribuibili al direttore del quotidiano Alfredo Frassati, in cui si affermava con forza che il servizio era uno studio obiettivo ed acuto delle condizioni in cui si trovavano le quattro razze, e per quanto riguardava la razza israelita non intendeva fare «dell’antisemitismo, ma metteva in rilievo le condizioni dolorose di inferiorità, in cui essa è tenuta. Lo scopo dello scrittore era dunque liberale e civile: tendere alla elevazione di una razza ancora vittima di antichi pregiudizi»[20]. Sempre a riguardo dell’articolo sulle quattro razze, Bevione scriveva in una corrispondenza successiva[21], dopo l’avvio delle operazioni militari in territorio libico, della amichevole accoglienza tributatagli dalla locale comunità ebraica che lo aveva accolto in sinagoga, dove «si prega per il Re d’Italia. Ammenda inconsapevole per l’ingiusta dimostrazione ostile che gli Ebrei mi avevano fatto la primavera scorsa, alla banchina del porto, per ciò che avevo scritto su di loro in un mio articolo»[22]. Il giornale dava un particolare risalto alla posizione della stampa estera nei confronti dell’Italia, attribuendone l’avversione alle manovre «del gran mondo bancario ebraico tedesco, sconcertato dalla nostra azione in Tripolitania… questo turbamento ha trovato la sua prima espressione nell’atteggiamento di una gran parte della stampa austriaca-tedesca, la quale, come è noto, è quasi interamente in mano di Israeliti»[23]. Lo scrivente aggiungeva che i giornali inglesi sfavorevoli all’Italia erano di proprietà di Ebrei, «portavoci dei circoli tedeschi più che dei circoli del loro Paese»[24]. Si elencavano, poi, i nomi di direttori e redattori inglesi, rimarcandone la predominante presenza ebraica. La caratterizzazione ebraica conferita da alcuni commentatori all’ostilità della stampa internazionale nei confronti dell’impresa italiana in Libia rivelava la sua ambiguità ed i rischi connessi ad un’indiscriminata identificazione degli Ebrei come possessori del potere finanziario e controllori dell’informazione, uniti da vincoli particolari che oltrepassavano i confini nazionali. Da segnalare, a questo proposito, un altro articolo apparso su «La Stampa» concernente il comportamento della stampa viennese[25], rea di propagandare notizie false sull’andamento delle operazioni militari, che attraversavano un momento di stallo per il nostro Paese. Secondo lo scrivente tali giornali non avevano «nemmeno la giustificazione di lavorare per l’interesse del loro Paese […] essi lavorano come servi, come comprati, come sicari, per altri interessi loschi di qualche borsista frodatore, di qualche Israelita sfruttatore, di qualche capitalista ladro. Più vili dei loro padroni, si adattano ad essere il mezzo di guadagni, di cui ad essi non vengono che le briciole»[26]. Poche settimane dopo, Francesco Coppola pubblicava sulle pagine de «L’Idea Nazionale» un articolo dal significativo titolo Israele contro l’Italia che riprendeva le accuse emerse circa «la formidabile campagna organizzata e disciplinata dall’alta finanza cosmopolita e israelita», il cui interesse era di influenzare «i corsi della rendita turca e della rendita italiana», di consolidare lo sfruttamento dell’Impero Ottomano, di eccitare il nazionalismo musulmano per ritardare la pace e sostituirsi alle attività economiche italiane in Oriente, «di indebolire, snervandolo in una dura lotta, lo spirito nazionale che rinasce vigorosamente in Italia, altra preda agognata, e che può essere contagioso. Poiché tutti sanno… che alla elevazione dello spirito nazionale, e quindi dei valori ideali tradizionali ed eroici corrisponde automaticamente l’abbassamento dell’individualismo materialista, e quindi dei valori puramente plutocratici sui quali la coalizione ebrea internazionale ha fondata la sua conquista»[27]. Le stesse manifestazioni di ostilità di matrice nazionalista, così ben rappresentate dall’articolo di Francesco Coppola, si riscontrano anche nelle pagine de «La Stampa»: il 18 novembre Virginio Gayda polemizzava aspramente con i «richiami del ghetto e della sacrestia»[28] e ipotizzava che la simpatia della stampa viennese per Turchi ed Arabi promanasse da «qualche lontana voce della stirpe»[29]; Bergeret, pseudonimo di Ettore Marroni, si occupava nuovamente della stampa tedesca ed austriaca, «che viceversa è la stampa d’Israele»[30], evidenziandone lo stretto collegamento con la finanza internazionale e notando come nel nostro Paese «la loro finanza (quella ebraica) va più o meno mescolata con quella non circoncisa, e non v’è in Italia una Banca ebrea che formi Stato nello Stato come accade in Francia e in Germania»[31]; infine, in questo contesto polemico, va inserito l’articolo di Enrico Thovez su uno studio di Jean Finot, che riportava in conclusione «l’egregio uomo, che è, dicono, un Israelita Polacco che ha tradotto il proprio nome in francese, nega persino la razza ebrea. Sicuro; quella razza ebrea conservatasi prodigiosamente pura ed intatta attraverso i tempi, così pura che i suoi membri attuali sembrano uscire dai bassorilievi egizi ed assiri che ce li rappresentano quali erano migliaia d’anni or sono, egli non l’ammette in nessun modo. Per negarla fa persino il sacrificio di giovarsi di quella scienza antropologica che ha continuamente deriso. Si capisce, come, negata la propria, gli sia riuscito facile distrurre le altre…»[32]. La polemica antiebraica sviluppata dal movimento nazionalista durante la guerra di Libia mostrava quanto l’antisemitismo presente in Italia stesse cambiando, poiché acquisiva caratteristiche tipiche dell’antiebraismo europeo più aggressivo; un’idea di nazionalità molto restrittiva e rigida nelle sue applicazioni pratiche e, nel contempo, l’affermazione del nazionalismo facevano sì che stereotipi e pregiudizi antisemiti[33] avessero in questo periodo una maggiore diffusione, che, come l’analisi de «La Stampa» ha dimostrato, non risultava circoscritta esclusivamente alle pubblicazioni nazionaliste.


Note

1 Sulla conquista della Libia si vedano Salvatore Bono, Storiografia e fonti occidentali sulla Libia (1510-1911), Roma, L’Erma di Bretschneider, 1982.
Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia, volume I, Tripoli bel suol d’amor, 1860-1922, Bari, Laterza, 1986.
Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002.
Francesco Malgeri, La guerra libica 1911-1912, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1970.
Jean-Louis Miége, L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1970.
Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Milano, Loescher, 1972.
Giorgio Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Roma, Pagus, 1991.
Sergio Romano, La quarta sponda: la guerra in Libia 1911-1912, Milano, Bompiani, 1977.

2 Sull’azione diplomatica si veda Mark I. Choate, Emigrant Nation. The Making of Italy Abroad, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 2008.

3 Per la situazione dell’Impero Ottomano si veda Alberto Mario Banti, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Bari, Laterza, 2010, pagine 574-580.

4 Confronta Giancarlo Monina, Il consenso coloniale. Le società geografiche e l’Istituto coloniale italiano (1896-1914), Roma, Carocci, 2002.
Marcella Pincherle, La preparazione dell’opinione pubblica all’impresa di Libia, in «Rassegna storica del Risorgimento», LVI, 1969, 3, pagine 450-482.
Stefano Trinchese (a cura di), Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo in Italia all’alba del ’900, Milano, Guerini & Associati, 2005.

5 Sullo stereotipo della banca e della finanza ebraica nell’Italia del periodo, confronta Renzo De Felice, Storia degli Ebrei Italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1988, pagina 54.

6 Confronta Francesco Coppola, Israele contro l’Italia, «L’Idea Nazionale», 16 novembre 1911.
Francesco Coppola, Il mio antisemitismo, «L’Idea Nazionale», 30 novembre 1911.
Anonimo, Parole chiave, «L’Idea Nazionale», 30 novembre 1911.
Si vedano anche gli articoli de «Il Popolo romano»:
Anonimo, Tripoli e la Triplice, «Il Popolo romano», 17 ottobre 1911.
Anonimo, L’Italia in Tripolitania e la stampa inglese, «Il Popolo romano», 1° novembre 1911.
Anonimo, Le ostilità… nella stampa, «Il Popolo romano», 7 novembre 1911.

7 Mario Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei Sei Giorni, Milano, Angeli, 2003, pagina 42.

8 Voce, curata da Giuseppe Sircana, in Dizionario biografico degli Italiani, www.treccani.it/enciclopedia/giuseppebevione_(Dizionario-Biografico).

9 Il giornalista adoperava il termine «negri».

10 Giuseppe Bevione, Le quattro razze, «La Stampa», 23 aprile 1911.

11 Per la storia degli Ebrei Libici si veda il fondamentale saggio di Renzo De Felice, Ebrei in un Paese Arabo. Gli Ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970), Bologna, Il Mulino, 1978.

12 Ibidem.

13 Ibidem.

14 Nel 1907 il Banco di Roma aveva aperto una sede distaccata a Tripoli e successivamente altre agenzie in varie città libiche. L’opera di questa istituzione economica fu importante non solo per la penetrazione finanziaria nel territorio libico ma anche per fini politici. Confronta Renato Mori, La penetrazione pacifica italiana in Libia dal 1907 al 1911 del Banco di Roma, in «Rivista di studi politici internazionali», XXIV, I, pagine 102-118.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 Giuseppe Bevione, Un incidente capitato a Tripoli al nostro inviato speciale, «La Stampa», 18 maggio 1911.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 Giuseppe Bevione, Tripoli felice di rinascere a vita italiana, «La Stampa», 12 ottobre 1911.

22 Ibidem.

23 Confronta Anonimo, Come va intesa l’avversione di certa stampa estera contro l’Italia, «La Stampa», 15-16 ottobre 1911.

24 Ibidem.

25 Anonimo, Stampa viennese spudoratamente bugiarda. La protesta deliberata dai corrispondenti italiani a Vienna, «La Stampa», 1° novembre 1911.

26 Ibidem.

27 Francesco Coppola, Israele contro l’Italia, «L’Idea Nazionale», 16 novembre 1911.

28 Virginio Gayda, I Turchi di Vienna, «La Stampa», 18 novembre 1911.

29 Ibidem.

30 Bergeret, I privilegi dell’impecuniosità, «La Stampa», 30 novembre 1911.

31 Ibidem.

32 Enrico Thovez, Il distruttore di razze, «La Stampa», 4 dicembre 1911.

33 Confronta Bruno Di Porto, Dopo il Risorgimento al varco del ’900. Gli Ebrei e l’Ebraismo in Italia, Venezia, Tipografia Veneziana, Estratto dalla Rassegna mensile di Israel, luglio-dicembre 1981, pagina 45.

(dicembre 2012)

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