Terra, etnia e potere politico in Zimbabwe
«A spectre is haunting Zimbabwe – the spectre of racialised dispossession… Postcolonial Zimbabwe remained haunted by entanglements of race, rule and land rights» (Donald Moore, 2005, Suffering for Territory: Race, Place, and Power in Zimbabwe. Harare and New York: Weaver Press and Duke University Press. page IX)

La storia post coloniale dei Paesi Africani non dovrebbe mai omettere una profonda analisi dei movimenti di liberazione nazionale, soprattutto quando certe loro caratteristiche, quali un nazionalismo virulento, in cui il tema della «razza» ha un ruolo primario, un’«etnicizzazione» della politica e una competizione per il potere attraverso la mobilitazione sulla base dell’appartenenza tribale, ne minano la capacità di realizzare concretamente un progetto di stato-nazione stabile e democratico.

Un’altra chiave di lettura basilare per comprendere il contesto contemporaneo di molti stati dell’Africa rimane lo studio del retaggio coloniale, del controllo e dell’accesso alla terra. In particolare, nel caso dello Zimbabwe, che sta affrontando un processo di transizione dagli esiti molto incerti, è possibile notare come i temi dell’accesso e del controllo sulla terra abbiano continuato a formare e influenzare le contestazioni politiche post coloniali. Blair Rutherford ha evidenziato l’associazione tra l’idea di terra e nazione in Zimbabwe; la lotta di liberazione è stata elaborata come una lotta contadina per il possesso della terra; la retorica politica del partito al governo, lo Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (ZANU-PF), si è incentrata sulla questione agraria. I temi della terra e della razza hanno costituito il fulcro delle definizioni di cittadinanza, appartenenza ed esclusione, rappresentando, inoltre, le chiavi interpretative dell’intera storia nazionale.

La condizione attuale dello Zimbabwe è comprensibile solamente attraverso un’analisi storica che prenda in esame la dominazione coloniale inglese, con una particolare attenzione alla legislazione sulla terra, e i movimenti nazionalisti formatisi durante quel periodo.

La colonizzazione dello Zimbabwe ebbe inizio tramite l’operato della British South Africa Company di Cecil Rhodes, che ottenne nel 1889 una Carta Reale che gli permetteva di governare, legiferare e amministrare il nuovo territorio sotto la protezione della Corona, la cui influenza sulla Compagnia era esercitata attraverso l’Alto Commissario Inglese per il Sud Africa. L’attuale Zimbabwe fu nominato Rhodesia Meridionale.

Negli anni immediatamente successivi all’invasione, avvenuta nel 1890, da parte della Compagnia dell’odierno Zimbabwe, si assistette alla progressiva e massiccia espropriazione della terra in favore dei coloni bianchi. Le leggi, le politiche e le pratiche istituite durante il periodo coloniale crearono due categorie nell’uso del suolo, le terre demaniali e di proprietà. Le popolazioni autoctone furono insediate nei terreni demaniali, con diritto di usufrutto, mentre i coloni ebbero dei terreni con piena proprietà. Solitamente, le terre demaniali erano situate in aree dallo scarso potenziale agricolo.

Dal punto di vista legislativo, il Land Apportionment Act del 1931, che istituzionalizzava la suddivisione sopra decritta, si basava sulle raccomandazioni della Commissione Morris Carter del 1926, che aveva sostenuto la divisione tra Europei e autoctoni fino a quando gli Africani non «fossero progrediti come popolo». La ripartizione della terra stabilita dal Land Apportionment Act causò problemi di sovrappopolazione, con una conseguente e progressiva erosione del suolo nelle aree demaniali. Per questa ragione, nel 1948 fu promulgato il Native Land Husbandry Act, divenuto legge nel 1951 ma attuato soltanto nel 1955. Sostanzialmente, questo atto aboliva il tradizionale impianto nativo di possesso della terra, introducendo un sistema di diritti di pascolo e delle buone pratiche agricole, aprendo, inoltre, all’acquisto dei terreni in aree urbane da parte degli autoctoni. La nuova legge, attuata molto lentamente, introdusse dei concetti nuovi per le popolazioni indigene, per esempio l’acquisto dei terreni, e rimosse le autorità tradizionali dalla gestione dei diritti sulla terra, sostituendole con il mercato. Il Native Land Husbandry Act produsse soltanto effetti negativi per le comunità locali, minandone la sicurezza e la stabilità.

Le foreste demaniali furono istituite nel 1936 e nel 1941, in base al Land Apportionment Act. Al tempo della loro creazione, in due di queste foreste (Gwaai e Bemebsi) stavano già vivendo delle popolazioni che allevavano e pascolavano il bestiame lungo le valli dei fiumi Gwaai e Bemebsi. A queste comunità fu consentito di rimanere poiché, in quel determinato momento storico, non costituivano un pericolo per le foreste e per la loro gestione da parte delle autorità. Infatti, furono considerate strategiche, dato che fornivano addetti per il lavoro stagionale e aiuto contro gli incendi. Con il passare del tempo, la loro popolazione crebbe sia naturalmente sia per effetto dell’immigrazione, iniziando ad avere un impatto significativo sulle foreste. Al fine di un controllo sulle popolazioni delle foreste, i residenti furono autorizzati tramite la concessione di permessi, validi per un anno e rinnovabili. La giurisdizione sulle terre e le responsabilità sulla gestione delle risorse erano, e sono rimaste, confuse e ambigue.

Il Land Apportionment Act rimase in vigore fino al 1969, allorquando fu sostituito dal Land Tenure Act, che formalizzò la distribuzione della terra e impedì agli Africani di stabilirsi «nei quartieri bianchi» delle aree urbane.

Sotto il profilo politico e istituzionale, nel 1898, dopo il fallimento della ribellione Matabele, fu istituito un Consiglio Legislativo – tale scelta fu condivisa anche dai coloni, e il Governo Inglese lo percepì come un primo passo in vista di un loro self-government. La Gran Bretagna considerò che la Rhodesia sarebbe divenuta una colonia «bianca» dotata di self-government, sul modello del Natal e del Capo. Nel 1910, le colonie britanniche del Capo e del Natal si unirono alle precedenti Repubbliche Boere formando l’Unione del Sud Africa. La Rhodesia fu chiamata a divenire la quinta provincia, ma rifiutò. Il 7 novembre del 1923, una seconda proposta di entrare nell’Unione fu ampiamente respinta dall’elettorato bianco, con 8.744 voti contrari e 5.989 voti favorevoli; l’elettorato optò per uno stato giuridico che fece diventare la Rhodesia la prima colonia dell’Impero Inglese avente un self-government, con, essenzialmente, il medesimo status del Canada e dell’Australia.

Molte sezioni della Costituzione non furono emendate dal Corpo Legislativo, e l’Inghilterra ebbe il potere di legiferare tramite atti o decreti nel Consiglio, e di revocare o sospendere la Costituzione.

Nel 1953, i coloni bianchi della Rhodesia del Nord e del Sud fecero pressioni sul Governo Inglese per unire la Rhodesia Meridionale, la Rhodesia Settentrionale (l’attuale Zambia) e il Nyasaland (l’odierno Malawi) in una federazione denominata Federazione della Rhodesia e del Nyasaland, conosciuta anche come Federazione Centro Africana. La Federazione, che consentì ai coloni bianchi di consolidare il loro potere economico nelle colonie, ebbe la sua capitale a Salisbury, l’odierna Harare, e fu dominata politicamente dalla Rhodesia Meridionale. La Federazione, che durò fino al 1963, vide una rapida espansione economica, con la progressiva industrializzazione della Rhodesia del Sud, che deteneva l’economia più sviluppata dell’Africa Meridionale dopo il Sud Africa. Nel contempo, le regioni della Rhodesia Meridionale assegnate ai neri divennero sovrappopolate, spingendoli a trasferirsi nelle aree urbane. Negli anni Sessanta, la popolazione bianca aumentò, raggiungendo le 220.000 unità. Durante questo periodo, l’opposizione dei neri ai coloni bianchi si ampliò, divenendo molto più attiva e presente. La prima unione africana dei lavoratori si formò negli anni Venti, i movimenti di liberazione negli anni Cinquanta. Al crescere del consenso verso i movimenti ribelli, il governo coloniale divenne progressivamente più repressivo.

I movimenti nazionalisti dello Zimbabwe, ed il loro progetto statuale, non possono essere pienamente compresi senza un’analisi del terreno identitario da cui emersero. Come risultato dei processi di migrazione e di stanziamento nel periodo storico pre-coloniale, lo Zimbabwe si sviluppò socialmente come una comunità multietnica abitata dagli Shangani/Tsonga/Hlengwe nelle zone Sud-Orientali; i Venda nelle aree del Sud e al confine con il Sud Africa; i Tonga nel Nord e al confine con lo Zambia; e i Kalanga, i Sotho-Tswana e i Ndebele nel Sud-Ovest. Il gruppo etnico dominante dal punto di vista numerico, globalmente denominato degli Shona, è sua volta diviso in svariati sottogruppi con altrettanti idiomi. Questo contesto ci permette di affermare che le identità prima del colonialismo erano veramente fluide, permeate da complessi processi di assimilazione, incorporazione, conquista di gruppi etnici più deboli, matrimoni intra etnici, alleanze, frammentazioni e movimenti costanti. Le identità che si cristallizzarono in questo articolato «milieu» appartenevano alla sfera sociale piuttosto che a quella politica, fondandosi, quindi, sulla cultura, sulla sicurezza comune e sull’appartenenza sociale, in opposizione alle identità attinenti la sfera politica mediate dal confronto competitivo sulle risorse e sul potere politico. Sulla fluidità e flessibilità delle identità nel periodo pre-coloniale, Terence Ranger ha affermato che prima del colonialismo l’Africa era caratterizzata dal pluralismo, dalla flessibilità e da identità multiple; dopo questo periodo, concetti quali la tribù, il genere e la generazione furono inclusi in schemi concettuali rigidi. È importante evidenziare che il colonialismo non ha inventato da zero le identità africane, ma le ha irrigidite e politicizzate in svariate modalità. Questo tema ha attratto l’attenzione di Mahmood Mamdani, che ha dimostrato teoricamente ed empiricamente come il colonialismo abbia elaborato una «cittadinanza etnica in Africa». Mamdani ha notato come l’avvento degli insediamenti coloniali abbia comportato la differenziazione della popolazione sulla base dell’appartenenza razziale. Ciò è culminato nello sviluppo di uno Stato Coloniale «biforcuto», che governava i «cittadini», i bianchi, e i «soggetti», i neri, differentemente. I cittadini, i coloni bianchi, erano governati attraverso il potere civile, usufruendo, in questo modo, di tutti i diritti civili e politici. I nativi erano governati attraverso un dispotismo decentralizzato, permeato dalla tradizione, incarnato da un’autorità rurale, solitamente ufficiali coloniali salariati di basso rango. All’interno di questa struttura decentralizzata, gli Africani erano suddivisi in rigidi gruppi etnici.

Nel caso particolare della Rhodesia, la popolazione nativa fu divisa in Europei, Asiatici, di colore e nativi. I nativi furono a loro volta suddivisi in nativi «aborigeni» e nativi «coloniali», i «nativi Mashona» e i «nativi Matabele». Questa classificazione faceva parte di un sistema di «cittadinanza etnica», regolato attraverso una struttura di diritti etnici. La cittadinanza etnica era imposta per mezzo di un sistema nazionale dei documenti d’identità che classificava gli Africani in base al distretto assegnato e al villaggio d’origine. Sotto questo sistema, ogni distretto nativo in Rhodesia era rappresentato da un codice numerico specifico e ad ogni adulto nativo era rilasciato un documento d’identità contenente informazioni dettagliate sul villaggio e distretto d’origine. Lo Stato Coloniale andò oltre, elaborando un sistema salariale e lavorativo differenziato su base etnica: per esempio, gli Shangani erano ritenuti i migliori lavoratori per le miniere; i Ndebele erano ritenuti i migliori caposquadra; mentre i Manyika erano i migliori domestici.

È interessante prendere in esame brevemente anche l’aspetto linguistico. Sia gli storici che i linguisti sono concordi nell’affermare che la standardizzazione del linguaggio nativo abbia contribuito enormemente alla «etnicizzazione». Nel 1919, il Governo Rodesiano commissionò a Clement M. Doke una ricerca sui linguaggi parlati dai nativi con lo scopo di una uniformazione sotto categorie linguistiche monolitiche e omogenee. Il lavoro di Doke culminò con la stesura del Report of the Unification of Shona Dialects nel 1931, creando quella che oggi è chiamata la lingua Shona, e contribuendo indirettamente alla costruzione della «grande identità regionale» Shona, in opposizione all’altra «grande identità regionale», Ndebele. Gerald C. Mazarire ha evidenziato come l’identità Shona sia il risultato di una fusione di caratteristiche linguistiche, culturali e politiche di popolazioni che non si riconoscevano in tale denominazione fino al tardo XIX secolo. Jocelyn Alexander ha descritto l’idea di una identità Shona omogenea come un’etichetta anacronistica applicata a diversi gruppi che non avevano un’unica identità culturale e politica. Le stesse considerazioni possono essere fatte per l’altra identità etnica, la Ndebele, in cui sono confluite le identità Kalanga, Nyubi, Venda, Tonga, Tswana, Sotho, Birwa e Lozwi.

È possibile osservare come il nazionalismo in Zimbabwe si sia fossilizzato sulla falsa frattura tra Shona e Ndebele, con devastanti implicazioni per il progetto di «nation-building» post coloniale.

Secondo molti storici la Federazione Centro Africana, che si sciolse nel 1963, ebbe un ruolo importante per la crescita del nazionalismo africano, ponendolo di fronte ai temi dell’indipendenza e del ruolo che intendeva svolgere in Africa. La Federazione Centro Africana nacque a Londra, durante una conferenza alla Lancaster House, in cui, su precisa richiesta del Primo Ministro Inglese Winston Churchill, fu presente anche un rappresentante dei nativi. Joshua Nkomo, leader del sindacato dei ferrovieri, prese, quindi, parte alla conferenza. Nkomo, rivolgendosi all’assemblea, sostenne il principio della Federazione, aggiungendo, tuttavia, che sarebbe stato difficile accettarne l’idea per la maggioranza nera, se non fossero stati compiuti passi concreti per una sua inclusione paritaria nella società. Le aspettative di Nkomo furono disilluse e, nel contempo, i movimenti insurrezionali presero vigore nella Rhodesia del Nord e nel Nyasaland nel 1957 e nel 1958. Ai due territori furono concesse successivamente due nuove Costituzioni, sebbene ciò non portasse alla fine dei combattimenti.

Per quanto concerne la Rhodesia Meridionale, nel 1957 si era formata una nuova organizzazione, il South Rhodesian African National Congress (SRANC), il cui leader era Joshua Nkomo. Lo SRANC fu il primo partito nazionalista di massa a nascere in Rhodesia. Dal punto di vista ideologico, la nuova formazione era molto moderata, ispirandosi a un conservatorismo liberale anche per le questioni concernenti la cittadinanza e l’indipendenza. A questo proposito, risulta interessante prendere in esame la parte della Dichiarazione dei principi riguardante le identità nazionali: «Il suo scopo è l’unità nazionale di tutti gli abitanti del Paese in una vera partnership senza alcun interesse per la razza, il colore e il credo. È favorevole ad una società completamente integrata, che dia eguali opportunità di miglioramento nella sfera sociale, economica e politica. Esso considera questi obiettivi alla base di una partnership tra le persone di tutte le razze, senza la quale non vi potrebbe essere un progresso pacifico nel Paese».

Il Congresso dello SRANC assicurò la sua completa lealtà alla Corona Inglese, vista come il simbolo dell’unità del Paese, e sostenne la natura non razziale del movimento. Le dichiarazioni del partito erano dirette contro il tribalismo e il razzismo, intendendo accogliere al suo interno membri di ogni gruppo etnico che simpatizzassero con i suoi obiettivi. Lo SRANC riconobbe i diritti di tutti gli abitanti del Paese, europei, asiatici e di colore, che dovevano avere una piena cittadinanza. Il movimento riteneva che una società democratica potesse progredire solamente attraverso un pensiero e un’azione non razziale, conseguentemente, una società integrata rappresentava l’unica alternativa al tribalismo e al razzismo. Sulla cittadinanza, risulta degna di essere letta la relativa parte della Dichiarazione dei principi: «Il Congresso crede che la piena cittadinanza debba essere estesa a tutti coloro, di ogni razza o colore, che siano abitanti permanenti e legittimi del Paese, e che abbiano dimostrato ciò attraverso una residenza e integrazione nella vita della comunità nel corso degli ultimi cinque anni». Le dichiarazioni dello SRANC dimostrano, ancora una volta, quanto la sua linea politica fosse moderata, incentrata soprattutto sul considerare il razzismo il vero ostacolo per la formazione di una nazione integrata. Nonostante la sua agenda politica moderata, lo SRANC subì la dura repressione coloniale, che culminò nella dichiarazione dello stato di emergenza, nella messa al bando del partito e nella detenzione della sua leadership nel 1959.

Nel gennaio del 1960, allo SRANC succedette il National Democratic Party (NDP). L’NDP definì se stesso come un partito politico formato e guidato da Africani. Tra i suoi obiettivi vi era la lotta per l’ottenimento della libertà della popolazione africana della Rhodesia Meridionale e la concessione del voto ad ogni abitante del Paese. Allo stesso tempo, il partito prometteva di lavorare insieme ad altre organizzazioni africane, impegnate per la costruzione e il mantenimento della democrazia in Africa e per la realizzazione del pan-africanismo. Mentre lo SRANC era preoccupato del razzismo, l’NDP enfatizzava il tema «un uomo, un voto», ritenendolo la soluzione per il «problema Rhodesia». Contrariamente allo SRANC, che era una formazione politica prevalentemente urbana, l’NDP aveva una base soprattutto rurale. Dal punto di vista etnico, il nuovo partito era composto, in prevalenza, da nazionalisti di etnia Kalanga, che deteneva al suo interno posizioni chiave; sebbene non sia chiaro quanto questa scelta fosse deliberata, è innegabile che gli appartenenti a questo gruppo ne diedero subito una interpretazione etnica.

L’aspetto etnico divenne ancora più evidente durante le discussioni sul nome post coloniale del Paese; data la forte identità regionale dei Ndebele, alcune popolazioni nel Matabeland immaginavano l’indipendenza politica sulla base dei ricordi dello Stato Ndebele pre-coloniale, opponendosi, per tale ragione, al nome Zimbabwe, che per loro significava una promozione della memoria e della storia Shona. Secondo molti studiosi, gli interessi regionali e le tensioni all’interno del partito indicavano la fragilità dell’emergente nazionalismo territoriale. La frattura all’interno del partito avvenne in parte a causa della questione delle identità regionali, quando un gruppo di nazionalisti Kalanga si distaccò dal NDP formando lo Zimbabwe National Party (ZNP), la prima formazione politica ad usare il nome Zimbabwe per il Paese, nonostante le proteste da parte della regione del Matabeland. Alla nuova formazione politica, bandita nel dicembre del 1961, successe lo Zimbabwe African People’s Union (ZAPU). Lo ZAPU era un partito molto più radicale rispetto all’NDP, infatti inaugurò un periodo di sabotaggi per creare il panico tra i coloni bianchi al fine di ottenere l’indipendenza per gli Africani. Lo ZAPU accentuò il tema «un uomo, un voto», in quanto ritenuto la base per la fondazione di un governo democratico nel Paese, domandando inflessibilmente, inoltre, un governo della maggioranza. Secondo lo studioso Wellington W. Nyangoni, l’aspetto più significativo di questo partito era l’essere la prima formazione politica ad applicare i concetti di imperialismo e pan-africanismo alla liberazione dello Zimbabwe.

La frattura del 1963 ebbe un impatto devastante per la creazione di una comune identità zimbabwiana. Il nuovo partito, lo Zimbabwe African National Union (ZANU), aveva una politica aggressiva, rispetto alla linea riformista e di compromesso dello ZAPU. L’approccio verso il tema dell’appartenenza non era, apparentemente, radicale, infatti lo ZANU si definiva un’unione non razziale di tutte le popolazioni dello Zimbabwe che condividevano un destino comune, che credevano nel carattere africano dello Zimbabwe e nel governo democratico della maggioranza, indipendentemente dalla razza, dal colore, dal credo e dalla tribù. Riguardo al tema della cittadinanza, lo ZANU riteneva che tutte le persone nate in Zimbabwe divenissero automaticamente cittadini della Repubblica, mentre gli stranieri avrebbero potuto ottenere la cittadinanza in base alle leggi dello Stato. Attraverso questa spaccatura, il nazionalismo si sclerotizzò nella forma bipolare ZAPU-ZANU, dietro alla quale si stagliavano le etnie Shona e Ndebele. I due movimenti erano guidati rispettivamente da Joshua Nkomo e da Robert Mugabe.

È interessante notare come, negli anni precedenti l’indipendenza, i partiti continuassero a frammentarsi secondo l’appartenenza etnica, Ndebele versus Kalanga, Kalanga versus Shona, Karanga versus Manyika, e Karanga versus Zezuru.

Gli svariati documenti dei molteplici partiti nazionalisti enfatizzavano tre questioni: l’unità degli Africani, il tema «un uomo, un voto» e l’opposizione al razzismo. Nella realtà, i movimenti nazionalisti rimasero frammentati tra lo ZAPU/ZIPRA (Zimbabwe People’s Revolutionary Army, il braccio armato dello ZAPU), lo ZANU/ZANLA (Zimbabwe African National Liberation Army, il braccio armato dello ZANU), il Front for the Liberation of Zimbabwe (FROLIZI), lo United African National Council (UANC) e molte altre formazioni minori. Questa disgregazione ebbe un impatto molto negativo sulla formazione di una identità nazionale coesa.

Nel 1961, la Gran Bretagna convocò un incontro a Salisbury, in Rhodesia, per discutere del futuro assetto costituzionale del Paese. All’incontro presero parte anche membri del National Democratic Front. L’accordo prevedeva una nuova Costituzione, inclusa una Dichiarazione dei Diritti, una maggiore partecipazione al voto degli Africani e clausole per la protezione dei Rhodesiani non Europei che avrebbero potuto essere abolite soltanto dopo referendum separati per ogni etnia. Il Ministro dell’Economia Ian Smith si dimise in segno di protesta, mentre i membri dell’NDF ritirarono il loro supporto, poiché la Costituzione non garantiva abbastanza concessioni. In ogni modo, la Costituzione fu adottata dal Parlamento e confermata da un referendum.

Nel dicembre del 1963, la Federazione Centro Africana si dissolse, e la Rhodesia Settentrionale e il Nyasaland ottennero l’indipendenza, cambiando i loro nomi rispettivamente in Zambia e Malawi.

Nonostante l’opposizione di Ian Smith, la Rhodesia Meridionale rimase fedele alla Corona Inglese.

Nell’aprile del 1964, Smith divenne Primo Ministro, avendo così la possibilità di perseguire il suo obiettivo primario: l’indipendenza. Il processo di autonomizzazione della Rhodesia ebbe luogo nel 1965, quando il Primo Ministro ne proclamò la completa indipendenza dal Commonwealth Britannico attraverso una Dichiarazione di Indipendenza Unilaterale (Unilateral Declaration of Indipendence). Il nuovo Stato Rhodesiano era dominato dalla minoranza bianca (pari al 7% della popolazione) che introdusse legalmente la segregazione razziale e privò la popolazione nera di ogni diritto politico. Nella Rhodesia 250.000 bianchi dominavano una popolazione nera composta da più di 5.000.000 di persone. Nonostante gli sforzi compiuti dal suo Primo Ministro, la Rhodesia non ottenne riconoscimenti né aiuti da alcun Paese Occidentale.

Il Primo Ministro Inglese Harold Wilson si mosse su più livelli per isolare il regime di Smith, imponendo delle sanzioni economiche e commerciali, seguito in ciò anche dalle Nazioni Unite, per affrettare la caduta del regime razzista.

Molti canali diplomatici rimasero, in ogni modo, aperti finché la Rhodesia non divenne una Repubblica nel 1970.

Nei dieci anni precedenti l’indipendenza, che avvenne nel 1980, il regime di Smith dovette confrontarsi con la guerriglia organizzata sia dallo ZANU che dallo ZAPU. Entrambe le formazioni politiche ricevettero aiuti militari dall’Unione Sovietica, dall’Europa Orientale, da Cuba e dalla Cina, oltre al supporto fornito dai compagni africani nel continente. Per questa ragione, il blocco socialista ebbe un durevole impatto sui movimenti di liberazione; infatti, è possibile osservare come, sotto l’influenza del blocco dei Paesi dell’Est Europa che avevano un sistema politico monopartitico, le dichiarazioni e la propaganda dello ZANU, durante gli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, enfatizzassero la necessità di creare in Zimbabwe uno stato socialista con un solo partito. È significativo che, ancora oggi, lo ZANU-PF governi lo Zimbabwe come fosse vigente un sistema politico a partito unico. Dal punto di vista formale, lo ZANU e lo ZAPU facevano parte del Patriotic Front (PF), in ottemperanza alla dichiarazione di unità del 1974.

È importante soffermarsi sulle caratteristiche salienti dello ZANU-PF guidato da Robert Mugabe, essendo tale analisi utile per comprendere il comportamento politico attuale del Governo verso l’opposizione e verso temi quali il costituzionalismo, la democrazia e i diritti umani.

Il condurre una lotta armata contro uno Stato Coloniale belligerante ha lasciato dei segni significativi sullo ZANU-PF e sullo Stato da esso creato nel 1980. La prima caratteristica fu la militarizzazione del movimento di liberazione, con lo sviluppo di un approccio autoritario. La seconda fu il predominio del leader del partito all’interno del movimento di liberazione, che gradualmente evolse verso il culto della personalità. La terza fu il metodo militaristico che non ammetteva alcun dissenso. La quarta fu la costruzione di un’alleanza militari-nazionalisti che è viva tuttora, in quanto i più alti gradi dell’esercito sono membri leali dello ZANU-PF. L’aspetto finale fu lo sviluppo di una cultura della violenza come mezzo legittimo per conseguire obiettivi politici. La genesi di un partito politico sembra avere una relazione con il futuro sviluppo di quella formazione politica; nel caso dello Zimbabwe, è possibile notare come il movimento di liberazione ZANU-PF, che sperimentò una brutale guerra civile, abbia utilizzato dopo l’indipendenza tattiche di guerriglia per instillare la paura nell’elettorato così da vincere le elezioni.

Da non sottovalutare la motivazione etnica della violenza; infatti, durante la guerra di indipendenza, lo ZANU-PF impiegò una brutale e deliberata coercizione anche dal punto di vista etnico-linguistico, poiché impose la lingua Shona agli altri gruppi etnici della Rhodesia.

Nel 1978, Smith siglò un accordo con tre leader moderati, guidati dal Vescovo Anglicano Abel Muzorewa dell’United African National Council, accordo che portò alla creazione di una entità statale nota come Zimbabwe-Rhodesia e alla realizzazione di un governo di unità nazionale. Una coalizione di governo fu formata tra il Rhodesian Front di Smith e il partito di Muzorewa, che divenne Primo Ministro.

L’Esecutivo dello Zimbabwe-Rhodesia fallì nell’ottenere il supporto della popolazione, tanto che nel 1979 l’Inghilterra riprese il controllo del Paese.

Sotto la supervisione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, nel 1979 fu siglato l’accordo di Lancaster House che portò lo Zimbabwe all’indipendenza.

La completa indipendenza del Paese avvenne nel 1980, seguita dall’adozione di una Costituzione contenente una Carta dei diritti, che sostituiva i precedenti statuti del 1961 sui quali si era arroccata la minoranza bianca al potere. Dopo l’indipendenza, la Costituzione fu soggetta a svariati cambiamenti, come l’abolizione dei seggi riservati ai bianchi in Parlamento e l’incremento dei poteri del Presidente.

La campagna elettorale vide la vittoria dello ZANU-PF di Robert Mugabe. Joshua Nkomo entrò a far parte del Gabinetto per un breve periodo, poiché nel 1982 fu accusato da Mugabe di voler rovesciare l’Esecutivo. Si scatenò una lotta violenta tra lo ZANU e lo ZAPU, che generò massacri e atrocità contro la popolazione civile nelle regioni del Midlands e del Matabeland, in cui la Quinta Brigata, sotto la direzione di Mugabe, si scagliò contro i civili imponendo un embargo sul cibo e torturando i residenti, con l’intento di annientare lo ZAPU e tutti i sostenitori di Nkomo. La guerra civile fu anche un conflitto inter-etnico, poiché le popolazioni del Midlands e del Matabeland appartenevano a minoranze etniche che parlavano la lingua Ndebele, sostenitrici dello ZAPU di Joshua Nkomo.

Dopo sette anni di guerra civile, intimidazioni e violazioni dei diritti umani, nel 1987 lo ZAPU fu assorbito dallo ZANU-PF.

Alcuni storici affermano che il nuovo Governo dello Zimbabwe abbia ereditato, nel 1980, dal precedente Stato principalmente la politica economica, in realtà, esso ereditò il potere dello Stato Coloniale: il monopolio dell’uso della forza, e di conseguenza il potere sulla sicurezza e il potere legislativo. Ereditò, inoltre, strutture di sorveglianza consolidate e particolarmente efficienti: l’Organizzazione Centrale di Intelligence, e lo Special Branch/CID all’interno della Polizia Britannica del Sud Africa, ricostituita come Polizia della Repubblica dello Zimbabwe. Infine, divenne erede dell’uso della forza in modo asimmetrico e sproporzionato nelle relazioni con l’opposizione e con ogni forma di dissenso in generale.

Dal punto di vista istituzionale, il Parlamento non ebbe più un ruolo cardine, poiché nel 1984 Mugabe fu eletto capo di un Politburo per il controllo della politica governativa, riservandosi il diritto di nominare tutti i membri di tale istituzione. Nel 1987, Mugabe cambiò la Costituzione, divenendo Presidente con poteri esecutivi.

Sotto il profilo economico, si evidenziò un declino dagli inizi degli anni Novanta, quando lo Zimbabwe aderì all’Economic Structural Adjustment Programme (ESAP), ispirato dal Fondo Monetario Internazionale, che portò ad una rapida de-industrializzazione, ad un incremento della disoccupazione e ad una notevole erosione degli standard di vita della popolazione. La situazione economica non fu certamente aiutata dalla decisione del Presidente, nell’ottobre del 1997, di elargire pensioni e benefit ai veterani della guerra di liberazione. Inoltre, nel 1998, Mugabe inviò delle truppe in appoggio al Governo di Laurent Kabila nella Repubblica Democratica del Congo. Entrambe le decisioni ebbero un impatto negativo sul fisco e sull’economia del Paese. Non meno grave, per la struttura economica dello Zimbabwe, l’esproprio dei latifondi dei bianchi, accompagnato da violenze e soprusi, che li costrinse all’emigrazione, portando via dal Paese ingenti risorse finanziarie. La crisi si accentuò in modo drammatico per la drastica riforma agraria attuata da Mugabe nel 2000: i proprietari bianchi che ancora possedevano il 70% delle terre furono espropriati senza indennizzo e i terreni redistribuiti, spesso secondo criteri puramente clientelari e a persone prive di esperienza nella gestione di unità agricole. Il risultato è stato che la produzione agricola è crollata, aggravando la crisi.

Un altro aspetto che sta deteriorando la vita della popolazione è l’estrema diffusione dell’AIDS.

L’erosione dei diritti individuali è stata accompagnata dalla militarizzazione dello stato, la sovversione del sistema giudiziario, con il conseguente indebolimento dei tribunali del Paese, in aggiunta ad una palese violazione dei diritti umani. Una prova ulteriore della violenza insita nell’azione governativa è stata la distruzione degli alloggi di fortuna urbani della parte più povera della popolazione, durante la controversa operazione «Murambatsvina», che ha lasciato centinaia di migliaia di persone senza un riparo e senza risorse.

Nel 2000, il Governo dello Zimbabwe redasse un abbozzo di Costituzione che fu sottoposto a referendum nel febbraio dello stesso anno. Inaspettatamente, l’Esecutivo perse il referendum. Fu in questo periodo che prese forma il Movement of Democratic Change (MDC), guidato dal sindacalista Morgan Tsvangirai, che si oppose al disegno costituzionale.

Dopo aver perso il referendum, lo ZANU iniziò a mobilitarsi per evitare simili risultati nelle future elezioni politiche. Concretamente, quando i veterani della guerra di liberazione cominciarono ad occupare con la forza le aziende agricole dei bianchi, ricevettero il pieno appoggio del Governo, che intendeva così dare una svolta alle sue fortune politiche. La Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Europea imposero delle sanzioni economiche.

Dato che le elezioni presidenziali del 2008 non avevano un chiaro vincitore, fu siglato un accordo per la formazione di un Governo di Unità Nazionale (Government of National Unity). Il Global Political Agreement portò alla redazione dell’emendamento numero 19 della Costituzione, che istituzionalizzò la figura del Primo Ministro e di due aggiunti Primi Ministri, descrivendo, inoltre, le loro funzioni, i poteri condivisi e le prerogative dell’Esecutivo. Come tutti i documenti frutto di un compromesso, il Global Political Agreement non sfugge alla vaghezza su temi rivelatesi cruciali. Mentre l’MDC ha tentato di introdurre un meccanismo per cui coloro che avevano violato i diritti umani dovevano essere posti di fronte alle loro responsabilità, lo ZANU-PF ha preferito mettere una pietra sul passato per favorire la stabilità nazionale; infatti, il Global Political Agreement è approssimativo sulla giustizia nel periodo di transizione, giustizia intensa nel suo senso più ampio, cioè come mezzo di «cicatrizzazione» delle ferite del Paese. Inoltre, l’accordo non ha esplicitato la riforma del settore della sicurezza, nonostante la palese «securitizzazione» dello Stato e gli abusi degli organi di sicurezza statuali nel risolvere i giochi di potere politici. La questione della terra ha continuato ad essere fonte di contenziosi, poiché non è stato raggiunto un accordo sulla razionalizzazione della riforma. Un’altra complicazione concerne la problematica condivisione dei poteri esecutivi tra il Presidente e il Primo Ministro, che sta provocando timori riguardo al nascere di un «Governo senza Governo» o di una struttura parallela nell’ufficio del Primo Ministro.

Nel 2009, è stato finalmente realizzato il governo di unità nazionale; Mugabe ne è divenuto Presidente, Morgan Tsvangirai ha assunto la carica di Primo Ministro, Arthur Mutambara e Thokozani Khupe sono stati nominati aggiunti Primi Ministri. Sono stati incaricati anche due Vice-Presidenti, Joyce Mujuru e John Landa Nkomo.

La nuova Costituzione, approvata nel 2013, ha fornito un quadro normativo a supporto della società civile, che è, tuttavia, ostacolata da una mancanza di visione strategica da parte dell’Esecutivo.

Le elezioni del 2013 hanno visto perdente l’opposizione, infatti il Movement for Democratic Change si è frammentato, disponendo, inoltre, di risorse limitate.

Nel dicembre 2014, la Vice-Presidente Joyce Mujuru è stata privata della sua carica in favore di Emmerson Mnangagwa, il suo rivale. Da allora, più di 140 funzionari del partito a livello nazionale e provinciale, legati alla Mujuru, sono stati sospesi o espulsi dallo ZANU-PF, così come nove dei dieci presidenti provinciali, membri del Gabinetto e del Politburo.

Le ambizioni politiche di Mnangagwa di succedere a Mugabe sono frenate dalla presenza del gruppo della Generazione 40 (G40), costituito da persone di una generazione più giovane facenti capo alla potente «first lady», Grace Mugabe, il cui ruolo pubblico ha avuto inizio nel 2014, quando è divenuta, con il sostegno del marito, la Presidente della Lega delle Donne dello ZANU-PF. Le lotte tra le due fazioni si sono intensificate agli inizi del 2016, evidenziando, apparentemente, la debolezza della posizione di Mnangagwa.

Le incertezze politica ed economica stanno peggiorando le condizioni dello Zimbabwe, aggravate dall’insolvenza finanziaria, dalla siccità e dall’insicurezza sugli approvvigionamenti di cibo. Le istituzioni finanziarie internazionali premono affinché il Governo divenga più responsabile, esprima chiaramente una visione coerente e intraprenda delle azioni che vadano oltre il potere del partito, di una fazione o di una persona. È importante evidenziare che nel Governo attuale molti membri sono palesemente ostili all’idea di riallacciare i rapporti con le istituzioni finanziarie e i Paesi Occidentali.

Il Partito ZANU-PF al governo ha consolidato il suo potere, ma è consumato al suo interno dalle lotte per la successione di Mugabe, che ha raggiunto i 92 anni. La Costituzione del partito non è chiara riguardo alla selezione di un nuovo leader, e per estensione di un Presidente, nel caso Mugabe divenisse incapace o morisse durante il suo incarico.

I deficit nell’ambito della «governance», la violenza politica, la corruzione, la riforma elettorale, le violazioni dei diritti umani e dello stato di diritto sono le complesse sfide che il Governo dovrà affrontare nel breve periodo.

Attualmente, lo Zimbabwe si trova come in un limbo, sospeso tra la lenta morte del colonialismo e l’ancora più lenta nascita di un ethos della liberazione veramente democratico, una situazione di stasi che non permette la realizzazione di un progetto di ricostruzione nazionale capace di superare le laceranti divisioni etniche.

Ragazzina in Musina

Fotografia di Robin Hammond: una ragazzina in un rifugio di Musina, sul confine tra Sud Africa e Zimbabwe

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(agosto 2016)

Tag: Daniela Franceschi, Rhodesia Meridionale, Zimbabwe, Africa, Robert Mugabe, Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (ZANU-PF), decolonizzazione, Inghilterra, guerra civile, AIDS, storia dello Zimbabwe.