Sudan: le ragioni storiche della contrapposizione Nord-Sud
Da una unità carica di problemi alla nascita di un nuovo Stato

I recenti scontri politici ed etnici in Sud Sudan, resosi indipendente dal Sudan nel 2011, fra le etnie Dinka e Nuer, ci dimostrano la complessità etnica di tale area dell’Africa. Tuttavia, prima dell’indipendenza della Repubblica del Sudan del Sud, la contrapposizione maggiore ha riguardato il Nord e il Sud del Paese, caratterizzati da notevoli differenze a livello religioso, etnico e culturale. Ad un Nord abitato da popolazioni arabe e di fede islamica si contrapponeva un Sud cristiano e animista di lingua inglese.

Non è possibile comprendere tale opposizione se non analizzando la storia del Sudan, con una particolare attenzione alle dinamiche politiche e istituzionali.

La diffusione dell’Islam nella parte Nord del Sudan fu un processo graduale, avente inizio nel VII secolo e culminato con la completa arabizzazione e islamizzazione dell’area nel XIV secolo, quando si formarono tre Stati musulmani: il Sennar sul Nilo Blu; il Kordofan nel Centro, ad Ovest del Nilo Bianco; il Darfur nell’Ovest. La penetrazione araba nel Sud del Sudan non avvenne se non agli inizi del XIX secolo, infatti, fino ad allora la popolazione del Sud aveva avuto pochissimi contatti non solo con il Nord ma anche con il resto del mondo, a causa della conformazione geografica della regione.

Il conflitto Nord-Sud in Sudan trae la sua origine dal passato coloniale della Nazione. Come molti territori nel continente africano, i confini del Sudan furono definiti dal regime coloniale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

La prima forma di Governo centralizzato fu istituita durante il dominio turco-egiziano, durato dal 1820 al 1882, che, con il pieno controllo di più della metà del Nord del Sudan, riuscì a penetrare agevolmente anche nella parte meridionale del Paese, instaurando un commercio di schiavi e d’avorio di ampio raggio.

La dominazione turco-egiziana ebbe termine nel 1882, quando il Nord si ribellò sotto la leadership di Mohammed Ahmed ibn-Sayyid Abdallah, che si faceva chiamare Mahdi, salvatore o redentore, del Sudan. La Gran Bretagna, che aveva occupato l’Egitto nello stesso anno, cercò invano di arrestarne l’avanzata inviando delle truppe. Nel 1885, le forze del Mahdi occuparono Khartoum, dopo aver sconfitto il reggimento del Generale Inglese Charles Gordon, instaurando il primo Stato Teocratico Islamico del Sudan.

Dal punto di vista istituzionale e culturale, il Governo del Mahdi si caratterizzò per l’adozione della legge coranica e l’imposizione della religione islamica e della lingua araba, utilizzando l’Islam come forza di unificazione dello Stato.

Nel 1898, l’Inghilterra riuscì a conquistare il Sudan, eliminando lo Stato indipendente del Mahdi che costituiva un ostacolo al progetto inglese di unificare i territori posseduti dal Cairo a Città del Capo.

Nei primi due decenni di dominazione inglese, si ebbe una prima divisione fra Nord e Sud per quanto concerneva lo sviluppo economico e culturale, infatti, le infrastrutture, il sistema scolastico e un’agricoltura meccanizzata su larga scala furono sviluppati nelle regioni del Nord, tralasciando le regioni del Sud.

La divisione geografica Nord-Sud fu istituita formalmente nel 1922, quando la Gran Bretagna adottò un diverso sistema amministrativo per le regioni meridionali, suddividendole nelle tre province di Equatoria, Bahr el Ghazal e Alto Nilo. Nello stesso anno, l’adozione del Passports and Permits Ordinance Act sottopose la circolazione dei cittadini tra Nord e Sud a severe restrizioni.

Nel 1930 la Southern Policy delineò un diverso sviluppo amministrativo e culturale per il Nord e il Sud dello Stato, che si concretizzò principalmente nella proibizione della lingua araba e della religione islamica e nel contemporaneo incoraggiamento della lingua inglese e della religione cristiana nel Sud. La Southern Policy era funzionale agli interessi dell’Inghilterra, che intendeva prevenire una crescente influenza dell’Islam e degli Arabi, preparare le regioni meridionali ad una eventuale integrazione nella federazione britannica dell’Africa Orientale e controllare le risorse lungo tutto il Nilo.

Sotto la pressione del movimento di liberazione nel Nord del Paese, l’Inghilterra iniziò a cancellare progressivamente la Southern Policy un decennio prima dell’indipendenza del Sudan, avvenuta nel 1956. Nel concreto, ogni divieto di circolazione dei cittadini fra Nord e Sud fu abolito e la lingua araba fu imposta come lingua ufficiale sia nell’amministrazione sia nel sistema scolastico. In un breve lasso di tempo, gli abitanti arabi del Nord monopolizzarono le maggiori istituzioni, l’amministrazione, l’economia, il sistema scolastico e la sicurezza. Inevitabilmente, le popolazioni delle regioni meridionali si opposero alla nuova linea politica, temendo una nuova dominazione del Nord arabo e islamico.

Nei primi anni Cinquanta, i negoziati per l’autodeterminazione provarono che i timori degli abitanti cristiani e animisti del Sud erano fondati, infatti, essi furono estromessi dalle trattative, inoltre, ogni promessa riguardante la creazione di un sistema federale che regolasse le relazioni fra Nord e Sud fu disattesa. Il movimento indipendentista del Sud iniziò nel 1955, pochi mesi prima dell’indipendenza del Sudan dalla Gran Bretagna, quando un reggimento si ammutinò nella città di Torit. Tuttavia, non fu prima del 1962 che il Sudan African National Union organizzò una resistenza armata conosciuta come «Anyanya».

L’élite araba del Sudan indipendente continuò con vigore il processo di arabizzazione e islamizzazione del Sud con nessun riguardo per le popolazioni non arabe e non musulmane delle regioni meridionali dello Stato; il Governo centrale, specialmente durante il regime militare di Abboud (1958-1964), adottò e mise in pratica delle politiche che minarono l’identità, la cultura e i costumi degli abitanti del Sud. La lingua araba e l’Islam furono imposti con la forza, le scuole e le missioni cristiane furono chiuse e successivamente i missionari espulsi dal Paese.

Tutto ciò produsse un’accelerazione della guerra di secessione nel Sud. L’«Anyanya» diffuse la resistenza in tutta la regione. Alla fine del 1960, il tenente Joseph Lagu riunì nel Southern Sudan Liberation Movement delle truppe prima disgregate.

I Governi civili che seguirono al regime militare di Abboud adottarono la sua stessa politica di islamizzazione, non facendo mistero dell’intenzione di far diventare musulmana l’intera Nazione. Sadig el Mahdi, divenuto Primo Ministro nel 1966, affermò che «l’Islam ha una missione sacra in Africa e il Sud del Sudan è l’inizio di questa missione [traduzione italiana]».

La non volontà e l’inadeguatezza dei Governi nel risolvere la crisi politica nel Sud e la grave condizione economica della Nazione generarono un fortissimo malcontento popolare, che costituì la giustificazione per il colpo di Stato del 1969 ad opera del colonnello Jaafar Nimeiri. Alleato del Partito Comunista, il regime di Nimeiri si presentava come un Governo progressista, il cui fine ultimo era la liberazione del Sudan dalla dipendenza economica tramite l’adozione di un modello di sviluppo non capitalistico, noto anche come Socialismo Sudanese. Il Regime soppresse tutti i Partiti tradizionali, istituendo un Partito unico di Stato, l’Unione Socialista del Sudan. Dal punto di vista economico, tutti i settori strategici dell’economia furono nazionalizzati. Il Sudan entrò quindi nella sfera di influenza della Russia, ricevendone istruttori militari e armi.

Il rapporto positivo con l’ideologia socialista non ebbe una lunga durata, infatti, nel 1971, dopo il fallito colpo di Stato organizzato dai comunisti alleatisi con truppe scontente dell’esercito, Nimeiri fece espellere dal Governo i comunisti e i loro simpatizzanti, molti dei quali furono imprigionati e giustiziati. In seguito, il sistema socialista di sviluppo fu sostituito da un sistema capitalistico di libero mercato.

Riguardo alla guerra civile con il Sud del Paese, Nimeiri giunse alla conclusione che né le forze governative né le forze della guerriglia avrebbero mai potuto giungere ad una vittoria definitiva, quindi soltanto dei negoziati politici sarebbero stati in grado di porre fine ad un conflitto che aveva già provocato un milione di morti.

Le ostilità ebbero termine nel 1972 con la stipula dell’Addis Abeba Agreement[1], che concedeva al Sud ampia autonomia legislativa, l’istituzione di un’Assemblea elettiva e un Governo esecutivo responsabile per la maggior parte delle questioni interne, eccetto la difesa nazionale, la politica estera e la programmazione nazionale. L’Accordo riconosceva le credenze, la lingua e le leggi tradizionali del Sud del Paese, inoltre affermava la pari dignità tra l’Islam, il Cristianesimo e le credenze religiose tradizionali della popolazione delle regioni meridionali. Si prevedeva, inoltre, l’inserimento delle forze della guerriglia nell’esercito governativo, il reinsediamento dei profughi nelle terre d’origine e la creazione di nuove opportunità di sviluppo.

L’Addis Abeba Agreement fu un importante evento nella storia del Sudan post-coloniale, poiché dimostrava come l’unità nazionale fosse possibile nella diversità.

Tuttavia, nel Sud del Sudan, nonostante un periodo di relativa pace e stabilità, la povertà, le malattie e l’analfabetismo rimanevano le piaghe principali che non erano state sanate da alcun sviluppo economico e sociale. Il Governo centrale aveva fallito nell’ideare dei progetti di sviluppo industriale e culturale non supportati dalle necessarie infrastrutture.

Un altro motivo di forte contrasto era rilevabile nella scoperta dei giacimenti petroliferi a Bentiu, nel distretto dell’Alto Nilo, del cui possesso e sfruttamento il Sud fu privato da parte del Governo centrale, in aperta violazione dell’Accordo di Addis Abeba.

Un altro punto nevralgico nella controversia Nord-Sud concerneva le acque dell’Alto Nilo, la cui canalizzazione, che doveva attuarsi attraverso un progetto molto ambizioso, avrebbe comportato importanti benefici esclusivamente per l’agricoltura del Nord del Paese.

È interessante rilevare che, al diminuire del supporto politico nel Nord e nel Sud dello Stato, Nimeiri reagì alleandosi con la Fratellanza Musulmana, una forza politica da sempre contraria ad ogni forma di auto-determinazione del Sud. Questa alleanza di comodo non fece che inasprire la tensione esistente con la parte meridionale del Paese.

Nel 1983 l’Addis Abeba Agreement fu formalmente abrogato, inoltre, nel settembre dello stesso anno fu imposta la Shari’a a tutta la Nazione, la parità uomo-donna soppressa, la Costituzione laica scalzata dalle Corti Islamiche.

Il Sud fu privato dell’autonomia concessa in base all’Addis Abeba Agreement e suddiviso in tre macro-regioni.

Data la situazione di alta tensione non sorprende che, nello stesso anno dell’abrogazione dell’Accordo, si formasse una nuova guerriglia guidata dal colonnello John Garang de Mabior, di etnia Dinka, l’etnia più numerosa del Sud, che fondò il Sudan People’s Liberation Movement, da cui scaturì il Sudan People’s Liberation Army.

Oltre ad una seconda guerra civile, il Sudan dovette affrontare nei primi anni Ottanta un periodo di carestia e siccità che minò notevolmente la condizione socio-economica della popolazione.

Nell’aprile del 1985 una serie di manifestazioni e scioperi organizzati dai sindacati, dai lavoratori e dagli studenti permisero ai militari di deporre Nimeiri. Dopo un breve periodo di Governo militare, nel 1986 si tennero le elezioni che decretarono il successo del Partito Umma. Il Parlamento affidò a Sadiq al Mahdi, leader del Partito vincitore, il compito di formare un nuovo Governo. Mahdi divenne Primo Ministro per la seconda volta.

Dal punto di vista istituzionale, sembrava che il Sudan avesse intrapreso un cammino democratico, che si concretizzava nell’esistenza di un sistema politico multipartitico, di sindacati autonomi, di organizzazioni di diritti civili e di giornali indipendenti.

Mahdi appariva intenzionato a trovare una soluzione politica alla guerra civile esistente, infatti, subito dopo le elezioni, aveva incontrato John Garang, leader del People’s Liberation Movement. Tuttavia, entro un breve lasso di tempo, la sua posizione politica si caratterizzò per la stretta vicinanza al National Islamic Front, più che al Democratic Unionist Party, il maggior partner della sua coalizione di Governo, patrocinatore di svariati sforzi per trovare una soluzione politica alla guerra civile. È importante ricordare che nel 1988 Mohamed Osman al-Mirghani, leader del Democratic Unionist Party, aveva incontrato John Garang in Etiopia, negoziando un accordo di pace che prevedeva un immediato cessate il fuoco, un’Assemblea Costituzionale, la soppressione della Shari’a e la creazione di un Governo di unità nazionale cui avrebbe partecipato anche il People’s Liberation Movement.

L’accordo aveva ottenuto l’appoggio dell’esercito, dei sindacati e di tutti i partiti politici, eccetto il Partito di Madhi e il National Islamic Front. La mancata approvazione dell’Accordo da parte del Parlamento e del Primo Ministro spinse il Democratic Unionist Party a lasciare la coalizione di Governo.

Mahdi non solo non riuscì a trovare una soluzione politica alla guerra civile in corso ma, con la finalità di combattere i ribelli del People’s Liberation Movement Army, l’aggravò armando le milizie tribali di lingua araba nelle zone meridionali del Kordofan e del Darfur, tradizionalmente aree di scontro fra i residenti arabi e le comunità non arabe. Equipaggiate con armi moderne, le milizie tribali non si impegnarono nel combattere i ribelli, ma si abbandonarono a saccheggi ed atrocità contro le tribù non arabe, specialmente di etnia Dinka, bruciando villaggi, uccidendo civili innocenti e rapendo ragazzi e ragazze per venderli come schiavi nel Nord. Nella maggior parte dei casi, le milizie compirono questi crimini con l’appoggio dell’esercito regolare e delle autorità locali.

Alla fine degli anni Ottanta la situazione economica del Sudan era stata gravemente danneggiata dagli anni di guerra civile, che aveva assorbito fino al 25% del budget governativo.

Nel 1989, un colpo di Stato capitanato da ufficiali islamici, con l’appoggio del National Islamic Front, rovesciò il Governo di Mahdi.

Il nuovo Regime, guidato dal Generale Omar Al-Bashir, si caratterizzò per una ulteriore intensificazione della guerra civile, ottenendo importanti aiuti militari da Paesi come la Libia e l’Iran. Dal punto di vista della politica interna, è possibile notare come vi sia stata una compressione delle libertà civili, infatti, furono chiusi i giornali indipendenti, soppressi i sindacati e le organizzazioni dei diritti civili ed espulsi dal sistema amministrativo e scolastico tutti coloro che erano laici o appartenenti a Partiti di Sinistra.

Il predominio del National Islamic Front fu evidente allorquando fu riaffermata la validità della Shari’a e l’intenzione di rendere il Sudan uno Stato completamente islamico.

La violazione dei diritti politici e civili da parte del Governo del National Islamic Front non si limitava alle popolazioni non musulmane del Sud, infatti, si rivolse anche verso i Beja, una minoranza che pratica un Islam tollerante che si fonde con le credenze tradizionali, e i Nuba, per la maggior parte di fede musulmana.

La continua violazione dei diritti umani della popolazione e gli ulteriori sforzi per applicare un Islam intransigente isolarono, dal punto di vista internazionale, il Paese.

Nonostante l’intransigenza del Governo di Khartoum nel rivendicare un Sudan totalmente musulmano, si sono verificati successivamente importanti passi diplomatici che hanno portato all’indipendenza formale della parte meridionale del Sudan. Dopo anni di violenta guerra civile, che aveva causato profughi, morti e dissesti economici, era chiaramente impossibile per il Governo centrale adottare ancora per lungo tempo soltanto l’opzione della repressione militare.

Un ruolo molto importante durante i complessi negoziati è stato svolto dall’Inter-Governmental Authority on Development, composto da sette Stati del Corno d’Africa, Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Uganda, Eritrea e lo stesso Sudan, che ha promosso numerosi tentativi di pacificazione durante la guerra civile.

Nel maggio del 1994, si giunse ad una Dichiarazione di principi che affermava il diritto all’autodeterminazione delle popolazioni del Sud del Sudan, da attuarsi tramite un referendum. La priorità delle parti rimaneva l’unità del Paese, qualora fossero stati garantiti taluni principi, quali l’autonomia alle diverse etnie del Sudan, la separazione fra Stato e religione, un’equa distribuzione delle risorse disponibili e l’inserimento dei diritti umani internazionalmente riconosciuti nella Costituzione. La Dichiarazione non ebbe effetti pratici, poiché il Governo centrale non l’attuò, benché l’avesse firmata nel 1997.

Nel 2002, si pervenne alla stipula del Machakos Protocol tra il Governo del Sudan e le forze del People’s Liberation Movement Army-United; il Protocollo prevedeva nuovamente l’auto-determinazione per le popolazioni del Sud del Sudan, pur riaffermando il principio dell’unità dello Stato, su cui le parti si impegnavano a firmare ed attuare un Accordo di pace per rendere la sopraccitata opzione desiderabile per le popolazioni dell’area meridionale. Per quanto concerneva la religione, un aspetto di divisione molto rilevante, fu sancita la libertà di culto, inoltre fu deciso che la Shari’a fosse una fonte legislativa solo nel Nord del Sudan, mentre nelle regioni meridionali la Legislazione si sarebbe basata sul consenso popolare e sulle tradizioni locali.

Il Protocollo di Machakos ha rappresentato un punto di svolta nelle relazioni fra il Governo di Khartoum e le forze del People’s Liberation Movement Army-United, infatti quest’ultimo ha accettato che la Shari’a fosse la Legislazione vigente nel Nord, e allo stesso tempo, il Governo centrale ha acconsentito allo svolgimento di un referendum per la concessione dell’indipendenza.

Successivamente, furono stipulati altri cinque Accordi che costituirono il Comprehensive Peace Agreement tra il Governo del Sudan ed il People’s Liberation Movement Army-United, firmato il 9 gennaio 2005. L’Accordo di pace comprendeva: il Machakos Protocol; l’Agreement on Security Arrangements, firmato il 25 settembre 2003; l’Agreement on Wealth Sharing, firmato il 7 gennaio 2004; il Protocol on Power Sharing, del 26 maggio 2004; il Protocol on the Resolution of the Conflict in Southern Kordofan and Blue Nile States, del 26 maggio 2004; il Protocol on the Resolution of the Abyei Conflict, del 26 maggio 2004. Ai suddetti Protocolli si sono aggiunti due Accordi tecnici: l’Agreement on a Permanent Ceasefire and Security Arrangements Implementation Modalities and Appendices, del 31 dicembre 2004; e l’Agreement on the Implementation Modalities of the Protocols and Agreements, del 31 dicembre 2004[2].

L’Accordo di pace delineava il processo che avrebbe condotto allo svolgimento del referendum per l’indipendenza nelle regioni meridionali.

Il referendum, svoltosi il 9 gennaio 2011, ha visto un’elevata partecipazione al voto e la vittoria dell’opzione favorevole all’indipendenza, che ha ottenuto il 98,83% dei voti[3]. La votazione, che ha avuto l’importante sostegno logistico e tecnico delle Nazioni Unite, è stata giudicata «free and fair» dagli osservatori internazionali e dall’ONU. È importante osservare che, secondo l’articolo 41 del Southern Sudan Referendum Act del 2009, il risultato del referendum sarebbe stato vincolante nei confronti degli organi dello Stato e delle popolazioni del Nord e del Sud, inoltre avrebbe avuto validità soltanto se si fosse recato alle urne il 60% dei votanti registrati, mentre l’opzione vincente sarebbe stata quella che avesse ottenuto la maggioranza semplice dei voti.

Il Sud Sudan ha dichiarato la propria indipendenza il 9 luglio del 2011 ed è divenuto membro delle Nazioni Unite il 14 luglio dello stesso anno.

I rapporti tra il Sudan e il Sud Sudan sono ancora oggi conflittuali, permanendo irrisolte problematiche significative riguardanti la determinazione dei confini, la gestione delle risorse petrolifere e lo status della zona di Abyei, ricca di giacimenti minerari, al confine tra i due Stati.

La storia del Sudan ci permette di comprendere maggiormente la complessa condizione di quei Paesi africani definibili come «Stati multipli», che si caratterizzano per una eterogeneità etno-religiosa molto rilevante.

Solo una leadership politica veramente intenzionata a rispettare le differenze e a dare attuazione pratica al principio dell’unità nazionale nella diversità, realizzando delle adeguate politiche di inclusione, può evitare la guerra civile e la conseguente disgregazione dello Stato.


Bibliografia

J. Bennett, The Hunger Machine, Cambridge, Polity Press, 1987

O. M. Beshir, Ethnicity, Regionalism and the National Cohesion in Sudan, in The Sudan: Ethnicity and National Cohesion, Bayreuth African Studies Series, Bayreuth University, Germany, 1984

G. Brooks, Post-war Promise: Africas Newest Nation, Little Eritrea Emerges as an Oasis of Civility, «The Wall Street Journal», 31 May 1994

D. Curtis, G. A. Dzinesa, A. Adebajo, Peacebuilding, Power, and Politics in Africa, Ohio, University Press, 2012

A. Deng, Self-Determination and Unity: The Case of Sudan, in «Law and Policy», 1996

F. M. Deng, Tradition and Modernization: A Challenge for Law Among the Dinka of Sudan, New Haven, Yale University Press, 1987

F. M. Deng, P. Gifford, The Search for Peace and Unity in the Sudan, Washington, D. C., The Wilson Center Press, 1987

J. Garang, John Garang Speaks, London, Kegan Paul International, 1987

C. Gurdon, Sudan at the Crossroads, Cambridgeshire, Middle East and North Africa Studies Press, 1984

K. Kees, Nuba Nation of Sudan Being Extinguished, «Trou» (Dutch Daily), 17 February 1995

Human Rights Watch, Government of Sudan and Rebel Forces Both Guilty of Abuses Against Children, New York, 9 September 1996

Y. Kurita, The Social Base of Regional Movements in the Sudan, 1960s-1980s, in Ethnicity and Conflict in the Horn of Africa, edited by Kattsuyoshi Fuki and John Markakis, London, James Curry, 1994

A. Lesch, Khartoum Diary, «Middle East Report», November-December, 1989

B. Malwal, The Sudan: A Second Challenge to Nationhood, New York, Thornton Books, 1985

J. Markakis, National and Class Conflict in the Horn of Africa, Cambridge, Cambridge University Press, 1987

M. Maywald, Subnational Constitution-Making in Southern Sudan, in «Rutgers LJ», 2005-2006

M. A. Salih, The Ideology of the Dinka and the Sudan People’s Liberation Movement, in Ethnicity and Conflict in the Horn of Africa, edited by Kattsuyoshi Fuki and John Markakis, London, James Curry, 1994

H. Verhoeven, Climate Change, Conflict and Development in Sudan: Global Neo-Malthusian Narratives and Local Power Struggles, «Development and Change» 42, numero 3 (2011)

H. Verhoeven-L. A. Patey, Sudan’s Islamists and the Post-Oil Era: Washingtons Role after Southern Secession, «Middle East Policy» 18, numero 3 (2011)

J. Voll, Sudan: The State and Society in Crisis, Bloomington, Indiana University Press, 1991.


Note

1 Il testo dell’Accordo è disponibile sul sito peacemaker.un.org.

2 Il testo dell’Accordo è consultabile sul sito unmis.unmissions.org.

3 I dati ufficiali sono consultabili sul sito southernsudan2011.com.

(maggio 2015)

Tag: Daniela Franceschi, Africa, Sudan, Sud Sudan, conflitto Nord-Sud, musulmani, Shari’a, Cristiani, animisti, Inghilterra, Mohammed Ahmed ibn-Sayyid Abdallah, Mahdi, Southern Policy, Sudan African National Union, Abboud, Joseph Lagu, Jaafar Nimeiri, Sadig el Mahdi, John Garang de Mabior, Umma, Sudan People’s Liberation Movement, Sudan People’s Liberation Army, National Islamic Front, Democratic Unionist Party, Omar Al-Bashir, Mohamed Osman al-Mirghani, Nuer, Dinka, Beja, Nuba, Inter-Governmental Authority on Development.