L’Italia e la nascita di Israele attraverso «La Stampa»
Relazioni internazionali e politica atlantica della Repubblica Italiana nel secondo dopoguerra

Il contesto mediorientale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale l’area mediorientale assumeva una notevole importanza per il contesto geopolitico internazionale. La questione delle risorse energetiche, di conseguenza del petrolio, stava emergendo come il punto nodale intorno al quale si sarebbero sviluppati i destini di molti dei protagonisti della scena internazionale; infatti, tale tematica, connessa con le aspirazioni autonomiste dei movimenti di indipendenza arabi, avrebbe costituito la base dei futuri conflitti.

All’interno delle società arabe emergevano, allo stesso tempo, quelle disparità sociali che ne contrassegnavano e limitavano lo sviluppo, poiché la volontà di partecipazione degli strati più innovatori della società era frustrata dalle élite dirigenti locali, supportate dalle potenze europee, le quali si avvantaggiavano della loro presenza per preservare i vecchi privilegi coloniali.

Secondo Bice Migliau e Franca Tagliacozzo, «le grandi potenze favorirono la costituzione di Governi oligarchici e si legarono a clan feudali che utilizzavano le nuove ricchezze provenienti dalla vendita del petrolio per accrescere il proprio potere. Furono così deluse le speranze degli strati più illuminati e progressisti delle società locali che oltre al conseguimento dell’indipendenza si proponevano una crescita politico-sociale e una modernizzazione dei rispettivi Paesi. Infatti gli obiettivi dei leader arabi detentori del potere non furono quelli di favorire un rinnovamento dell’economia, un progresso della società, un elevamento del tenore di vita della collettività, ma di mantenere lo status quo. A tale scopo si favorì lo sviluppo di una forma di nazionalismo, che in realtà si manifestò come strumento di condizionamento del popolo nelle mani delle classi dominanti legate a interessi stranieri»[1].

La fine del conflitto mondiale fece emergere un sistema bipolare che condizionò sia l’Asia Occidentale sia l’Africa Maghrebina. È possibile notare come, mentre la Francia svolgeva già dall’anteguerra un ruolo secondario negli equilibri mediterranei, l’Inghilterra, seppur ridimensionata e con una grave situazione economica, non intendesse abbandonare il ruolo di potenza, privilegiando il mantenimento del controllo del canale di Suez. I processi di indipendenza nelle colonie inglesi apparivano ormai inarrestabili, per questo la Gran Bretagna cercava di costruire delle relazioni preferenziali con le nuove leadership autoctone. In tale prospettiva deve essere considerata la nascita della Lega Araba, avvenuta al Cairo il 22 marzo del 1945 con il beneplacito di Londra, che tentava così di riaccreditarsi di fronte al mondo arabo.

In ragione di ciò, la politica del Governo laburista di Clement Attlee fu dichiaratamente antisionista, estrinsecandosi principalmente nella ferrea regolamentazione dell’emigrazione ebraica in Palestina, con la concessione di soltanto 1.500 permessi di ingresso al mese. Nel periodo 1946-1949, l’emigrazione illegale in Palestina raggiunse le 39.000 unità, inoltre tra l’aprile del 1945 e il gennaio del 1948, delle 63 navi clandestine che tentarono di avvicinarsi alle coste della Palestina, 58 vennero bloccate. I passeggeri, profughi e sopravvissuti alla Shoah, furono catturati dai militari britannici e internati nei campi di raccolta di Cipro.

La fine della Seconda Guerra Mondiale portava dei cambiamenti notevoli anche nella politica estera seguita dal movimento sionista in Palestina; infatti, nel Congresso Sionista svoltosi a Basilea nel dicembre del 1946, la Presidenza di Chaim Weizmann, propensa a mediare con la potenza mandataria, risultò ormai vacillante, fortemente osteggiata dal maggioritario sionismo della nuova patria palestinese, guidato da David Ben Gurion, che chiedeva di proseguire la lotta politica dura e la resistenza civile contro l’Inghilterra. Gli esiti del Congresso sancirono proprio tale indirizzo.

È importante rilevare che dopo il 1945 il confronto con gli Inglesi si era già trasformato in un aperto scontro militare; la componente revisionista dell’Irgun, («Irgun Zvai Leumì», «Organizzazione Militare Nazionale») sotto la direzione di Menachem Begin, insieme al Lehi (acronimo di «Lochamei Herut Israel», «Combattenti per la Libertà di Israele»), aveva ripreso la lotta armata contro le autorità mandatarie, costituendo un fattore di forte preoccupazione per un’altra organizzazione militare, l’Haganah («Irgun haHaganah», «Organizzazione di Difesa»), che temeva l’instaurarsi di una guerra civile. La modalità con cui condurre la lotta armata contro le autorità britanniche rimase il tema predominante nelle relazioni tra le tre organizzazioni militari.

Oltre alle scelte di politica estera della potenza mandataria, sempre più dirette verso i Paesi Arabi, era la rigidissima politica di emigrazione in Palestina a costituire una difficoltà imprescindibile per il sionismo del nuovo focolare ebraico palestinese.

È interessante osservare come proprio il tema dell’emigrazione clandestina ebraica fosse al centro delle preoccupazioni anche dell’Italia, rappresentando contemporaneamente un problema di politica interna e internazionale. Per quanto concerneva quest’ultimo aspetto, il Governo Italiano intendeva evitare qualsiasi attrito con la Gran Bretagna per scongiurare ogni possibile peggioramento delle clausole del trattato di pace riguardanti le colonie e il confine orientale. In effetti, l’Inghilterra protestò veementemente con Roma per il crescente afflusso di profughi ebrei nel territorio italiano e la relativa facilità con cui questi raggiungevano la Palestina.

I problemi con la potenza mandataria non erano l’unica variabile che l’Esecutivo italiano stava considerando attentamente in quel preciso periodo storico, infatti, un deciso appoggio alla causa sionista avrebbe pregiudicato la possibilità per la «nuova» Italia sia di essere un’interlocutrice privilegiata del mondo arabo, sia di esercitare su di esso una certa influenza, in linea con la sua tradizionale politica estera. I rapporti con gli Arabi tornavano a essere considerati, quindi, una direttrice fondamentale per la politica estera italiana.

Inoltre il Governo Italiano temeva che il sionismo fosse usato dal comunismo sovietico per espandersi nel Mediterraneo, agevolato dalla massiccia immigrazione di profughi ebrei provenienti dall’Europa Orientale, tra cui, secondo la diplomazia italiana, si erano già affermate delle tendenze socialiste. Una maggiore conoscenza del sionismo avrebbe fatto comprendere che gli orientamenti socialisti facevano tradizionalmente parte dello spirito sionista.

Il timore di una penetrazione comunista in Medio Oriente attraverso l’affermazione dello Stato d’Israele permané nel Governo Italiano fino agli inizi degli anni Cinquanta, quando, complice la situazione internazionale, Ben Gurion abbandonò la linea di politica estera denominata della «non identificazione», finalizzata a mantenere buoni rapporti sia con gli Stati Uniti sia con l’URSS per non compromettere i flussi migratori dai Paesi del blocco comunista. Nei primi anni Cinquanta la politica estera dell’Unione Sovietica mutò, divenendo sempre più antisionista e antisemita, tanto da interrompere nel febbraio del 1953 i rapporti diplomatici con Israele, che si riavvicinò definitivamente all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti.

L’atteggiamento favorevole dell’Unione Sovietica verso il sionismo era frutto di una precisa scelta politica da parte di Stalin, che intendeva assumere un ruolo chiave nel confronto internazionale in atto nella Palestina mandataria. Questa linea politica fu adottata da Mosca soltanto nel 1947, quando l’Inghilterra dichiarò di voler lasciare il mandato palestinese, infatti, in precedenza la posizione sovietica sul sionismo e sulla costituzione di uno Stato Ebraico aveva subito delle fluttuazioni, rimanendo comunque sempre molto prudente. L’URSS pensava alla formazione di uno Stato indipendente, al cui interno vivessero sia Arabi sia Ebrei, amministrato in proporzione alla consistenza numerica dei due popoli. L’irrealizzabilità di un simile modello di Stato spinse l’Unione Sovietica a schierarsi dalla parte delle aspirazioni ebraiche, votando in sede ONU per la spartizione del territorio del mandato britannico il 29 novembre del 1947.

Il sostegno alle rivendicazioni del sionismo non ebbe un riflesso positivo sugli Ebrei Russi che vedevano nel nuovo Stato una possibile meta di emigrazione, infatti, dal gennaio del 1948 Stalin intensificò l’oppressione verso il movimento sionista russo. Apparentemente la politica staliniana poteva apparire incoerente, tuttavia essa convergeva verso un duplice obiettivo: mantenere la coesione interna del Paese, che poteva essere compromessa dalla presenza di Israeliti che guardavano con favore a uno Stato estero e democratico, ed ergere l’URSS al ruolo di superpotenza mondiale.


La nascita dello Stato Ebraico

L’anno di nascita di Israele coincide con l’esordio alla direzione de «La Stampa» di Giulio De Benedetti[2], dopo la morte improvvisa di Filippo Burzio. La direzione di De Benedetti portò al giornale un grande prestigio, nazionale e internazionale, coniugando qualità e cultura, grazie a collaboratori come Salvatorelli, Jemolo, Piovene, Emanuelli, i migliori rappresentanti della cultura politica e giornalistica italiana del tempo. Antifascismo e laicismo furono le caratteristiche salienti della direzione di «Gibidì», oltre a una forte attenzione per la cronaca nera e giudiziaria. Come ha sottolineato Eugenio Scalfari in una conversazione con Alberto Papuzzi, la linea del giornale era «sicuramente antifascista, sicuramente laica, con un’attenzione ai valori morali e vagamente socialdemocratica, perché lui era molto amico di Saragat. […] In più c’era una venatura liberale di sinistra; il risultato era una linea socialdemocratica con correzioni di giansenismo, di valdesismo e un certo laicismo cattolico di cui si faceva interprete Carlo Arturo Jemolo»[3].

È possibile riscontrare un interesse da parte del giornale verso la Palestina già dal 1945, che si fece più pressante dall’inizio del 1946.

Gli articoli del 1945 vertevano principalmente sul problema dell’immigrazione ebraica, sottoposta a pesanti restrizioni[4]. Nel primo articolo[5] sul tema, pubblicato in prima pagina, si affermava che la situazione in Palestina era molto tesa, una situazione paragonabile «a quelle verificatesi in Europa prima dello scoppio delle ostilità». Infatti, si segnalava lo sbarco di molti soldati inglesi a Haifa, notizia «che proviene da fonte ufficiale, potrà dare senza tanti commenti una idea di quanto sia tesa la situazione in Palestina». L’articolista, che non firmava l’articolo, scriveva che il rappresentante dell’Agenzia Ebraica della Palestina aveva dichiarato che vi erano migliaia di Ebrei decisi a risolvere la questione dell’immigrazione anche senza il consenso della Gran Bretagna, «se occorre, essi ruberanno, compreranno piroscafi per attraversare il Mediterraneo, resistendo contro tutti i tentativi di vietare il loro sbarco in Palestina». Il rappresentante dell’Agenzia Ebraica concludeva affermando che vi erano altri 600.000 Ebrei in Palestina, i quali avrebbero combattuto insieme ai loro correligionari in Europa.

Un ulteriore articolo, molto breve e senza commento ma pubblicato anch’esso in prima pagina, riferiva di disordini verificatisi in un campo presso Haifa, in cui erano stati rinchiusi circa 200 Ebrei ritenuti essere entrati illegalmente in Palestina[6].

In precedenza era stato pubblicato un trafiletto sulla situazione nel mandato britannico che non forniva ulteriori informazioni, limitandosi a redigere una cronaca degli scontri verificatisi durante gli ultimi giorni[7].

È ipotizzabile che l’interesse del giornale aumentasse negli anni successivi poiché il conflitto con la potenza mandataria era divenuto uno scontro militare vero e proprio, con molteplici episodi, come l’attentato, nel 1946, contro l’Hotel King David[8], sede dell’Amministrazione Mandataria Britannica, che causò 90 morti.

Le notizie sulla situazione in Palestina, solitamente pubblicate in prima pagina, divennero quasi giornaliere dopo il 1945 e descrivevano soprattutto gli scontri tra le forze armate inglesi e i gruppi ebraici[9]. Risultano di maggiore interesse gli articoli di fondo scritti da importanti collaboratori del quotidiano, infatti questi commenti delineano l’atteggiamento del giornale rispetto al movimento sionista e al nascente Stato d’Israele.

Il primo esteso commento sulla Palestina fu pubblicato in terza pagina, non firmato, nel luglio del 1946[10], poche settimane prima dell’attentato all’Hotel King David. Il giornalista scriveva che chiunque avesse visitato la Palestina anni prima sarebbe rimasto, adesso, molto stupito dai cambiamenti che il Paese aveva vissuto, infatti si potevano osservare nuovi impianti industriali e manifatturieri, così come l’ammodernamento delle case, che da «costruzioni in fango e argilla» si erano trasformate in «abitazioni di pietra, moderne e razionali sistemate in spaziosi viali che hanno quasi ovunque sostituito i vecchi vicoli». Secondo l’articolista una prima fonte di dissidio era proprio questa trasformazione, e soprattutto di chi fosse il merito: gli uni l’attribuivano alle forti imposte pagate dagli Ebrei, gli altri alla rinnovata energia araba.

Secondo il giornalista il conflitto palestinese era una specie di «malattia locale», quindi, «sotto certi aspetti si potrebbe dire che la Palestina è la bilancia del Medioriente». Esistevano tre punti di vista sul conflitto in corso: l’ebraico, l’arabo e l’inglese. Un accordo era giudicato impossibile.

Il giornalista si soffermava sul rapporto stilato dalla Commissione Anglo-Americana nel maggio del 1946, in cui erano proposte alcune soluzioni, spesso palesemente contraddittorie tra loro: l’immigrazione di 100.000 Ebrei sopravvissuti alla Shoah; la successiva limitazione dell’immigrazione ebraica; l’abolizione delle restrizioni alla vendita di terreni agli Ebrei; la continuazione del mandato britannico con il supporto delle comunità ebraiche e arabe; lo sviluppo culturale ed economico degli Arabi e la cooperazione tra i due popoli, l’unico punto non incompatibile con le visioni dei due popoli, quello ebraico e quello palestinese. Il giornalista scriveva che era davvero improbabile che simili proposte potessero essere accettate dalle tre parti in causa, infatti «solo un miracolo paragonabile al ritiro del Mar Rosso o alla rivelazione del Corano avrebbe potuto rendere bene accetto il rapporto della Commissione. Con l’aver cercato di evitare una soluzione ebraica o araba del problema, con il non aver sostenuto né respinto in modo assoluto il principio della immigrazione ebraica, e volendo tenere una linea di compromesso, le 40.000 parole del rapporto si sono trovate in una terra di nessuno, in mezzo a fazioni opposte. I 100.000 ammessi significano per i sionisti un diniego di immigrazione per altri milioni. […] Gli Arabi, da parte loro, dissero che una vera invasione era stata preparata e che la reazione non sarebbe stata solo verbale».

Dal punto di vista diplomatico, si rilevava l’indifferenza dell’Europa per il contesto palestinese.

A parere del giornalista, la causa del conflitto in Palestina era da ricercarsi nella mancanza di autodeterminazione di quei popoli, per cui «la causa prima della intransigenza dei due popoli è appunto data dalla dipendenza coloniale che essi devono ai loro amministratori inglesi». L’articolista era consapevole che una fine repentina del mandato britannico avrebbe esposto la Palestina a gravi pericoli, ma «d’altra parte, finché si governerà solo con le truppe e la polizia, non vi potrà essere quello stato di fatto, quella necessità che obbliga gli esseri umani a risolvere le situazioni con un accordo».

Il giornalista era perfettamente consapevole che il passaggio dalla condizione di tutela a quella di indipendenza non sarebbe stato semplice e indolore, ma la stessa durata ventennale del mandato britannico dava la certezza che la Palestina avrebbe potuto autogovernarsi e divenire uno Stato sovrano. L’articolista non ne parlava esplicitamente, ma è ipotizzabile che si riferisse alla Common Law, che lasciò un’ampia impronta sul sistema giuridico israeliano[11].

Nella conclusione affermava che il nulla osta per far divenire la Palestina uno Stato indipendente era difficile da ottenere, poiché vi erano «molte, troppe posizioni da difendere».

Luigi Salvatorelli[12], importante storico, scrisse un articolo sulla Palestina pubblicato in prima pagina[13]. Egli osservava come nemmeno l’attentato contro la sede dell’Amministrazione Mandataria Inglese fosse riuscito a destare l’interesse dell’opinione pubblica verso il conflitto mediorientale. Notava con acutezza il senso di «seccaggine per questi sionisti che seguitano ad infastidire il mondo», sentimento frutto «della propaganda spontanea dell’antisemitismo, uno dei fenomeni più paradossali, ma anche più sicuri, di questo così piacevole, così sereno dopoguerra». Nonostante il rischio di essere travolti dal fastidio dell’opinione pubblica europea, Salvatorelli affermava che questa indifferenza era sbagliata. La terra di Palestina poteva divenire il campo di battaglia di una nuova guerra. La potenza mandataria, nonostante la mancanza di «fantasia coordinatrice e preveggente», era obbligata ad accettare la presenza in Palestina di Arabi[14] ed Ebrei, un fatto di cui doveva prendere atto. Per il giornalista, tutte le soluzioni alla «questione sionista» dovevano partire da questo presupposto inoppugnabile.

Secondo Salvatorelli era opportuno che al più presto fosse organizzata la convivenza civile tra Arabi ed Ebrei, «quali che siano i modi e gli istituti che si vogliano e si possano escogitare per questa convivenza», e che questa fosse accettata da tutte le parti in causa. Ogni soluzione che avesse privilegiato una soltanto delle controparti sarebbe stata «folle e criminale» per l’assetto della Palestina.

Continuava scrivendo che il sionismo era un aspetto del più vasto «problema ebraico» che non era stato risolto dalla guerra, ma piuttosto inasprito dal conflitto stesso con i suoi massacri.

È interessante notare come Salvatorelli vedesse nella costituzione della Lega Araba un segno della capacità delle popolazioni arabe di creare degli strumenti politico-statuali; in realtà, come hanno osservato Bice Migliau e Franca Tagliacozzo, le popolazioni arabe furono frustrate nelle loro aspettative di ottenere una vera partecipazione politica.

Salvatorelli continuava scrivendo del profondo interesse che l’Inghilterra aveva nel Medio Oriente, che non concerneva soltanto il mantenimento del mandato sulla Palestina, poiché coinvolgeva la sua stessa posizione nell’arena internazionale; infatti, lo storico osservava acutamente come dopo la fine della guerra, la Palestina avesse raddoppiato la sua importanza per l’Inghilterra, in considerazione del ritiro dall’Egitto e dal Canale di Suez. La Gran Bretagna doveva ritirarsi da quei territori, mantenendoli però «occupati virtualmente», ovvero occupando altri territori limitrofi, dotandosi in questo modo di postazioni terrestri e aeronavali. Questa era la ragione per cui la Palestina e la Cirenaica, «parte essenziale della cupida ostilità inglese verso di noi per le colonie», fossero al centro dell’interesse inglese. L’accenno di Salvatorelli alla questione delle nostre colonie può essere ricollegato ai difficili negoziati allora in corso tra l’Italia e le grandi potenze, negoziati che porteranno alla firma del Trattato di Parigi del febbraio 1947; «La Stampa» assunse una posizione fortemente critica del trattamento riservato all’Italia[15].

Nella conclusione, si soffermava sulla posizione degli Stati Uniti[16], spinti a risolvere «il problema in modo conforme ai loro sentimenti umanitari e ai voti di milioni di Ebrei Statunitensi», ma combattuti di fronte a un simile passo. Salvatorelli osservava come l’America si trovasse, in politica estera, di fronte a un bivio tra un ritorno, giudicato illogico, all’isolazionismo e l’adozione di una «politica mondiale», ancora alla fase embrionale.

«La Stampa» dedicò un’attenzione particolare anche al tema dei profughi ebrei che tentavano di raggiungere la Palestina. Il primo articolo su questo argomento fu pubblicato in prima pagina nel novembre del 1946[17]. Il giornalista, che non firmava l’articolo, descriveva lo sbarco dei profughi ebrei dalla nave San Dimitros; i profughi si erano trovati in gravissimo pericolo, poiché la nave, trasportando un numero di passeggeri nettamente superiore alla sua capacità, aveva iniziato a sbandare vistosamente. L’articolista scriveva anche dello sbarco della nave Latron, «con il suo dolente carico». I profughi si erano rifiutati di scendere, ma le truppe inglesi avevano usato dei lacrimogeni e degli idranti per forzare il loro sbarco, che era avvenuto entro breve tempo, «recando sul volto espressioni di muta sofferenza».

Il giornale si interessò dei campi profughi di Grugliasco e Rivoli soprattutto in occasioni di tumulti e disordini[18], tuttavia è interessante notare che almeno in un articolo[19] vi fosse un riferimento chiaro al genocidio ebraico, dimostrando una profonda comprensione per la difficile situazione che persone prive di famiglia, casa, patria e averi stavano vivendo, a cui era impedito di raggiungere la Palestina, dove speravano di ricostruirsi una nuova vita.

Come accennato in precedenza, la presenza di profughi ebrei provenienti dall’Europa Orientale era fonte di viva preoccupazione per il Governo Italiano, soprattutto per quanto concerneva il pericolo di infiltrazioni da parte dei comunisti sovietici. La stessa comunità ebraica italiana era preoccupata da un arrivo così massiccio di profughi, anche in relazione a un possibile rigurgito di antisemitismo in Italia.

Il contesto si fece ancora più preoccupante quando l’Irgun Tzavai Leumì si assunse la responsabilità dell’attentato contro l’Ambasciata Britannica a Roma. La notizia ebbe una vasta copertura mediatica da parte di tutto il giornalismo italiano. «La Stampa» diede notizia dell’attentato con un articolo[20] molto particolareggiato sulle circostanze dell’atto terroristico e sulle indagini, soffermandosi soprattutto sulle reazioni da parte del Governo Italiano, che aveva contattato subito l’Esecutivo Inglese per esprimere il suo profondo rammarico e la sua ferma volontà di individuare i responsabili. In questo primo articolo, la responsabilità dell’Irgun era ipotizzata, notando le forti somiglianze con l’attentato contro l’Hotel King David, avvenuto soltanto pochi mesi prima.

Lo svolgersi delle indagini occupò le prime pagine[21] del quotidiano per molti giorni. In questi articoli, prettamente descrittivi della situazione delle indagini da parte delle forze di polizia, non si rilevano commenti significativi, soprattutto era messa in evidenza l’assoluta estraneità di elementi italiani nell’attentato, infatti, si faceva notare l’assenza di motivazioni per cui «l’Italia avrebbe dovuto levare la mano contro l’Inghilterra, che è poi stata la prima nazione, pur non superando completamente i risentimenti del recente conflitto, a tenderci la sua? A chi potrebbe giovare, in Italia, un attentato contro la grande Potenza, che ha così eroicamente resistito alla Germania e ha tenuto alta la bandiera della libertà in Europa quando pareva che ogni speranza fosse chiusa alla restaurazione? Nessun partito politico di sinistra o destra, così come nessun privato cittadino italiano e nessun fascista ancora annebbiato dalle fumose e squilibrate invettive mussoliniane può, al dì di oggi, pensare a un delitto contro la Gran Bretagna»[22]. L’attentato era certamente da considerarsi, proseguiva il giornalista, opera di elementi stranieri presenti in gran numero in Italia.

Successivamente, fu lo stesso Irgun ad assumersi, attraverso un comunicato, la responsabilità dell’attentato. Come rilevava il giornalista, le indagini non avevano portato alla individuazione dei colpevoli[23].

La Conferenza tenutasi a Londra nel gennaio del 1947 non ebbe un’ampia copertura da parte del quotidiano[24], mancando commenti significativi, anche se continuò la consueta attenzione verso gli scontri che si verificavano nell’area[25]. La stessa notizia della possibile cessione dei mandati da parte dell’Inghilterra fu pubblicata in prima pagina ma senza commenti di rilievo[26]. È importante evidenziare che il biennio 1945-1947 vide l’istituzione di svariate Commissioni, su iniziativa anglo-americana e delle Nazioni Unite, per trovare una soluzione al conflitto in Palestina, che non ebbero mai successo, date le rigide posizioni di tutte le controparti.

Commenti più significativi da parte di importanti collaboratori del quotidiano furono pubblicati in seguito.

Italo Zingarelli[27] scrisse un commento sulla difficile situazione in Palestina dopo che nel febbraio del 1947 l’Inghilterra aveva comunicato l’intenzione di lasciare il mandato, demandando alle Nazioni Unite il futuro assetto del Paese. Tra la primavera e l’estate dello stesso anno, l’UNSCOP, lo United Nations Special Committee on Palestine elaborò una proposta che prevedeva la fine del mandato, la nascita di due Stati indipendenti, uno arabo e l’altro ebraico, e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Per l’approvazione era necessario il voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

L’articolo[28], pubblicato in prima pagina, dedicava molta attenzione ai gruppi armati arabi, i cui leader erano riusciti ad «apporre il suggello all’alleanza tra Arabi del bacino del Medio Oriente e Arabi dell’Africa Settentrionale». I leader non erano più giovanissimi, ma erano «autentici specialisti in rivolte e guerriglie: ma se l’energia fisica non è più uguale all’immutato calore dei discorsi, sono ricchi d’autorità ed esperienza per consigliare e guidare i giovani». Secondo il giornalista, gli Arabi avevano delle risorse militari tali da poter sconfiggere l’esercito clandestino ebraico, soprattutto se questo fosse stato privo di aiuti consistenti.

Dal punto di vista della politica internazionale, Zingarelli osservava come stesse crescendo negli Stati Uniti un certo allarme per la situazione dell’area nel momento in cui l’Inghilterra si fosse ritirata lasciando senza difese gli interessi e gli Ebrei Americani.

In conclusione, il giornalista chiosava scrivendo che quando l’Inghilterra avesse lasciato la Palestina, gli Ebrei si sarebbero dovuti confrontare con gli Arabi senza gli aiuti necessari.

Anche Luigi Salvatorelli scrisse un nuovo articolo[29] sulla Palestina dopo la proposta della spartizione. La situazione della Palestina costituiva per le Nazioni Unite la prova del fuoco; infatti, questo era uno di quei casi in cui «la loro funzione è legittima e indispensabile, e al tempo stesso relativamente facile da adempiere». Se l’ONU avesse fallito in questa prova, si domandava retoricamente in quale avrebbe potuto riuscire. Nel caso della Palestina, URSS e Stati Uniti si erano trovati d’accordo, «un caso miracoloso», rappresentando l’ostacolo maggiore all’attività dell’ONU, in quella che Salvatorelli considerava la sua sfera d’azione primaria: la composizione dei contrasti internazionali.

L’abbandono del mandato da parte della Gran Bretagna conduceva, secondo lo storico, alla «neutralizzazione della questione palestinese», poiché essa «viene a trovarsi fuori del campo di competizione fra i Grossi». Le grandi potenze avevano l’opportunità di cooperare, senza sotterfugi, «alla pace e alla tranquillità di una zona importantissima per il mondo, e in un conflitto di popoli che è uno dei più aspri finora verificatisi».

Salvatorelli continuava affermando che il conflitto tra Arabi ed Ebrei dimostrava quanto il principio di nazionalità da solo non potesse essere sufficiente per un ordinamento mondiale pacifico, anzi, da solo costituiva un pericolo per la pace mondiale. Infatti, «l’autodeterminazione dei popoli non è l’ultima Thule della vita internazionale; al di là di essa, vi sono la giustizia e la pace, valori universali che non possono essere sacrificati a interessi particolari, anche i più legittimi e sacri». Riconosceva agli Arabi un innegabile diritto sulla Palestina, «loro terra». Anche gli Ebrei, «immigrati in quella che pure era stata, per millenni, la terra loro, vi hanno acquistato diritti non meno sacri: quello della necessità, per un popolo atrocemente perseguitato, di una terra di rifugio; quello del loro stabilimento compiuto in base ad atti internazionali riconosciuti da tutti; quello, infine e soprattutto, del meraviglioso lavoro di civiltà da essi compiuto nella terra già d’Israele». Solo un pazzo avrebbe potuto pensare di cacciare gli Ebrei dalla Palestina, un luogo in cui vi era già uno Stato di fatto e di diritto. Salvatorelli continuava scrivendo che gli Ebrei avevano tutto il diritto di rimanervi e anche di emigrare in questo nuovo Stato, una proibizione dell’immigrazione sarebbe stata illegittima, come illegittimo sarebbe stato negare alla nuova formazione statuale, «che è, per riconoscimento internazionale, un popolo, e di fatto uno Stato», l’autogoverno. La spartizione, secondo Salvatorelli, era la soluzione più idonea, soluzione che «s’imponeva almeno da dieci anni a ogni cervello sano, non si può che ripetere malinconicamente il “quam parva sapienza regitur mundus”». La soluzione di uno Stato federale non era attuabile, dato che entrambi i popoli non erano pronti per una simile configurazione.

La spartizione non poteva, comunque, essere una procedura priva di ogni aiuto, era necessaria un’Autorità esterna. Salvatorelli riteneva che questa Autorità fosse l’ONU, con una «forza d’ordine» sotto la sua direzione.

Lo storico concludeva il suo articolo affermando che «è proprio l’esperimento classico per un’autorità supernazionale; e (ripetiamolo) nelle condizioni migliori, o meno cattive, oggi immaginabili. L’ONU deve affrontarlo integralmente, pena l’abdicazione».

Il 1948 vide il conflitto, che gli Israeliani ricordano come la «guerra d’indipendenza», comporsi di numerosi scontri armati, più o meno cruenti, che ebbero una conclusione soltanto nel gennaio del 1949. La «guerra d’indipendenza» rappresentò il conflitto armato più lungo e più costoso in termini di perdite di vite umane per lo Stato Ebraico.

Dal punto di vista militare, furono imposte dall’ONU due tregue, dall’11 giugno all’8 luglio e dal 19 luglio al 15 ottobre; sul campo di battaglia, a un iniziale successo della parte araba corrispose nel lungo periodo il prevalere dello Stato Ebraico che ottenne il controllo del corridoio di Latrun, che collegava Tel Aviv a Gerusalemme, di Lydda, di Ramla, e di Beersheva, della costa a Sud di Tel Aviv a eccezione di Gaza, della Galilea e del deserto del Negev.

«La Stampa» non solo diede ampio spazio alle vicende militari, ma inviò dei corrispondenti, tra i quali Giovanni Artieri, Paolo Monelli[30], e Vero Roberti, i cui articoli rappresentano un’importante risorsa per conoscere come l’opinione pubblica italiana fu informata del conflitto.

Il giornale dedicò giornalmente degli articoli alla guerra in Palestina[31], di carattere prettamente descrittivo delle vicende belliche; tuttavia il loro posizionamento in prima pagina denotava l’importanza attribuita dal quotidiano al contesto mediorientale. Degne di nota sono anche le molte corrispondenze dal teatro di guerra di Giovanni Artieri[32], Paolo Monelli[33] e Italo Zingarelli, volte a descrivere la Palestina non solo dal punto di vista delle vicende belliche ma anche del costume e degli abitanti, privilegiando la popolazione ebraica.

Il giornalista Italo Zingarelli ci offriva in due articoli[34], pubblicati in prima pagina, un quadro dettagliato della situazione internazionale in cui avvenne la nascita d’Israele. Zingarelli constatava come gli avvenimenti in Palestina fossero il frutto della fine dell’Impero Inglese[35], che aveva ceduto «lo scettro mondiale agli Stati Uniti». Lo scenario mediorientale si presentava molto complesso, essendo costituito da «una rete di intrighi, di gelosie, di interessi che ostacola terribilmente la situazione». Il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman, riconosciuto il nuovo Stato subito dopo la proclamazione, assumeva poi una posizione ambivalente, non volendo schierarsi né contro gli Ebrei né contro gli Arabi, ben consapevole della difficoltà di subentrare alla Gran Bretagna nello scenario mediorientale, «in un’area considerata strategica per il futuro degli equilibri internazionali»[36]. La politica estera del Presidente Americano era giudicata molto negativamente dal giornalista, anche se a malincuore essendo conscio di come la popolazione italiana avesse beneficiato degli aiuti dell’amministrazione americana. Il Presidente aveva compromesso «la faccenda della Palestina non ancora sanata […] prima mandò a monte l’accordo raggiunto a Londra con l’Inghilterra dai suoi plenipotenziari, favorì quindi il piano di spartizione della Palestina approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, salvo a dichiararlo subito dopo pericoloso e inattuabile, e, scoppiata la guerra in Terra Santa, riconobbe in fretta lo Stato d’Israele, dunque la spartizione, sebbene Marshall e il sottosegretario di Stato Lovett lo pregassero di attendere»[37]. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti avrebbero visto perdente Truman, non tanto per il valore dell’avversario, bensì per il suo comportamento «esitante, instabile e aggressivo oggi, domani remissivo». Rispetto alle previsioni di Zingarelli, Truman fu eletto nelle elezioni presidenziali del novembre del 1948.

È opportuno soffermarsi sulla posizione degli Stati Uniti, e soprattutto del Presidente Truman, riguardo alla nascita dello Stato Ebraico. Rispetto alla descrizione di Zingarelli, l’apparente atteggiamento ondivago di Truman era da addebitarsi al braccio di ferro in corso tra la Presidenza e il Dipartimento di Stato, quest’ultimo, infatti, premeva per il mantenimento di buoni rapporti con i Paesi Arabi ed era avverso alla nascita di uno Stato Ebraico in Medio Oriente, tale posizione risaliva alla fine della Prima Guerra Mondiale. Inoltre lo stesso Presidente si era personalmente esposto durante il voto del 29 novembre del 1947 alle Nazioni Unite per l’approvazione del progetto di spartizione della Palestina. Oltre a ciò, Truman condivideva gli obiettivi politici di molti esponenti sionisti americani.

Nelle scelte del Presidente certamente ebbe un ruolo anche il fattore religioso, infatti, Truman era un battista, profondamente legato alla lettura e agli insegnamenti della Bibbia ebraica; molti studiosi hanno messo in rilievo l’influenza di questo aspetto religioso sulle sue scelte a favore degli obiettivi sionisti. Elizabeth Stephens ha affermato che «sarebbe […] fuorviante non riconoscere che l’elemento Ebraismo-Vecchio Testamento nella storia intellettuale americana abbia fornito i fondamenti in base ai quali si originò il sostegno americano al moderno Stato Ebraico, in particolare tra i cristiani americani»[38].

Anche se la fondazione di uno Stato Ebraico in Palestina era un tema centrale dell’agenda politica di Truman, cui era legato da un interesse politico ma anche umanitario, non sempre Israele ebbe il sostegno incondizionato di Washington, infatti gli Stati Uniti dovevano tener presenti i molteplici fattori derivanti dalla Guerra Fredda, perciò l’appoggio allo Stato Ebraico poteva non essere prioritario. Israele ne era consapevole, lo stesso Ben Gurion affermò che «l’America non si è impegnata né si impegnerà a sostenere Israele in tutto ciò che esso farà o chiederà. L’America fa le sue valutazioni, che possono differire da quelle di Israele o anche opporvisi»[39].

Giovanni Artieri[40], inviato speciale del giornale, dedicò un lungo articolo, pubblicato in prima pagina, allo Stato d’Israele[41]. Nella parte iniziale, Artieri focalizzava le tre diverse posizioni che a suo giudizio si erano delineate nell’Ebraismo contemporaneo: la prima riteneva assurdo che tutti gli Ebrei del mondo lasciassero i loro Paesi «per ripiantare le tende in Palestina»; la seconda, facente capo agli esponenti di maggior spicco della società, elargiva fondi ma non sarebbe mai emigrata. Desta perplessità la terza posizione che, a parere di Artieri, propendeva per una conversione al Cristianesimo dato il ruolo avuto dal Papa nella lotta antinazista e antirazzista[42]. È da rilevare che i casi di conversione furono minoritari; per esempio, destò molto scalpore la conversione al Cattolicesimo del rabbino capo di Roma, Israel Zolli[43].

Il rapporto con la Gran Bretagna era complesso; durante la Seconda Guerra Mondiale gli Ebrei non poterono che aderire al fronte Alleato, ma con la fine del conflitto i rapporti erano naturalmente mutati, date le divergenti e inconciliabili aspirazioni. Tuttavia, il giornalista registrava con acutezza quanto ampia fosse l’impronta della Common Law sul sistema giuridico israeliano[44], un patrimonio che consentiva al nuovo Stato di affrontare minori difficoltà in quegli aspetti della vita quotidiana così decisivi, come il sistema tributario, l’organizzazione della sanità, le comunicazioni, le ferrovie eccetera.

Non si può non notare la simpatia del pubblicista per la generazione nata in Israele, detta dei «fichi d’India», in ebraico «Tsabar» o «sabra»[45], «composta d’individui quasi sempre più alti della media, robusti, castani, bruni ma spessissimo biondi, che ha già sostituito quella proveniente dai ghetti europei. Questi uomini e queste donne hanno fatto la Seconda Guerra Mondiale con gli Inglesi e adesso combattono gli Arabi con un fresco e disinvolto valore che è la sorpresa di tutti».

Nella parte conclusiva dell’articolo, possiamo osservare come la nascita d’Israele sia considerata dal giornalista un risarcimento per i dolori subiti durante l’Olocausto e un rimedio all’antisemitismo.

Da citare integralmente, per l’alto valore civile, le ultime righe del contributo di Giovanni Artieri in cui affermava che «il fatto compiuto della Repubblica d’Israele non si può che accettare e, se possibile, guardare senza ostilità. È bene che unità nazionali coerenti e pacifiche si formino anche a prezzo di sacrifici e di dolori. È dalla somma di queste unità e non dalla loro dissoluzione che potranno formarsi le vagheggiate confederazioni continentali. Lo Stato d’Israele non potrà dunque che aggiungere e non togliere alla futura Patria europea e mondiale».

Nel kibbutz di Ghivat Brenner, Giovanni Artieri aveva incontrato un gruppo di Ebrei Italiani emigrati in Palestina[46]. L’edificio principale, dedicato alla figura di Enzo Sereni, un pioniere del sionismo morto fucilato a Dachau, era stato trasformato dalla forte e intelligente moglie Ada Sereni Ascarelli in Casa della Cultura, con una biblioteca di 30.000 volumi in sei lingue e una rara collezione di giornali ebraici italiani editi fra il 1848 e il 1934.

Gli Ebrei Italiani emigrati apparivano agli occhi del giornalista come divisi a metà fra la nuova vita in Israele e il ricordo malinconico dell’Italia.

L’Ebreo moderno «in faccende per le strade delle città di Palestina, vestito di un pantalone di gabardine, una camicia a mezze maniche, un panama di paglia, la borsa degli affari alla mano, dedica pochissimo tempo alla Torà e al Talmud, frequenta sì e no la sinagoga, è – forse – indifferente in materia religiosa. […] E dice apertamente: io sono Ebreo». Queste frasi apparivano in un articolo[47] che Giovanni Artieri scriveva sull’Ebreo moderno, orgoglioso della sua identità, poiché «né la donna né l’uomo hanno timore di apparire ebrei con quel che una secolare propaganda ha connesso a questa parola». Gli Occidentali non potevano che accettarli «senza caffettani neri, barbe lunghe e incolte, mozzetto al sommo del capo». L’Ebreo moderno di Artieri forse «era scampato ai forni e ai campi di concentramento e gira per le vie di Tel Aviv indaffarato col suo cappello di panama, la sua camicia a mezze maniche, la borsa delle carte alla mano». Il ricordo del genocidio è lontano, molto più presente l’odio verso l’Inghilterra e i suoi rappresentanti.

Questa era l’immagine dell’Ebreo della città, ma esisteva anche l’Ebreo della campagna, «un Ebreo delle fattorie, un Ebreo trincerista, un tipo interessante anche perché è giovane, ed ipoteca spavaldamente l’avvenire». L’Ebreo della campagna era un soldato, anche se lavorava la terra e allevava gli animali, nazionalista in politica e, forse, iscritto al Partito Revisionista. Messe a confronto, entrambe queste identità costituivano lo Stato d’Israele, anche se, come notava Artieri, «quando questo Ebreo di campagna passa per le vie della città, generalmente armato fino ai denti, col volto pallido, barba incolta, le due boccole rituali ai lati delle orecchie, sguardo fermo, l’Ebreo in pantaloni di lino, camicia estiva a mezze maniche e panama di paglia, lo guarda curiosamente, ed avverte un vago senso, non sa neppure lui se di fastidio o ammirazione».

Di taglio più politico era l’articolo di fondo che Luigi Salvatorelli dedicò alla tregua in vigore dall’11 giugno all’8 luglio[48]. Secondo lo storico la tregua era costata molta fatica alle due potenze anglosassoni e al conte Folke Bernadotte, mediatore delle Nazioni Unite ucciso nel settembre del 1948 da un gruppo terrorista ebraico[49], anche se la pace non dipendeva, comunque, esclusivamente dalle parti belligeranti, ma dalle grandi potenze, compresa l’Inghilterra. Salvatorelli scriveva che era ovvio che, una volta terminato il mandato britannico, la «Home ebraica, da trent’anni in continuo sviluppo, non avrebbe potuto se non trasformarsi in Stato Ebraico». In quel preciso momento storico secondo Salvatorelli era impossibile prevedere la nascita di uno Stato federale, forse in un prossimo futuro, ma era una congettura difficile da fare. Negli ultimi vent’anni la politica inglese, o meglio la sua mancanza, aveva impedito che potesse essere istituita una simile forma statuale. La ragione «dell’impuntatura inglese degli ultimi anni in senso antisionistico è nota: è la preoccupazione di non disgustarsi gli Arabi, carta giocata dall’Inghilterra nel Medio Oriente, dagli inizi della Prima Guerra Mondiale in poi».

Salvatorelli scriveva con molta lucidità dei vari protagonisti della parte araba, la cui unità era prettamente fittizia, fluida e varia, dagli interessi contrapposti, per esempio «di fronte al piano egemonico di Re Abdallah di Transgiordania (che vorrebbe per sé non solo la Palestina, ma la Siria), sta quello del Re Egiziano mentre né la Repubblica Siriana né quella Libanese desiderano essere assorbite da nessuno, né Ibn Saud il più potente Sovrano dell’Arabia può essere favorevole all’ingrandimento dei suoi colleghi e in particolare del membro di una famiglia tradizionalmente nemica alla sua, come Abdallah. Non dovrebbe esservi bisogno di ricordare che Ibn Saud ha fondato la sua potenza cacciando dalla Mecca e da Medina il Re degli Arabi Husain, cioè il padre di Abdallah nonché il defunto Re dell’Iraq Faisal». Tutti i programmi di un Impero Panarabo vagheggiati dalla politica inglese erano falliti, e non vi era ragione per credere che alcuni di essi fossero prossimi alla realizzazione, proprio nel momento in cui le resistenze autonomiste, come quella siriana e sionista, si stavano fortificando, quindi, «l’Impero Panarabo era più lontano che mai». Ma non vi era, a parere dello storico motivo di «dolersene poiché ci sono nel mondo abbastanza nazionalismi, razzismi e imperialismi perché sia il caso di fomentarne di nuovi. Mentre sarebbe pericolosa illusione credere di costruire dighe di sbarramento al comunismo con simili materiali».

È interessante prendere in esame anche l’unico articolo che trattava esplicitamente del rapporto tra il Vaticano e la Terrasanta, con particolare riferimento ai Luoghi Santi, pubblicato pochi giorni dopo la nascita dello Stato Ebraico[50]. Prima dell’esame dell’articolo, risulta opportuno soffermarsi brevemente sulla posizione del Vaticano rispetto alla nascita dello Stato d’Israele[51]. L’atteggiamento della Santa Sede verso l’assetto giuridico-istituzionale della Palestina mandataria fu prudente e cauto, ma allo stesso tempo molto determinato, finalizzato a garantire i diritti cattolici su alcuni luoghi specifici dell’area. Pio XII si era pronunciato chiaramente in merito alla questione mediorientale già alcuni giorni prima della nascita dello Stato Ebraico, attraverso la prima delle tre encicliche che definirono l’ambito delle richieste del Vaticano[52].

La risoluzione dell’ONU sulla spartizione della Palestina del 29 novembre 1947 prevedeva l’internazionalizzazione di Gerusalemme; tale progetto aveva subito, in concomitanza con l’evolversi delle vicende belliche, delle modifiche sostanziali, infatti Gerusalemme era sotto due distinte occupazioni, quella israeliana e quella transgiordana, per cui una commissione era stata incaricata di redigere un progetto che tenesse conto della mutata situazione. In sede di dibattito all’ONU, questo progetto fu poi soppiantato da un altro che prevedeva ancora l’internazionalizzazione della Città Santa, approvato come raccomandazione del Comitato politico speciale all’Assemblea Generale.

L’articolo de «La Stampa» faceva diretto riferimento all’enciclica Auspica Quaedam, in cui il Pontefice Pio XII, «differentemente dagli ambienti politici internazionali che avevano dimenticato che il conflitto palestinese aveva un aspetto ecclesiastico-religioso di importanza primaria, non peccava di una simile dimenticanza». Nell’enciclica, il Pontefice si appellava all’episcopato cattolico affinché fossero rivolte delle preghiere alla Vergine «al fine di impetrare che finalmente le condizioni della Palestina siano composte secondo equità, e che ivi pure trionfi la concordia e la pace». L’articolista scriveva che la grave situazione della Palestina e di Gerusalemme in particolare, teatro di violenti scontri e bombardamenti, destava un profondo rammarico in Vaticano che assisteva con dolore all’impotenza dell’ONU. Il giornalista continuava scrivendo che la Santa Sede auspicava non soltanto una pace tra le due parti in conflitto, che ne tutelasse equamente i diritti, ma anche un effettivo stato di tutela internazionale per i Luoghi Santi. Risulta molto interessante la parte conclusiva dell’articolo in cui si faceva riferimento all’effettiva convergenza di visioni tra il Vaticano e il Governo Italiano, infatti, il giornalista scriveva che «pur rendendosi conto della situazione particolare in cui oggi si trova l’Italia, in Vaticano si sarebbe felicissimi se il nostro Governo (magari in cooperazione con quello dell’altra grande nazione cattolica, la Francia) potesse fare qualcosa per la pacificazione della Palestina e la sicurezza dei Luoghi Santi. È stata rilevata a questo proposito la pubblicazione di un redattore diplomatico dell’Ansa di un paio di giorni fa circa i criteri con cui a Palazzo Chigi si considera la situazione palestinese, criteri che sembrano ingranare molto bene con quelli con cui la considera la Santa Sede». In effetti, il Governo Italiano si era sempre espresso a favore dell’internazionalizzazione di Gerusalemme, soprattutto in riferimento al ruolo che Roma avrebbe potuto svolgere all’interno di questa amministrazione internazionale, riaffermando «l’inammissibilità dell’assenza di un Paese nella peculiare situazione dell’Italia dal progettato regime internazionale»[53]. Il Ministro degli Affari Esteri Sforza aveva espresso l’intenzione del Governo Italiano di avere un ruolo preponderante nel progetto dell’internazionalizzazione «come Paese Cattolico e Mediterraneo avente costì tradizionali interessi d’ordine politico e religioso»[54]. Da questo conseguiva la contiguità di intenti tra Roma e Vaticano in merito allo «status» della Città Santa.

L’influenza vaticana sulla politica italiana aveva un grande peso anche sulle scelte di politica internazionale, infatti Roma non poteva discostarsi troppo dalle posizioni della Santa Sede, anche quando queste furono ritenute troppo rigide. Gli eventi portarono alla fine dei progetti di internazionalizzazione; il Governo di Ben Gurion decise il trasferimento della sua sede a Gerusalemme e il 23 gennaio 1950 la Knesset proclamò Gerusalemme Occidentale capitale dello Stato Ebraico. A questo punto, si assistette a un deciso rallentamento dell’azione diplomatica italiana verso l’internazionalizzazione, mentre la Santa Sede continuò a considerarla un’opzione praticabile, in quanto era giudicata la scelta migliore per l’effettiva protezione degli interessi cattolici. Il riconoscimento «de jure» di Israele da parte del Vaticano sarebbe avvenuto solamente nel 1993.

L’Esecutivo, guidato da Alcide De Gasperi, mantenne per un lungo periodo una posizione incerta sul riconoscimento dello Stato Ebraico, per non danneggiare i tradizionali buoni rapporti con il mondo arabo. Il Governo Italiano aveva deciso di rinviare ogni passo diplomatico verso il nuovo Stato d’Israele poiché in quegli anni stava cercando di mantenere il possesso delle ex colonie, il cui destino era ormai in mano all’ONU, all’interno del quale i Paesi Arabi avevano una certa influenza. Il riconoscimento immediato dello Stato Ebraico, su esempio degli Stati Uniti, avrebbe potuto compromettere un interesse che appariva vitale per la politica estera italiana. Il riconoscimento «de jure» dello Stato Ebraico da parte dell’Italia avvenne il 19 gennaio del 1950.

È significativo che sia mancante nel giornale ogni riferimento alla posizione del Governo Italiano verso la nascita dello Stato d’Israele, probabilmente era così manifestata la linea di neutralità che l’Esecutivo aveva scelto di assumere in merito, una equidistanza sbilanciata verso la parte araba[55]. Tale linea politica avrebbe trovato uno sviluppo significativo nel Partito della Democrazia Cristiana, in cui dagli anni Cinquanta si sarebbero affermati sia il «neoatlantismo»[56] di Giovanni Gronchi sia una corrente molto attenta agli interessi mediterranei e petroliferi, che propendeva per rapporti diplomatici ed economici molto stretti tra Italia e mondo arabo[57], guidata da Enrico Mattei[58].

Per quanto concerne la situazione in Medio Oriente, gli Accordi sottoscritti a Rodi, tra il febbraio e il luglio del 1949, stabilirono il mantenimento dello «status quo».


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Note

1 B. Migliau, F. Tagliacozzo, Gli Ebrei nella storia e nella società contemporanea, La Nuova Italia, Firenze 1993, pagina 414.

2 Direttore de «La Stampa», di origini ebraiche, nacque nel 1890. Fu corrispondente dalla Svizzera per il giornale torinese fino al 1920, quando entrò a far parte de «La Gazzetta del Popolo» come inviato speciale da alcuni Paesi esteri, tra cui Germania e Russia. Tornò a lavorare alla «Stampa» nel 1931, mantenendo la collaborazione con il quotidiano anche dopo l’emanazione delle Leggi Razziali che avevano imposto la cancellazione dei giornalisti israeliti dall’albo professionale e l’espulsione dal sindacato. Dopo una breve parentesi come direttore del giornale «L’Opinione», nel 1947 ritornò alla «Stampa» di cui divenne direttore nel 1948 dopo la morte improvvisa di Filippo Burzio. Da quel momento la sua vita professionale fu legata a quella del giornale torinese. Rimase direttore del quotidiano fino al 1968. De Benedetti innovò profondamente il giornale, aprendolo alla cronaca nazionale e cittadina, con la collaborazione di importanti nomi della cultura italiana, come Luigi Salvatorelli, Arturo Carlo Jemolo, Alessandro Galante Garrone e Carlo Casalegno. Sotto la direzione di De Benedetti il giornale si orientò politicamente verso il socialismo, ritenuto capace di promuovere lo sviluppo economico e sociale del Paese. «La Stampa» considerò sempre positivamente la linea politica di Giuseppe Saragat, leader della socialdemocrazia italiana. La rubrica Specchio dei tempi, ideata da De Benedetti, legò il giornale alla città di Torino, oltre a rappresentare uno strumento di ascolto e formazione dell’opinione pubblica. De Benedetti lasciò la direzione del giornale e la carriera giornalistica nel 1968. Morì a Torino nel 1978. Confronta la Voce, curata da Giuseppe Sircana, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume XXXIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987.

3 A. Papuzzi, A. Magone, Gidibì. Un maestro di giornalismo, Donzelli, Roma 2008, pagina XXII.

4 M. Toscano, La porta di Sion. L’Italia e l’emigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945-1948), Il Mulino, Bologna 1990.

5 Gli Ebrei decisi a tutto se si vieterà loro di sbarcare, «La Nuova Stampa», 5 ottobre 1945.

6 Disordini in Palestina, «La Nuova Stampa», 11 ottobre 1945.

7 La Palestina in fermento, «La Nuova Stampa», 30 settembre 1945.

8 Confronta Il sanguinoso bilancio dell’attentato dinamitardo, «La Stampa», 24 luglio 1946.

9 Confronta Dieci ponti fatti saltare da sabotatori ebrei, «La Stampa», 18 giugno 1946.
L’Esecutivo dell’agenzia ebraica tratto in arresto al completo, «La Stampa», 30 giugno 1946.
Gli estremisti incitano alla rivolta armata, «La Stampa», 2 luglio 1946.
I capi arabi minacciano la resistenza armata, «La Stampa», 4 luglio 1946.
Minacce di far saltare il Comando di polizia, «La Stampa», 25 luglio 1946.
L’azione britannica in Palestina, «La Stampa», 1° agosto 1946.
Attentato dinamitardo contro Sir Cunningham, «La Stampa», 10 ottobre 1946.
Militari britannici rapiti e fustigati, «La Stampa», 31 dicembre 1946.
È saltata la sede dell’Intelligence Service, «La Stampa», 11 settembre 1946.
Sgombero immediato dei civili inglesi, «La Stampa», 1° febbraio 1947.
Tre giorni di sangue, «La Stampa», 14 dicembre 1947.

10 Che cosa promette la terra promessa?, «La Stampa», 9 luglio 1946.

11 Sul sistema costituzionale israeliano, confronta T. Groppi, E. Ottolenghi, A. M. Rabello, Il sistema costituzionale dello Stato d’Israele, Giappichelli, Torino 2006.

12 Storico e giornalista, nacque nel 1886. Titolare della cattedra di Storia del Cristianesimo presso l’Università di Napoli, nel 1921 si dimise per diventare condirettore de «La Stampa», incarico che mantenne fino al 1925. Dopo che il regime fascista aveva messo a tacere la libera stampa, Salvatorelli tornò agli studi, concentrandosi sull’Italia moderna e in particolare sul periodo risorgimentale (Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, 1935; Pensiero e azione del Risorgimento, 1943). Accanto agli studi di Storia del Cristianesimo (fra questi Vita di San Francesco d’Assisi, Bari 1926; San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Bari 1929) e a una ricca produzione saggistica, pubblicò numerose opere sulla storia politica e religiosa d’Italia e sulla storia internazionale dal 1870 in poi (Profilo della storia d’Europa, 1942; La politica internazionale dal 1871 ad oggi, 1946; Il fascismo nella politica internazionale, 1946; Storia d’Italia nel periodo fascista, in collaborazione con G. Mira, 1956; Storia del Novecento, 1957, eccetera). Partecipò alla fondazione (1942-1943) del Partito d’Azione, poi diresse il periodico «La nuova Europa» (1944-1946); dal 1948 tornò a collaborare con «La Stampa». Morì a Roma nel 1974. Confronta la Voce in Dizionario di Storia, Roma 2011 (online).

13 Luigi Salvatorelli, All’incrocio d’Oriente, «La Stampa», 17 agosto 1946.

14 Molti Arabi erano emigrati in Palestina dopo l’importante sviluppo economico del Paese seguito all’immigrazione ebraica. Sul popolo palestinese si vedano in particolare i lavori di tre storici israeliani: B. Kimmerling, J. S. Migdal, I Palestinesi: genesi di un popolo, La Nuova Italia, Firenze 2002; B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, BUR, Milano 2003.

15 Confronta D. Franceschi, L’Italia e il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, http://www.storico.org/italia_boom_economico/trattato_pace.html, marzo 2012.

16 Per il rapporto tra Stati Uniti e Israele, confronta A. Donno, Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (1938-1956), Bonacci, Roma 1992; Idem, Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2009, Le Lettere, Firenze 2013.

17 Drammatico sbarco di 1400 Ebrei a Haifa, «La Stampa», 2 novembre 1946.

18 Lo sciopero della fame nei campi di Rivoli e Grugliasco, «La Stampa», 26 agosto 1947.
Tumulti sedati dalla polizia, «La Stampa», 29 marzo 1947.

19 Un’ora di sommossa in un campo di Ebrei, «La Stampa», 27 aprile 1946.

20 Quaranta chili di tritolo, «La Stampa», 1° novembre 1946.

21 Ancora nessuna luce, «La Stampa», 2 novembre 1946.
Il mistero sarà svelato tra poche ore, «La Stampa», 3 novembre 1946.

22 Alla caccia dei dinamitardi, «La Stampa», 1° novembre 1946.

23 Non si è scoperto nulla, «La Stampa», 5 novembre 1946.

24 Viva inquietudine a Londra per il problema palestinese, «La Stampa», 2 febbraio 1947.

25 La sfida degli Ebrei alla Gran Bretagna, «La Stampa», 12 gennaio 1947.
Duecentomila Arabi marciano sulla Palestina?, «La Stampa», 11 ottobre 1947.
Palestina in fiamme, «La Stampa», 7 dicembre 1947.

26 L’Inghilterra pronta alla cessione dei mandati?, «La Stampa», 15 gennaio 1946.

27 Italo Zingarelli, figlio del filologo Nicola, nacque a Napoli nel 1891 e morì a Roma nel 1979. Nel 1910 divenne redattore de «L’ora» di Palermo e tra i primi collaboratori di Vincenzo Florio nell’organizzazione dell’omonima targa automobilistica. Passato al «Corriere della Sera», diede le dimissioni nel 1918 per entrare a «L’epoca». Tornò al «Corriere» dal 1921 al 1926, mandando corrispondenze da Berlino. Fu poi, sempre dal 1926, direttore per breve tempo de «Il Secolo», poi corrispondente da Vienna per lo stesso giornale e dalla metà del 1927 per «La Stampa». Dal 1952 diresse «Il Globo». Fu autore di numerosi studi storico-politici. Confronta G. Licata, Storia del «Corriere della Sera», Rizzoli, Milano 1976, pagina 644.

28 Italo Zingarelli, Arabi ed Ebrei dopo la spartizione, «La Stampa», 3 dicembre 1947.

29 Luigi Salvatorelli, Palestina in fiamme, «La Stampa», 25 dicembre 1947.

30 Giornalista e inviato, nacque nel 1891. Laureatosi in giurisprudenza presso l’Università di Bologna, iniziò a collaborare giovanissimo con «Il Resto del Carlino», dove fu assunto nel 1921 come stenografo. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale come volontario nel reggimento Alpini. Nel 1920 ottenne dal direttore del quotidiano «Il Resto del Carlino», Mario Missiroli, il primo incarico come inviato speciale, dovendo seguire il conflitto tra l’Unione Sovietica e la Polonia per il possesso della Lituania. Negli anni Venti, iniziò la sua collaborazione con «La Stampa» di Luigi Salvatorelli, come corrispondente dalla Germania. Nel 1926 lasciò il quotidiano torinese per passare al «Corriere della Sera», in cui rimase fino al 1929. Fu assunto poi dalla «Gazzetta del Popolo», diretta da Ermanno Amicucci. Nel 1937 divenne per il «Corriere della Sera», sotto la direzione di Aldo Borelli, corrispondente del quotidiano milanese a Parigi. Con l’entrata in guerra dell’Italia, Monelli si trovò sul fronte africano. Nonostante una prima accoglienza positiva del regime fascista, successivamente il giornalista se ne distaccò, decidendo di proseguire la sua attività di pubblicista di guerra al seguito del Corpo Italiano di Liberazione. Dopo il Secondo Conflitto, riprese la carriera giornalistica prima alla «Stampa», durante la lunghissima direzione di Giulio De Benedetti e in seguito, dal 1967, nuovamente al «Corriere della Sera». Monelli collaborò anche ai nuovi rotocalchi: «L’Europeo», «Il Mondo» ed «Epoca». Morì a Roma nel 1984. Confronta la Voce, curata da Giorgio Zanetti, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume LXXV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2011.

31 Un ponte fatto saltare dagli Ebrei in Palestina, «La Stampa», 13 gennaio 1948.
Si cercano tra le macerie le 70 vittime dell’esplosione, «La Stampa», 22 febbraio 1948.
Paolo Monelli, Allucinante atmosfera a Gerusalemme, «La Stampa», 26 febbraio 1948.
Paolo Monelli, Angoscia di gente braccata, «La Stampa», 28 febbraio 1948.
Due attentati in Palestina contro il comandante inglese, «La Stampa», 2 marzo 1948.
Paolo Monelli, Il naso del cammello, «La Stampa», 18 marzo 1948.
Paolo Monelli, Aria diversa a Tel Aviv, «La Stampa», 6 aprile 1948.
Forze corazzate siriane in marcia verso la Palestina, «La Stampa», 22 aprile 1948.
La battaglia infuria a Salad, «La Stampa», 23 aprile 1948.
Paolo Monelli, Re Abdallah di Transgiordania vuole la corona della Palestina, «La Stampa», 27 aprile 1948.
L’attacco su tre fronti sta per essere sferrato, «La Stampa», 27 aprile 1948.
Si muove la Lega Araba?, «La Stampa», 24 aprile 1948.
Truppe della Lega Araba cominciano ad affluire in Palestina, «La Stampa», 28 aprile 1948.
Tregua d’armi a Giaffa, «La Stampa», 30 aprile 1948.
Medici e infermieri mobilitati in Palestina, «La Stampa», 28 aprile 1948.
La grave situazione in Palestina esposta da Bevin ai Comuni, «La Stampa», 29 aprile 1948.
Nell’agitato Prossimo Oriente, «La Stampa», 3 maggio 1948.
Le misure di Londra per proteggere i civili, «La Stampa», 4 maggio 1948.
Abdallah rivendica l’intera Palestina, «La Stampa», 5 maggio 1948.
Paolo Monelli, I «sette grandi» del mondo arabo, «La Stampa», 5 maggio 1948.
La tregua d’armi rotta a Gerusalemme, «La Stampa», 12 maggio 1948.
Arabi ed Ebrei pronti ad occupare la Palestina, «La Stampa», 14 maggio 1948.
Il Governo Egiziano non accetta la tregua in Palestina, «La Stampa», 15 maggio 1948.
Tel Aviv bombardata all’alba da Spitfire, «La Stampa», 15 maggio 1948.
Il Governo Egiziano ordina l’invasione della Palestina, «La Stampa», 15 maggio 1948.
Italo Zingarelli, Primo giorno di guerra in Palestina, «La Stampa», 16 maggio 1948.
Una lotta aspra, «La Stampa», 16 maggio 1948.
La guerra in Palestina, «La Stampa», 18 maggio 1948.
Sulla piana di Tel Aviv la grande battaglia, «La Stampa», 19 maggio 1948.
Disperata resistenza ebraica tra le case di Gerusalemme, «La Stampa», 21 maggio 1948.
La vecchia Gerusalemme è un cumulo di rovine, «La Stampa», 22 maggio 1948.
Gli Arabi al muro del pianto, «La Stampa», 23 maggio 1948.
Gli Arabi contro la tregua, «La Stampa», 25 maggio 1948.
Calano i beduini per la strage e lo sterminio, «La Stampa», 25 maggio 1948.
Vero Roberti, Tentativo di sortita delle forze ebraiche, «La Stampa», 26 maggio 1948.
Azione anglo-americana per sospendere le ostilità, «La Stampa», 26 maggio 1948.
La proposta di tregua respinta dall’Arabia Saudita, «La Stampa», 26 maggio 1948.
Vero Roberti, Respinta la tregua dagli Arabi, gli Ebrei accentuano la resistenza, «La Stampa», 27 maggio 1948.
L’assedio della fame fino all’ultimo fortilizio, «La Stampa», 27 maggio 1948.
Gli ufficiali inglesi verrebbero ritirati, «La Stampa», 28 maggio 1948.
Sui volontari della morte il fuoco delle artiglierie arabe, «La Stampa», 28 maggio 1948.
Verso la battaglia decisiva, «La Stampa», 29 maggio 1948.
Bandiera bianca a Gerusalemme, «La Stampa», 29 maggio 1948.
Arabi ed Ebrei accettano la tregua, «La Stampa», 2 giugno 1948.
La tregua in Palestina dovrebbe iniziare venerdì, «La Stampa», 9 giugno 1948.
Gli Ebrei disposti ad accettare una proroga, «La Stampa», 8 luglio 1948.
La tregua in Palestina forse ancora possibile, «La Stampa», 10 luglio 1948.
Sogno di un Re, «La Stampa», 10 giugno 1948.

32 Giovanni Artieri, Parla un terrorista, «La Stampa», 30 maggio 1948.
Idem, Mentre la mosca bianca vola nel cielo della Palestina, «La Stampa», 15 giugno 1948.
Idem, Un Ministro d’Israele, «La Stampa», 17 giugno 1948.
Idem, La metodica vita in comune di una grossa fattoria socialista, «La Stampa», 20 giugno 1948.
Idem, Sosta sul lago di Gesù, «La Stampa», 20 luglio 1848.
Idem, Un cadavere abbandonato, «La Stampa», 29 luglio 1948.
Idem, Qui non è Gerusalemme, «La Stampa», 8 agosto 1948.
Idem, Passaporto della fede tra armi e armati, «La Stampa», 11 agosto 1948.
Idem, Neppur l’ombra di un Ebreo entro Gerusalemme vecchia, «La Stampa», 14 agosto 1948.

33 Paolo Monelli, Il terrore nella terra di Gesù, «La Stampa», 2 marzo 1948.
Idem, Mitra sotto le sottane, «La Stampa», 31 marzo 1948.
Idem, I gusti della Palestina, «La Stampa», 11 aprile 1948.
Idem, Comincia la guerra, «La Stampa», 15 maggio 1948.

34 Confronta Italo Zingarelli, Primo giorno di guerra in Palestina, «La Stampa», 16 maggio 1948.
Italo Zingarelli, Tramonto di Truman, «La Stampa», 17 ottobre 1948.

35 Sull’atteggiamento inglese, confronta Apprensione a Londra per l’atteggiamento americano, «La Stampa», 24 febbraio 1948.
Le tre condizioni di Londra per riconoscere lo Stato d’Israele, «La Stampa», 20 maggio 1948.

36 Confronta Claudio Vercelli, opera citata, pagina 164.

37 Italo Zingarelli, Tramonto di Truman, «La Stampa», 17 ottobre 1948.

38 E. Stephens, Us Policy towards Israel: The Role of Political Culture in Defining the «Special Relationship», Sussex Academic Press, Brighton and Portland, OR, 2006, pagina 9.

39 D. Ben Gurion, Rebirth and Destiny of Israel (1954).

40 Giornalista e inviato speciale, nacque a Napoli nel 1904. Fece parte delle redazioni del «Mezzogiorno» e de «Il Mattino» di Napoli. Fu inviato speciale de «La Stampa» sui vari fronti di guerra, dal 1953 vice direttore de «Il Tempo» di Roma. Collaborò alla rivista «900» di Massimo Bontempelli. Tra i suoi lavori si segnalano: Napoli nobilissima (Milano 1955), Funiculì, funiculà (ivi 1957), La quinta Napoli (ivi 1960). È morto nel 1995. Confronta la Voce in Enciclopedia Italiana, III appendice, Roma 1961.

41 Giovanni Artieri, Lo Stato d’Israele, «La Stampa», 17 agosto 1948.

42 Sull’atteggiamento del Vaticano, confronta G. Miccoli, Tra memoria, rimozioni e manipolazioni: aspetti dell’atteggiamento cattolico verso la Shoah, in «Qualestoria», numero 3 (1991); Idem, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda Guerra Mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2000; Idem, L’atteggiamento delle Chiese durante l’Olocausto, in Storia della Shoah, Volume I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli Ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, UTET, Torino 2005, pagine 1078-1108.

43 Confronta G. Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni, Guerini, Milano 2006; P. A. Carozzi (a cura di), Israel-Eugenio Zolli. Un semitista tra religioni e storia, Il Poligrafo, Padova, 2009; G. Schwarz, Ritrovare se stessi, pagine 29-30, 204; B. Di Porto, Conversioni dall’Ebraismo e all’Ebraismo in Italia dalla fine dell’Ottocento ad oggi, in «Hazman Veharaion – Il tempo e l’idea», numeri 1-24 (dicembre-gennaio 2016), pagine 71-73.

44 Confronta T. Groppi, E. Ottolenghi, A. M. Rabello, Il sistema costituzionale dello Stato d’Israele, Giappichelli, Torino 2006.

45 Confronta C. Klein, Israele. Lo Stato degli Ebrei, Giunti Castermann, Firenze 2000, pagine 109-111.

46 Giovanni Artieri, Felici e un po’ nostalgici gli Ebrei Italiani in Palestina, «La Stampa», 11 luglio 1948.
Sugli Ebrei Italiani emigrati in Palestina, confronta A. Marzano, Una terra per rinascere. Gli Ebrei Italiani e l’emigrazione in Palestina prima della guerra, Marietti, Genova 2003; A. Sereni, I clandestini del mare, Mursia, Milano 2006.

47 Giovanni Artieri, L’Ebreo moderno, «La Stampa», 25 giugno 1948.

48 Luigi Salvatorelli, Tregua e pace, «La Stampa», 11 giugno 1948.

49 Sull’assassinio di Folke Bernadotte, confronta Bernadotte assassinato nel quartiere ebraico di Gerusalemme, «La Stampa», 18 settembre 1948.
Salvatore Aponte, L’uomo della pace, «La Stampa», 18 settembre 1948.
Coprifuoco a Gerusalemme per l’assassinio di Bernadotte, «La Stampa», 19 settembre 1948.
Il profondo rammarico delle Nazioni Unite, «La Stampa», 19 settembre 1948.

50 Il Vaticano e la Terrasanta, «La Stampa», 18 maggio 1948.

51 Per la questione dei Luoghi Santi e di Gerusalemme, confronta P. Pastorelli, La Santa Sede e il problema di Gerusalemme, «Storia e Politica», 1982; G. E. Irani, The Papacy and the Middle East. The Role of The Holy See in the Arab-Israeli Conflict 1962-1984, Notre Dame University Press, Notre Dame (Ind) 1989; S. Ferrari, Vaticano e Israele dal Secondo Conflitto Mondiale alla Guerra del Golfo, Sansoni, Firenze 1991; A. Giovannelli, La Santa Sede e la Palestina. La custodia di Terrasanta tra la fine dell’Impero Ottomano e la Guerra dei Sei Giorni, Studium, Roma 2000; P. Pieraccini, Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose nella politica internazionale, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996; Idem, La questione di Gerusalemme: profili storici, giuridici e politici (1920-2005), Il Mulino, Bologna 2005.
Per la raccolta degli atti della Santa Sede sul tema dei Luoghi Santi, confronta E. Farhat, Gerusalemme nei documenti pontifici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1987.

52 La prima enciclica, Auspica Quaedam, fu emanata il 1° maggio 1948; la seconda, In Multiciplibus Curis, fu emanata il 24 ottobre 1948; la terza, Redemptoris Nostri, fu pubblicata il 15 aprile 1949.

53 Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Parigi, b. 442, f. 1, s. f. Internazionalizzazione della città di Gerusalemme.

54 Sforza a Silimbani, 27 gennaio 1948 in Documenti Diplomatici Italiani, Serie X, volume VII, d. 182.

55 Sulla posizione dell’Italia verso Israele, confronta B. Bagnato, La politica «araba» dell’Italia vista da Parigi (1949-1955), in «Storia delle Relazioni Internazionali», 1 (1989), pagine 115-155; L. Cremonesi, Dal rispetto del boicottaggio arabo alle ambizioni di mediazione. L’Italia e Israele verso la crisi di Suez, in L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), a cura di E. Di Nolfo, R. H Rainero, B. Vigezzi, Marzorati, Milano 1992, pagine 103-132; L. Riccardi, L’Italia e la nascita d’Israele, in «Clio», 38/2 (2002), pagine 299-335; Idem, La politica estera italiana, Israele e il Medio Oriente alla vigilia della crisi di Suez, in «Clio», 39/4 (2003), pagine 629-669; I. Tremolada, All’ombra degli Arabi. Le relazioni italo-israeliane 1948-1956: dalla fondazione dello Stato d’Israele alla crisi di Suez, M&B Publishing, Milano 2003.

56 Sul neoatlantismo, confronta V. Ianari, L’Italia e il Medio Oriente: dal «neoatlantismo» al peace-keeping, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Sessanta. Tra guerra fredda e distensione, a cura di A. Giovagnoli, S. Pons, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, pagine 383-395.

57 Confronta D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla Guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Rubettino, Soveria Mannelli 2006, pagine 22-23.

58 Confronta L. Maugeri, L’arma del petrolio. Questione petrolifera globale. Guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994; A. Toniolo, Il sogno proibito. Mattei, il petrolio arabo e le Sette Sorelle, Polistampa, Firenze 2003.

(gennaio 2011; ripubblicato: giugno 2019)

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