La guerra civile in Sud Sudan: genesi, effetti e dinamiche
Uno scontro in cui è difficile distinguere tra le motivazioni etniche e quelle politiche, e che rischia di innescare un circolo vizioso di vendette

Ogni guerra civile ha delle caratteristiche proprie, non comparabili con altri conflitti, poiché trae la sua origine dal passato e dalle particolarità dello stato che ne è coinvolto, tuttavia, nel contesto africano, l’aspetto etnico acquisisce sempre un ruolo predominante, come evidenzia la guerra civile in Sud Sudan, esplosa nel 2013 a soli due anni dall’indipendenza dal Sudan.

La complessità geopolitica regionale della guerra civile in Sud Sudan mostra, ancora una volta, quanto il ricorrere delle guerre civili su base etnica rappresenti uno dei maggiori ostacoli al progresso democratico in Africa. Inoltre, nel caso del Sud Sudan, si assiste ad un fenomeno molto pericoloso, poiché, nella spirale di violenza etnica esistente molte comunità si sono allineate con le fazioni militari, fornendo al conflitto una natura etnico-militare che ricorda i passati scontri all’interno del Sudan People Liberation Army.

L’evolversi della crisi che sta attanagliando la Repubblica del Sud Sudan è comprensibile solo attraverso un’analisi del contesto politico e istituzionale caratterizzante il giovanissimo stato dopo l’indipendenza.

La crisi attuale riflette le tensioni esistenti tra i leader sudanesi del Sud fin dalla guerra civile del Sudan (1983-2005); il conflitto Nord-Sud ha in parte offuscato le lotte interne tra i comandanti ribelli del Sud, lotte che hanno quasi impedito il raggiungimento dell’autodeterminazione. I leader del Sudan People Liberation Movement/Army (SPLM/SPLA) hanno ingaggiato un’aspra competizione per il potere, mobilitando i propri sostenitori secondo criteri etnici, con il conseguente proliferare di atrocità contro gli avversari. È opportuno ricordare che gli acronimi SPLM e SPLA si riferiscono, rispettivamente, al braccio politico e a quello armato della maggiore forza di insurrezione del Sud. Dopo l’indipendenza, l’SPLM è divenuto il partito di governo, mentre l’SPLA rappresenta le Forze Armate.

Nel 1990, durante la guerra Nord-Sud del Sudan, Riek Machar, un comandante di etnia Nuer, denunciava, insieme ad altri, sia la direzione centralizzata del SPLM/A sotto la guida di John Garang, di etnia Dinka, sia la violazioni dei diritti umani, mostrandosi, inoltre, in disaccordo sulla rivolta contro Khartoum. Machar e i suoi alleati, principalmente di etnia Nuer e Shilluk, si accordarono con il Governo di Khartoum detenendo, brevemente, delle posizioni di comando nell’Esecutivo.

Il conflitto tra Machar e Garang è costato la vita a migliaia di Sudanesi; secondo Amnesty International, almeno 2.000 civili di etnia Dinka furono uccisi in una serie di raid conosciuti come il «massacro di Bor», dal nome della città in cui truppe fedeli a Machar di etnia Nuer compirono la strage. I massacri di civili non furono prerogativa esclusiva di una sola fazione, ma una caratteristica di tutte le milizie operanti sul territorio, alimentando, in questo modo, l’odio interetnico soprattutto nell’area dell’Alto Nilo. Il Governo di Khartoum ha incrementato le divisioni interne all’SPLM finanziando e armando le fazioni separatiste. I principali movimenti si sono riconciliati nei primi anni 2000, anche se milizie più piccole hanno continuato ad operare autonomamente.

Machar si riavvicinò al Sudan People Liberation Movement nei primi anni 2000, assumendo la terza carica del movimento, dopo Garang e il suo vice, Salva Kiir.

Nel 2005, il Governo di Khartoum e l’SPLM firmarono un accordo di pace, il Comprehensive Peace Agreement (CPA), per porre fine alla guerra Nord-Sud. Il trattato aprì la strada alle elezioni nazionali e al referendum sull’indipendenza del Sud, indipendenza divenuta effettiva il 9 luglio del 2011.

Dopo la morte di Garang in un incidente aereo nel 2005, poco dopo la firma dell’accordo di pace, Kiir divenne capo dell’SPLM e Machar suo vice.

Il Sudan tenne le elezioni nazionali nel 2010, prima del referendum del 2011 per l’indipendenza del Sud.

Secondo l’accordo, nel periodo di transizione l’SPLM avrebbe formato un Governo provvisorio di unità nazionale con il partito al governo in Sudan. Salva Kiir è stato, in qualità di Presidente dell’SPLM, Vice Presidente sotto il Presidente Sudanese Omar al Bashir e, contemporaneamente, Presidente di un semiautonomo Governo del Sud Sudan (GoSS). Dopo l’indipendenza nel 2011, Kiir mantenne il suo incarico, con Machar come suo Vice Presidente, secondo i dettami della Costituzione di transizione allora in vigore.

È interessante soffermarsi brevemente sulle relazioni tra il Sudan e il Sud Sudan dopo l’indipendenza; i rapporti tra i due Paesi rimasero tesi, poiché parti significative del Comprehensive Peace Agreement non erano state ancora attuate. In particolare, risultava, e risulta ancora oggi, estremamente problematica la questione delle risorse petrolifere; infatti, il Sudan ha perso la maggior parte delle sue riserve di petrolio, ora nel territorio del Sud Sudan, conservando, tuttavia, gli oleodotti e gli impianti per la raffinazione del greggio. Preliminarmente, le parti avevano convenuto che il Sudan dovesse ottenere delle compensazioni per le perdite subite, beneficiando di una parte degli introiti dell’esportazione; ciò nonostante, non sono stati mai chiariti i dettagli.

I rapporti tra i due stati sono peggiorati a partire dal gennaio del 2012, allorquando il Governo del Sud Sudan, irritato dalle decisioni unilaterali di Khartoum per quanto riguardava le esportazioni di petrolio del Sud (che transita attraverso il Sudan per l’esportazione), e da dispute di confine, ha sospeso la produzione di petrolio per più di un anno, imponendo misure di austerità e uno shock economico in entrambi i Paesi. La produzione di greggio in Sud Sudan è ricominciata nel 2013, dopo la ripresa dei negoziati tra le due parti.

Nel 2013, dal punto di vista politico, la crisi all’interno dell’SPLM è andata crescendo, a causa dei notevoli disaccordi sulla leadership del partito e sulla sua direzione futura. Con l’approssimarsi delle elezioni del 2015, l’urgenza di prendere decisioni difficili è aumentata, contemporaneamente alle divisioni all’interno del partito. Questioni quali il censimento nazionale, la Costituzione e le elezioni hanno iniziato a imperniarsi sul supporto o sull’opposizione al Presidente, Salva Kiir. In effetti, data la problematica fusione tra partito e stato, chi aveva la leadership del primo, otteneva il controllo anche del secondo.

Sin dalla sua fondazione nel 1983, l’SPLM ha lottato per stabilire al suo interno dei processi democratici, ma sono state necessarie alleanze mutevoli e instabili per mantenerne la coesione. I sei anni successivi al Comprehensive Peace Agreement avrebbero dovuto consentire al partito di trasformarsi da movimento di liberazione a partito politico coeso e in grado di governare. Al momento dell’indipendenza, i progressi erano stati limitati. Nel 2012, dopo l’approvazione della legge sui partiti, l’SPLM avrebbe dovuto registrarsi formalmente come partito politico e presentare una costituzione. I dibattiti all’interno sono stati molto accesi, soprattutto riguardo alla scelta del Presidente.

Occasioni importanti di risolvere queste controversie sono state tralasciate: il convegno nazionale del partito, previsto per il maggio del 2013, è stato più volte rimandato, così come le riunioni dell’Ufficio Politico e del National Liberation Council (NLC), in cui i rivali del Presidente Salva Kiir sembravano avere maggiori sostenitori.

Data l’incapacità del partito di risolvere le controversie sulla sua leadership, il conflitto si è esteso alla sfera istituzionale.

Nel luglio del 2013, in base alle prerogative concessegli dalla Costituzione di transizione, il Presidente Kiir ha estromesso dai loro incarichi Machar e il Generale Pagan Amum, Segretario dell’SPLM, inoltre ha rimpiazzato la maggior parte del Gabinetto. È interessante notare che molti dei Ministri allontanati sono stati sostituiti con «outsiders», tra cui membri del National Congress Party, il partito di governo in Sudan. Il rimpasto politico agli alti livelli dello stato e del partito sarebbe sfociato, entro breve tempo, in uno scontro armato.

Fuori dal governo, i funzionari estromessi hanno cercato di combattere all’interno del partito e nella sfera pubblica. Il 6 dicembre, Machar, Rebecca Nyadeng de Mabior, consigliere presidenziale e vedova di John Garang, e Pagan Amum indissero una conferenza stampa a Juba, in cui denunciavano «la perdita di visione del partito» e accusavano il Presidente Kiir di «tendenze dittatoriali». Risulta di particolare importanza riportare il passo più significativo della dichiarazione: «Il Presidente dell’SPLM ha completamente immobilizzato il partito, abbandonato la leadership collettiva e gettato tutte le pretese democratiche per il processo decisionale. L’SPLM non è più il partito di governo. Il leader del Forum del Sud Sudan Democratico è a capo del Gabinetto di Governo e infiltrati del National Congress Party hanno la leadership dell’Assemblea Legislativa Nazionale e del Consiglio di Stato».

Nel tentativo di arginare la crisi, si è tenuta, il 14 dicembre, la riunione, a lungo rimandata, del National Liberation Council (NLC). Nel corso della riunione, Kiir ha ottenuto la rimozione di Pagan Amun e la modifica della modalità di votazione, che sarebbe stata per alzata di mano e non più a scrutinio segreto. Questa modifica è stata ampiamente deplorata da svariate figure dell’opposizione, che sostenevano l’improbabilità di un voto pubblico contrario al Presidente. Secondo membri dell’SPLM, i metodi usati dal Presidente per ottenere l’approvazione delle risoluzioni da lui sostenute erano antidemocratici e intimidatori. La sessione dell’NLC è stata boicottata dai funzionari estromessi e dai loro sostenitori, che furono arrestati la sera del 15 dicembre, la data di inizio del conflitto armato.

Il conflitto iniziale sembra essere avvenuto tra soldati appartenenti ai due maggiori gruppi etnici, Dinka e Nuer, che sostenevano rispettivamente Kiir e Machar. In seguito, i combattimenti si sono diffusi in tutta la capitale, Juba, per poi estendersi ad altre parti del Paese, incluso lo stato orientale di Jonglei, dove più di 100.000 persone sono fuggite a causa della violenza e dell’instabilità.

Il conflitto etnico non ha coinvolto soltanto le etnie Dinka e Nuer, ma anche il gruppo dei Murle. Prima del dicembre del 2013, vi erano molteplici gruppi armati di opposizione, molti composti da minoranze etniche che guardavano con sospetto ai leader Dinka e Nuer. Questi gruppi etnici minori avevano rimostranze di lunga data, simili ma non identiche a quelle del gruppo legato a Riek Machar. La fazione Sud Sudan Democratic Movement-Cobra (SSDM), in cui il gruppo etnico dei Murle è maggioritario, era già impegnata in un durissimo confronto con il Governo nel Sud del Jonglei, in cui erano avvenuti abusi e violenze contro i civili Murle da parte dell’SPLA e della polizia ausiliaria. I rappresentanti dell’SSDM richiedevano la formazione di uno stato separato lungo i confini dell’ex contea Pibor; la fine della loro marginalizzazione economica e politica; un’indagine all’interno dell’SPLA sui crimini commessi contro i Murle.

I tentativi di alti dirigenti, spesso guidati da Kiir, per una riconciliazione con i vari gruppi armati e con le comunità locali sono in corso da oltre un decennio. I successivi atti del Presidente, tra cui l’amnistia per coloro che avevano combattuto contro l’SPLM e l’inclusione nelle forze armate di leader di altre fazioni, possono essere ascritti alla volontà di pervenire ad una riconciliazione, tuttavia è possibile notare come queste azioni abbiano minato la stabilità politica del giovane stato.

Nella capitale, personalità politiche e militari di alto livello sono state arrestate per quello che il Presidente Kiir ha descritto come un tentativo di colpo di stato guidato da Machar, tuttavia, secondo il giudizio di funzionari degli Stati Uniti, non vi era alcuna prova che fosse in corso un colpo di stato.

Dal punto di vista militare, poco dopo questi arresti, le forze fedeli a Machar controllavano le capitali degli stati di Jonglei e di Unity, oltre ai giacimenti petroliferi nello stato dell’Alto Nilo, territorio che ha registrato il maggior numero di scontri armati.

Il potenziale di crisi intrinseco nel Sud Sudan non era imprevisto, infatti, molti analisti argomentavano che la violenza sarebbe stata scatenata dalle dispute politiche tra le élite, riflettendosi, successivamente, sulle profonde tensioni etniche. Storicamente, queste tensioni sono emerse tra le comunità in competizione tra loro per i pascoli e l’accesso all’acqua, tensioni rese più pericolose dal fatto che queste comunità sono rimaste armate anche dopo la fine della guerra civile.

Con il moltiplicarsi di notizie sulle atrocità commesse su base etnica, il Dipartimento di Stato Americano ha avvisato del potenziale di violenza derivante non solo dai possibili scontri tra le forze del Sudan e del Sud Sudan, ma anche tra le forze armate e le molteplici milizie ribelli. Il Dipartimento di Stato ha ripetutamente messo in evidenza che tali scontri interni avrebbero potuto esacerbare le tensioni etniche in tutto il Paese, portando ad ulteriori violenze. Secondo tale analisi, il Governo del Sud Sudan aveva una capacità limitata di fronteggiare la criminalità e garantire la sicurezza, inoltre le forze armate spesso operavano al di fuori del controllo civile e le leggi sul giusto processo e sull’equo trattamento dei detenuti erano ignorate.

Durante la guerra civile Nord-Sud, le armi leggere erano proliferate, e gli sforzi da parte dell’SPLM/A di disarmare le comunità erano stati controversi, spesso accompagnati dall’accusa di favoritismi su base etnica e di abusi. L’opera di disarmo nell’area dell’Alto Nilo si è dimostrata particolarmente difficile, dato l’emergere di molteplici milizie, in cui erano confluiti i Nuer, gli Shilluk e i Murle, gruppi etnici vicini a Khartoum e contrari all’SPLM/A durante la guerra Nord-Sud. Inoltre, molte comunità locali hanno cercato di conservare le armi per l’autodifesa, soprattutto contro il furto del bestiame.

Oltre a ciò, è possibile osservare come l’incorporazione nelle forze armate del Sud Sudan di ex combattenti delle milizie con poca o nessuna formazione professionale abbia reso l’esercito poco controllabile.

Vi è un ulteriore aspetto della guerra civile in Sud Sudan che risulta particolarmente preoccupante: giovani e giovanissimi, appartenenti a diversi gruppi etnici, si mobilitano per la difesa delle comunità di appartenenza, senza alcun leader politico di riferimento, innescando un circolo vizioso di violenza e vendetta. Nella guerra civile in Sud Sudan risulta difficile distinguere tra le motivazioni etniche e quelle politiche, spesso drammaticamente intrecciate. Le identità etniche Dinka e Nuer, i gruppi maggioritari, sono state deliberatamente politicizzate durante la seconda guerra civile, inoltre, strutture militarizzate all’interno delle comunità locali, come il «gelweng» e il «titweng» (milizie armate e organizzate di giovani di etnia Dinka, utilizzate per la difesa della comunità e per la razzia nei territori vicini), e l’Esercito Bianco, «Bunam» (di etnia Nuer), sono rimasti punti di riferimento per molti giovani Dinka e Nuer.

L’instabilità derivante dalla guerra civile nel Sud Sudan si riflette anche sulla regione nel suo complesso, coinvolgendo stati come Etiopia, Kenya e Sudan che, in concomitanza con il progredire del conflitto, hanno subito perdite economiche, flussi enormi di rifugiati, e paventano un impegno militare di lungo periodo e una perdurante instabilità regionale.

Il Presidente del Sudan Bashir ha espresso pubblicamente il suo appoggio verso Salva Kiir, dato l’interesse del Governo di Khartoum per la stabilità interna del Sud Sudan. Le entrate derivanti dal petrolio sono molto importanti sia per Khartoum sia per Juba, e il controllo sui giacimenti petroliferi del Sud Sudan risulta cruciale nelle previsioni del Sudan sull’evoluzione del conflitto. I giacimenti petroliferi del Sud Sudan hanno sperimentato decenni di conflitto violento, coinvolgendo molti degli attori implicati adesso. Dalla metà del 2013, i rapporti tra il Presidente del Sudan Bashir e il Presidente Kiir sono migliorati, consentendo a Khartoum di cooperare con i Paesi vicini negli ambiti della sicurezza e dell’economia.

Quando il conflitto è divampato nello stato di Unity, con la defezione della quarta divisione del comandante James Koang Chuol, i giacimenti sono divenuti campi di battaglia, causando il blocco della produzione, data la fuga degli addetti. Il Governo del Sud Sudan ha ripreso il controllo della maggior parte delle aree di produzione del petrolio con il supporto del JEM (Justice and Equality Movement), una forza paramilitare facente parte del Sudan Revolutionary Front (SRF) in lotta contro il Governo di Khartoum. L’SPLM/A all’opposizione, dopo aver conquistato Malakal alla fine del febbraio del 2014, ha adesso come obiettivo i giacimenti dell’Alto Nilo; gli avversari del Presidente Kiir sono consapevoli della posta in gioco per il Sudan, perciò si sono dichiarati pronti a negoziare con Khartoum sulla condivisione dei proventi della vendita del petrolio se fosse stata garantita la sicurezza delle aree di produzione. Molti osservatori ritengono che il Sudan potrebbe supportare pubblicamente il Governo di Juba e, contemporaneamente, aiutare l’opposizione all’interno dell’SPLA. Inoltre, data la continua ostilità tra Khartoum e Kampala, la presenza dell’Uganda e di alcuni gruppi di opposizione sudanesi al fianco di Juba, rischia di spingere Khartoum a fianco di Machar. Il rapporto problematico tra l’Uganda e il Sudan si è concretizzato nel supporto che entrambi hanno fornito per decenni ai movimenti dei ribelli della controparte.

Le tensioni tra Juba e Khartoum sono aumentate dopo il referendum unilaterale dell’area di Abyei, una zona ricca di giacimenti minerari al confine tra i due stati, e gli scontri di basso livello. Inoltre, il confine Sudan-Sud Sudan ospita circa 200.000 rifugiati sudanesi, oltre a gruppi armati sudanesi, come le forze paramilitari del JEM e dell’SPLM/N, facenti parti del Sudan Revolutionary Front (SRF). È indicativo della natura regionale del conflitto che il JEM abbia già in passato combattuto a fianco del Governo del Sud Sudan.

La presenza a fianco del Sud Sudan di gruppi armati dell’opposizione al Governo di Khartoum potrebbe spingere il Sudan verso un intervento diretto nel conflitto, come testimoniano le parole di un alto ufficiale sudanese: «Noi siamo veramente neutrali, ma non c’è garanzia che questo durerà. Se il Governo del Sud Sudan sostiene l’SRF, dovremo intervenire direttamente».

Un simile coinvolgimento significherebbe, inoltre, che il Sudan e l’Uganda intendono porre fine ai loro contrasti attraverso la guerra in Sud Sudan.

Dati i molteplici interessi coinvolti, sul territorio del Sud Sudan vi sono milizie anche di altri Paesi, infatti si segnala la presenza, a fianco del Governo di Kiir, della milizia Mouvement Du 23 Mars, M23, attiva nella Repubblica Democratica del Congo nel biennio 2012-2013.

L’Uganda ha fornito un supporto militare diretto al Governo del Presidente Kiir per difendere e riconquistare il territorio; forze associate con i gruppi sudanesi supportati dall’Uganda, in particolare il JEM, sono intervenute al fianco di altri gruppi regionali che sostengono il Governo. L’Uganda ha profondi legami con l’SPLM/A, sviluppati in decenni di spiegamenti militari congiunti. Quando è iniziato il conflitto nel dicembre del 2013, l’Ugandan People’s Defence Force (UPDF) era schierato a fianco dell’SPLA in un’operazione militare regionale volta a combattere il Lord’s Resistance Army (LRA), una milizia insurrezionale ugandese che sta portando il caos nella Repubblica Centro Africana, nella Repubblica Democratica del Congo e nel Sud Sudan. L’intervento attivo dell’Uganda è stato tacitamente approvato dagli Stati Uniti, sebbene l’UA, l’ONU e l’IGAD abbiano paventato che un simile coinvolgimento potesse mettere in discussione la loro neutralità, data l’appartenenza dell’Uganda alle tre istituzioni. L’intervento dell’Uganda ha provocato le rimostranze soprattutto dell’Etiopia, che chiede il ritiro delle forze armate ugandesi dal Sud Sudan. Anche l’opposizione nell’SPLM ha chiesto, come precondizione per la partecipazione ai negoziati, il ritiro delle truppe ugandesi.

Soldati ugandesi

Soldati dell'Ugandan People's Defence Force vicino ai confini del Sud Sudan nel 2014

Il coinvolgimento diretto dell’Uganda non rappresenta, tuttavia, un’eccezione; gli spiegamenti militari dell’Etiopia e del Kenya in Somalia, prima della loro partecipazione ufficiale alla missione dell’UA (AMISOM), sono indicativi della propensione degli stati della regione al coinvolgimento nei conflitti dei Paesi vicini.

L’Etiopia e il Kenya hanno una lunga storia di supporto all’SPLM/A, in precedenza prevalentemente militare, successivamente diplomatico, infatti soprattutto il Kenya ha svolto un ruolo cruciale nei negoziati sul Comprehensive Peace Agreement. Dopo anni in cui entrambi questi Paesi avevano dovuto sopportare il peso dei profughi e dell’instabilità, l’indipendenza del Sud Sudan aveva significato l’instaurarsi di positive relazioni economiche e diplomatiche. L’Etiopia, attraverso l’ambasciatore Mesfin, sta guidando gli sforzi di mediazione dell’IGAD, inoltre detiene un ruolo chiave nel miglioramento delle relazioni Sudan-Sud Sudan, supportando la missione di controllo sui confini tra i due stati. L’Etiopia ha lavorato a stretto contatto con l’SPLA per incrementare la sicurezza dei confini e ha fornito notevoli incentivi per una risoluzione pacifica del conflitto tra le popolazioni Nuer e Anyuak. Alcuni osservatori hanno argomentato che l’Eritrea stia appoggiando Machar nel tentativo di ostacolare i tentativi di pacificazione dell’Etiopia. Nel conflitto attuale, l’Eritrea fornisce supporto all’opposizione nell’SPLA, anche se la linea politica del Governo non è ancora molto definita.

Leader del Sud Sudan

Il leader dei ribelli del Sud Sudan Riek Machar con il Presidente Sud Sudanese Salva Kiir (con il cappello nero) ad Addis Abeba, in Etiopia

Il Kenya ha fornito al Governo di Juba consiglieri civili ed ha contribuito alla missione UNMISS (United Nations Mission in South Sudan). È importante evidenziare che il Presidente Kiir ha un forte legame con il precedente Presidente Keniota Moi e con il Generale Sumbweiyo, che è stato un importante mediatore durante le trattative per il Comprehensive Peace Agreement e fa adesso parte del processo negoziale in corso promosso dall’IGAD.

Il contesto geopolitico risulta ancora più complesso analizzando gli aspetti economici che legano gli stati della regione al Sud Sudan.

I legami economici che intercorrono tra il Sud Sudan e i suoi vicini includono progetti per imponenti infrastrutture regionali, riguardanti le ferrovie, le strade e le condotte per l’esportazione del petrolio. Mentre l’attenzione è rimasta focalizzata sulle infrastrutture petrolifere esistenti in Sudan, tutti gli stati membri dell’IGAD (Inter-Governmental Authority on Development, composto da sette stati del Corno d’Africa, Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Uganda, Eritrea e Sudan), ad eccezione della Somalia, hanno significativi interessi finanziari nell’oleodotto del Blocco B, situato soprattutto nello stato di Jonglei. Il Governo del Sud Sudan è quanto mai desideroso di avere un’opportunità di esportazione che non riguardi il Sudan, quindi sta valutando diverse opzioni.

Il Lamu Port Southern Sudan Ethiopia Transport Corridor (LAPSSET) è uno dei più grandi progetti infrastrutturali previsti in Africa. Si tratta di un nuovo porto in acque profonde nel Nord del Kenya, con collegamenti ferroviari regionali, reti stradali e un oleodotto tra il Sud Sudan e il Kenya. Alcuni analisti suggeriscono che l’accordo del Sud Sudan per esportare il suo petrolio attraverso il LAPSSET sia fondamentale per la vitalità economica del progetto, che è sottofinanziato. Kenya e Uganda potrebbero usufruire positivamente di questa infrastruttura, avendone necessità per esportare il loro petrolio e riscuotendo le tasse di transito per il petrolio proveniente dal Sud Sudan. Si tratta di un progetto alternativo a quello di un oleodotto che attraversi l’Etiopia fino a Djibouti. La Compagnia Total Oil, che detiene una quota significativa dei giacimenti petroliferi ugandesi, è una forte promotrice dell’idea di connettere le infrastrutture petrolifere ugandesi e sud sudanesi ad uno sbocco in Kenya.

I progetti per la costruzione di nuovi oleodotti hanno avuto un impatto significativo sul numero delle raffinerie; il Sud Sudan ne prevedeva due; l’Etiopia stava valutando la costruzione di una raffineria lungo il confine del Sud Sudan; Uganda, Ruanda e Kenya avevano discusso sulla costruzione di una raffineria in Uganda.

Le decisioni concernenti gli oleodotti avranno una grande influenza sulle relazioni economiche e politiche del Sud Sudan per molti anni, e Juba sta rivalutando le sue opzioni alla luce della crisi attuale.

I leader regionali si sono affrettati a intraprendere tutti gli sforzi necessari per la cessazione delle ostilità e la liberazione dei detenuti politici.

L’IGAD, promotore di numerosi tentativi di pacificazione durante la guerra civile, ha risposto rapidamente inviando per le trattative l’Ambasciatore Seyoum Mesfin (Etiopia), il Generale Lazarus Sumbeiywo (Kenya) e il Generale Mohammed Ahmed Mustafa al-Dhabi (Sudan) che, dopo settimane di negoziati ad Addis Abeba, hanno ottenuto la cessazione delle ostilità nel gennaio del 2014. Tuttavia, il cessate il fuoco è stato violato quasi immediatamente, rendendo vani i colloqui previsti per i mesi di febbraio e marzo dello stesso anno.

Lo sgretolamento della leadership in Sud Sudan, le varie fazioni facenti ricorso alla violenza, il riemergere di fratture etniche profonde possono avere solo effetti negativi per il Paese. I leader internazionali hanno sottolineato, in più occasioni, che la soluzione alla crisi deve essere politica. Ricostruire la fiducia tra i leader politici e tra le comunità colpite dalla violenza etnica può rivelarsi sempre più difficile, dato il perdurare della guerra civile, che ha generato una catastrofe politica, economica e umanitaria capace di dissolvere i progressi ottenuti dopo il 2005.


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(settembre 2016)

Tag: Daniela Franceschi, Africa, Sud Sudan, Salva Kiir, Riek Machar, guerra civile in Sud Sudan, Sudan People Liberation Movement/Army, SPLM, SPLA, guerra civile, scontri etnici, Dinka, Nuer, Murle, Shilluk, Sudan.