La grande muraglia verde
Vade retro, Sahara!

La desertificazione è un fenomeno dovuto a variazioni importanti del clima, come il riscaldamento globale, per esempio, da addebitare a fatti naturali (ma ai quali non si può ritenere che lo zampino umano non abbia dato un sensibile contributo dall’inizio dell’era industriale: tutt’altro), che toglie alla terra le sostanze che consentono la crescita dei vegetali, riducono la presenza di acqua e di conseguenza mettono in seria difficoltà le popolazioni che sui suoi prodotti contano per sopravvivere.

Essa, una volta avviata, avanza inesorabile, in tutti i continenti, «mangiando» suolo che, in tali condizioni, non può più essere di alcuna utilità. Facendo riferimento al continente africano, molte aree sono sotto l’incubo della desertificazione: secondo stime dell’ONU, ogni anno il deserto si mangia attorno a due milioni di ettari di terreno coltivabile; ma è il Sahel, dove il deserto del Sahara spezza orizzontalmente in due il grande continente africano, a fare la parte del leone. Questo attualmente è il più esteso deserto caldo del globo ed è una dimostrazione pratica che la desertificazione non si arresta mai: infatti circa 30.000 anni fa, qui erano terreni fertili, ricchi di vegetazione e di fauna; i campi erano coltivati e l’allevamento del bestiame era florido: tutti fattori che soddisfacevano le esigenze alimentari delle popolazioni che vi abitavano. Questo è dimostrato dalle pitture rupestri che ancora oggi sono visibili.

Il Sahara rappresenta un po’ l’elemento di separazione fra l’etnia bianca che vive al Nord, verso il Mediterraneo, e l’etnia nera, che occupa le regioni dell’Africa Centrale. Sia ben chiaro, ciò non vuol dire che le etnie vivano in modo separato, perché da sempre c’è stata una migrazione in un senso e nell’altro, per cui la loro fusione è avvenuta. Alcune genti sono proprio specifiche delle zone del deserto del Sahara, quali i circa 200.000 Tebu e i famosi «uomini blu» del deserto, cioè i Tuareg. Comunque anche altre, come per esempio i Berberi e altri gruppi del Sudan, vivono nelle sue oasi. Oggi, il Sahara ha un’estensione di circa 9 milioni di chilometri quadrati ed è l’ambiente di vita di oltre 230 milioni di persone.

Una domanda che ci si può porre è la seguente: l’avanzamento del deserto non è arrestabile in nessuna maniera, oppure si può tentare di mettere in atto un qualche espediente per fermarlo? Il primo che si pose la domanda a proposito della possibilità di contrastarne il dilagamento, è stato il biologo Richard St. Barbe Baker che, nel 1952, in occasione di una spedizione in quel deserto, si chiese se la realizzazione di una barriera verde che attraversasse il deserto, dividendo secondo i paralleli il continente africano in due, non potesse avere risultati soddisfacenti. Secondo il suo parere, se si fosse costruita una fascia alberata lungo gli 8.000 chilometri che separano l’Oceano Atlantico dal Mar Rosso, e larga una cinquantina, questa avrebbe potuto rappresentare una soluzione vincente.

Passarono gli anni (del resto è noto che, purtroppo, le decisioni umane hanno i loro tempi, e che tempi, spesso!) e solamente nel 2002, esattamente 50 anni dopo, quando si tenne a N’Djadema nel Ciad una riunione per la Giornata Internazionale per la Lotta alla Desertificazione, l’idea del biologo venne ripresa e fu proposta da due ex Presidenti, il Nigeriano Olusegun Abasanjo e il Senegalese Abdoulaye Wade; dopo essere stata attentamente e profondamente valutata, fu approvata dalla Conferenza dei Capi di Stato del Sahel e del Sahara nella sessione ordinaria tenuta a Ouagadougou nel Burkina Faso nei giorni 1 e 2 giugno 2005.

Gli Stati più o meno direttamente interessati sono tanti. In ordine alfabetico, sono i seguenti: Algeria, Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Capo Verde, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Gibuti, Libia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Tunisia; essi abbracciano tutta la fascia del continente africano a Nord dell’Equatore (Nord Africa, Sahel, Corno d’Africa), che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso e all’Oceano Indiano.

Il progetto per la piantumazione di una «Muraglia Verde» («Great Green Wall of the Sahara and the Sahel Iniziative», GGWSSI in acronimo), formata da una fascia di alberi che dovrebbe bloccare l’avanzata del deserto del Sahara, impedire a 250 milioni di tonnellate di anidride carbonica di essere liberata nell’atmosfera e dare lavoro a 10 milioni di persone, ha iniziato il suo percorso nel 2008 e ora è in fase di attuazione e continua, malgrado le pesanti difficoltà incontrate. È partito dall’Unione Africana, è stato approvato dall’ONU e finanziato dalla Banca Mondiale, oltreché dai contributi di diverse organizzazioni africane e internazionali: le spese previste per completare l’opera entro il 2030 ammontano a 33 miliardi di dollari; di questi 14 sono stati investiti nel gennaio 2021.

Il Senegal, che si è dimostrato uno dei Paesi più attivi, ha già piantumato più di 500 chilometri del suo territorio desertico della fascia prevista, con l’inserimento di 12 milioni di alberi, affrontando la spesa di 6 milioni di dollari. Il recupero effettuato ha reso coltivabile non meno di 15 milioni di ettari di terreno. Secondo il parere del «New York Times», con il suo intervento il Senegal è diventato il Paese trainante dell’intera opera. Intanto, anche la Nigeria ha recuperato circa 5 milioni di ettari.

Ma quali sono le ragioni che inducono a pensare (o a sperare) che la muraglia verde possa contrastare il dilagare del deserto? Bisogna attuare tutto quanto è necessario per creare le condizioni indispensabili affinché la terra ritorni fertile e, stando alle previsioni, il muro verde è in grado di farlo. Per cominciare, se le piante attecchiscono, le loro radici impediscono all’acqua di evaporare, trattenendola. Poi, la presenza di vegetali rappresenta un arricchimento dell’umo, giacché le foglie, marcendo, si trasformano in terriccio; in tal modo, il terreno è rigenerato per via naturale, ridiventando produttivo. Altra funzione importante attribuita agli alberi è quella di impedire l’erosione del suolo: il vento e le intemperie sono micidiali per il terreno, perché lo erodono e lo impoveriscono e, trasportando anche a notevole distanza la parte più leggera, trasformano aree di coltivazione in lande improduttive. Insomma, la barriera verde diventa un ostacolo che il deserto non può o, almeno, non dovrebbe poter superare.

Oltre al recupero di terreno arido delle dimensioni di 15 milioni di ettari, rendendolo fertile, risulta interessante trattenere la gente, senza che sia costretta a emigrare in cerca di un ambiente accogliente e in grado di garantirne il sostentamento.

Non si devono sottovalutare le difficoltà che ogni giorno si presentano nell’effettuazione dell’opera di recupero. Una di queste è dovuta alla piantumazione di piante che provengono da altre aree del mondo, magari in climi molto meglio sopportabili, giacché di autoctone non ne esistono; quindi, difficoltà di attecchimento e di crescita. Inoltre, non si può nascondere il fatto che i locali continuino a considerare le piante nuove come pascolo con cui nutrire il proprio bestiame. Se a queste negatività si aggiunge l’instabilità politica dei tanti Paesi che partecipano al compimento dell’opera, si ha un quadro abbastanza pessimistico.

Si deve riconoscere, però, che a distanza di un paio di lustri dall’inizio dei lavori, si evidenziano risultati positivi, come dimostrano le aree già ricche di alberi che hanno aumentato la loro fertilità, garantendo una produzione agricola atta ad alimentare le genti locali e un lavoro. Non c’è che dire: la grande muraglia verde non solo costituisce un argine di contenimento del deserto, ma pure contrasta la miseria, crea un ambiente climaticamente meglio vivibile e impedisce che si alimenti il gravoso fenomeno della migrazione, che è una delle negatività peggiori per le etnie umane.

Purtroppo, il cammino intrapreso è pieno di difficoltà, come avviene quando ci sono troppe teste a comandare: è il caso dei contrasti che si evidenziano nel coordinamento necessario per la realizzazione di una complessa e futuristica infrastruttura economico-ecologica mai eseguita dall’uomo, grazie ai dissensi di carattere pratico e politico. I dissapori fra gli Stati non fanno altro che rallentare l’esecuzione dell’opera, anche perché i finanziatori, abbastanza preoccupati per l’instabilità politica, tendono a far mancare i necessari finanziamenti, come se non bastassero i grossi problemi da risolvere per quanto attiene alla realizzazione e al completamento dell’opera. Perché, oltre a recuperare il terreno agricolo, è necessario prevedere tutta una serie di infrastrutture che sono indispensabili per consentire alle popolazioni una vita normale. Infatti, non è sufficiente la realizzazione di un intensivo rimboschimento: bisogna prevedere la creazione di parchi comuni, di giardini, di fondi di pertinenza di piccoli agricoltori, di riserve naturali e di altro ancora. E con Stati con governi diversi, con problemi e conflitti interni, con regimi che spesso non sono perfettamente rispettosi dei diritti umani, la grande muraglia verde tende a passare in secondo ordine.

A questo punto, ci deve essere una cooperazione internazionale di tutto rispetto, collegamenti politici di valore e bisogna operare partendo dal presupposto che si tratta di un’opera patrimonio delle genti africane, ma che si riverbera sul mondo intero, per cui le si deve dare la priorità che merita.

D’altra parte, la realizzazione del muro africano non sarebbe altro che il primo atto di uno scenario che riguarda l’avvenire della vita sul pianeta Terra, che è necessario sia messa al sicuro dalla degradazione e ciò senza perdere tempo, perché la situazione si avvicina pericolosamente all’irreversibilità. I cambiamenti climatici si stanno facendo sempre più sentire. Stando alle previsioni del National Data Center Climatic, la temperatura, che nei 40 anni che vanno dal 1880 al 1920 è aumentata di più di 1° centigrado, alla fine del secolo XXI raggiungerà i 3° centigradi. In tal caso, con i climi favorevoli, i deserti troveranno terreno fertile per espandersi in maniera inarrestabile, mettendo nel contempo in seria discussione la sopravvivenza di tante popolazioni.

È un’apocalisse che si sta addensando sull’umanità intera, per cui, giacché si ha ancora tempo, anche se si sta inarrestabilmente riducendo, è necessario operare seguendo le più rigide pratiche ecologiche, improntare l’economia mondiale sulla sostenibilità, puntando sull’energia pulita rinnovabile e sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, senza farsi coinvolgere nei problemi interni dei diversi Paesi.

Quindi, la grande muraglia verde africana è un esempio di ciò che si dovrebbe fare a livello internazionale. La natura, se non bistrattata, è in grado di aiutare l’umanità e di riparare i guasti da lei fatti, qualora ci si comporti nella maniera giusta; in caso contrario, non può far altro che girarsi dall’altra parte e abbandonarla nei suoi guai e... chi si è visto, si è visto!

(novembre 2021)

Tag: Mario Zaniboni, grande muraglia verde, Sahara, desertificazione, riscaldamento globale, ONU, Sahel, deserto del Sahara, Tebu, Tuareg, Berberi, Richard St. Barbe Baker, Giornata Internazionale per la Lotta alla Desertificazione, Olusegun Abasanjo, Abdoulaye Wade, Conferenza dei Capi di Stato del Sahel e del Sahara, Great Green Wall of the Sahara and the Sahel Iniziative, muraglia verde, National Data Center Climatic, cambiamenti climatici.