Darfur: analisi storica del conflitto
Come la formazione di regimi autoritari, nel Sudan postcoloniale, ha rappresentato un fattore determinante nella continua lotta per il potere nel Paese

Il conflitto tra il Nord e il Sud del Sudan, conclusosi con la nascita di un Sud Sudan indipendente nel 2011, non è il solo scontro armato che ha coinvolto il Paese, infatti, gli scontri interetnici nella regione occidentale del Darfur si sono intersecati con due guerre civili pur avendo delle caratteristiche proprie, ricostruibili solo attraverso un’analisi storica attenta alle dinamiche politiche nazionali.

Il Darfur non è una remota zona deserta del Sudan, ma rappresenta un punto nevralgico per la politica economica di Khartoum, infatti i prodotti agricoli e i giacimenti petroliferi dell’area coprono la maggior parte dei fabbisogni del Paese, inoltre la popolazione del Darfur costituisce una percentuale notevole della forza lavoro e il 40% dei militari. La marginalizzazione economica e politica cui è stata sottoposta la regione non ha impedito al Governo centrale di sfruttarne le risorse agricole e minerarie, creando condizioni di povertà estrema per le popolazioni locali.

Il Darfur occupa centinaia di miglia del confine occidentale del Paese, costituendo un’importante crocevia per il commercio regionale delle armi; sebbene non vi siano dati ufficiali, il Sudan ha certamente beneficiato dei proventi del traffico di armi durante la guerra civile in Chad negli anni Ottanta.

Il conflitto, che ha provocato moltissime vittime e profughi, testimonia ulteriormente la complessità etnica di tale area dell’Africa; il Darfur si configura come una regione omogenea dal punto di vista religioso, professando in maggioranza la fede islamica, ma fortemente eterogenea dal punto di vista etnico, complessità che può essere esemplificata dalla dicotomia popolazioni arabe-popolazioni africane.

L’inizio del conflitto armato si situa nel 2003, sebbene, durante gli anni Sessanta, i Rizeigat si scontrassero sia con i Ma’alia nella parte Sud-Orientale del Darfur a causa delle diverse interpretazioni dei diritti amministrativi e giuridici, sia con i Beni Halba per il controllo dei pascoli e delle risorse idriche nel Sud-Ovest del Darfur. Nello stesso anno, le etnie Fur, Zaghawa e Masalit iniziarono le ostilità contro i Janjaweed, miliziani dell’etnia araba dei Baggara, sostenuti militarmente dal Governo centrale di Khartoum. Precedentemente, nel biennio 1987-1989, vi era stata una guerra tra i Fur e gruppi arabi.

Il periodo coloniale inglese (1899-1956) rappresenta una chiave di lettura basilare per capire l’evoluzione storica del Darfur.

La Gran Bretagna adottò una deliberata politica di incremento delle possibilità economiche per alcune influenti famiglie della Valle Centrale del Nilo, attraverso la distribuzione delle terre maggiormente produttive, di contratti commerciali e di prestiti bancari, con la finalità di limitare la resistenza al regime coloniale. Questi gruppi influenti comprendevano leaders tribali e religiosi, nonché importanti commercianti, la cui predominanza sociale era legata all’egemonia religiosa della corrente Sufi dell’Islam e alla politica coloniale inglese di governo indiretto («indirect rule policy»).

Prima della colonizzazione inglese, il Darfur era una formazione politica indipendente, le cui istituzioni politiche e amministrative furono in buona parte conservate dalla Potenza coloniale. Fu così istituita la Native Administration («idara ahlia»).

L’applicazione dell’«indirect rule policy» significò l’incorporazione dei tradizionali leaders tribali nella struttura governativa. L’amministrazione si basava sulla divisione tribale del territorio, denominata «Dar». Il sistema fu gradualmente sviluppato e legalizzato dopo una serie di ordinanze nel 1922, nel 1925 e nel biennio 1927-1928. Nel 1932, la Courts Ordinance regolò i poteri amministrativi e politici dei leaders tribali, stabilendo, inoltre, una gerarchia delle Corti locali nel Sudan Inglese. Questo sistema amministrativo garantì la sicurezza del territorio con una spesa minima per quanto concerneva il personale.

Il modello subì delle variazioni nel corso del tempo: il Governo locale fu introdotto nel 1932; nel 1937 furono create le municipalità, le Amministrazioni cittadine, le aree rurali e i Consigli. In ogni modo, i leaders tribali, con il loro potere legislativo, finanziario e esecutivo, ne rimasero la parte predominante.

Per i Fur la Native Administration significò un peggioramento dello status sociale, equiparato agli altri gruppi etnici, comportando, inoltre, la perdita dei loro privilegi economici e amministrativi. Allo stesso tempo, per molte altre etnie rappresentò un incremento dell’influenza e dell’autorità.

Alcuni studiosi giudicano positivamente l’esperienza della Native Administration che, grazie ad una «governance» locale, gestiva efficacemente l’uso delle risorse naturali permettendo ai vari gruppi etnici di vivere in una relativa pace e stabilità. Shazali e Ghaffar riconoscono il ruolo della Native Administration nel regolare l’uso delle risorse naturali e delle attività di pascolo, evitando così conflitti fra agricoltori stanziali e pastori nomadi.

La Native Administration è ancora al centro di un acceso dibattito fra gli storici, soprattutto sudanesi, infatti molti ritengono tale sistema amministrativo responsabile della contrapposizione che si venne a creare fra i leaders tribali e gli abitanti istruiti della regione. Inoltre, numerosi studiosi giudicano la Native Administration un sistema diretto, centralizzato e burocratico, molto differente da quello adottato dall’Inghilterra in Nigeria.

La Native Administration fu abolita nel 1971 dal Presidente Jafaar Nimeiri attraverso il Local Government Act, che costituì dei Consigli regionali, distrettuali e di area per il Governo locale, privando i leaders tribali della loro autorità giuridica e amministrativa. Alcuni studiosi ritengono questa riorganizzazione, implicante molto spesso che un territorio in cui risiedeva una tribù fosse controllato da un’altra tribù, un’ulteriore causa dello scatenarsi del conflitto tribale su larga scala in Darfur.

Dopo la promulgazione di questo Atto, si ebbero le prime dispute sui confini nel Sud del Darfur, tra Fellata e Gimr e tra Ma’alia e Rizeigat. In pratica, il Governo aveva incoraggiato una pericolosa competizione fra le varie etnie. Secondo Morton, la fragilità della Native Administration ha contribuito notevolmente all’incremento del conflitto etnico nella regione.

Comunque, i leaders tribali continuarono ad essere riconosciuti quali capi dei rispettivi gruppi etnici, e la tribù divenne la base politica per promuoverne i membri a posizioni maggiori nei Consigli locali, nelle Assemblee regionali e nel Parlamento centrale.

L’identità etnica e la crescente polarizzazione divennero le caratteristiche preminenti di ogni ufficio governativo, poiché i membri del gruppo erano considerati esclusivamente come rappresentanti della tribù di provenienza e al servizio esclusivo dei suoi interessi.

Questo fenomeno è stato definito «espansione etnica verticale», dal momento che si sviluppa procedendo dal livello locale a quello regionale, per poi raggiungere quello nazionale.

Nel 1981 il Regional Government Act riunì in un’unica regione il Nord e il Sud del Darfur, con un’Assemblea e un Governatore regionale. Il primo Governatore scelto dal Presidente Nimeiri fu Ahmad Dereij, un influente politico di etnia Fur.

Nel 1987, durante il secondo periodo democratico nella storia del Sudan indipendente, la Native Administration fu ristabilita, ma ebbe una breve durata, poiché, dopo il colpo di Stato del National Islamic Front del 1989, le sue caratteristiche salienti furono trasformate per renderle consone all’orientamento islamista del nuovo Governo. È interessante notare come anche i titoli islamici adottati in precedenza mutassero, per esempio, al posto del titolo di Sultano fu utilizzato quello di Emiro. L’Emiro era adesso un «Mujahid» che guidava la sua tribù, proteggeva il Paese e la religione islamica, applicando i principi della Shari’a.

Nel 1995, il Governo di Khartoum decise di intervenire nuovamente sull’assetto istituzionale del Darfur dividendolo in tre Stati, nonostante la ferma opposizione della popolazione. Questa divisione minò, entro breve tempo, la struttura sociale e l’integrità della regione. Allo stesso tempo, si introdusse un emirato o principato in ogni Dar, al cui vertice vi erano dei principi, nominati politicamente, la cui amministrazione si sovrapponeva a quella della Native Administration. L’obiettivo del Governo era indebolire i componenti della Native Administration, di cui non era mai riuscito a guadagnarsi il supporto e la fedeltà.

Alla fine degli anni Novanta, il Governatore del Darfur Occidentale divise l’antico territorio dell’etnia Masalit in tredici emirati, di cui nove divennero emirati arabi, dando così inizio al conflitto tra questa etnia e quelle arabe.

Il tema dell’assegnazione del territorio tribale produsse due processi interconnessi; conflitti sulla terra, concernenti la determinazione dei territori tribali e l’utilizzo di questi da parte dei pastori nomadi, e conflitti per il potere politico a livello locale.

Un altro fattore molto rilevante per comprendere l’evolversi del conflitto in Darfur è il ruolo delle milizie non governative, tema intrecciatosi drammaticamente con lo scontro Nord-Sud.

Negli anni Ottanta, il Presidente Jafaar Nimeiri utilizzò le milizie tribali armate dei Rizeigat del Sud Darfur e dei Misseriya del Sud Kordofan per combattere i ribelli del Sudan Meridionale, emulato in ciò dal Presidente Sadiq el Mahdi nel 1986.

Equipaggiate con armi moderne, le milizie tribali si abbandonarono a saccheggi ed atrocità contro le tribù non arabe, specialmente di etnia Dinka, bruciando villaggi, uccidendo civili innocenti e rapendo ragazzi e ragazze per venderli come schiavi nel Nord. Nella maggior parte dei casi, le milizie compirono questi crimini con l’appoggio dell’esercito regolare e delle autorità locali.

Nel 1986, le milizie arabe massacrarono 1.000 profughi di etnia Dinka a Ed Daein nel Sud della regione. I responsabili dell’eccidio non furono processati, confermando così l’impunibilità delle milizie arabe e il fallimento del sistema giudiziario e delle forze di polizia.

Dopo il colpo di Stato del National Islamic Front, queste milizie furono incorporate nelle Forze di Difesa Popolare.

La dicotomia arabo-africana ha avuto degli importanti riflessi anche sulla vita politica del Darfur, favorendo la nascita, tra gli anni Sessanta e Settanta, di due movimenti: il Sunnie Front e il Darfur Renaissance Front.

I due movimenti promuovevano delle istanze autonomiste, tuttavia, si può ritenere che rappresentassero principalmente gli interessi delle tribù sedentarie africane. I movimenti ebbero un forte seguito, tanto che nel 1981, il leader del Darfur Renaissance Front, Ahmad Dereij, un politico Fur, fu nominato Governatore del Darfur.

L’ascesa di un Fur alla carica di Governatore esacerbò ulteriormente lo scontro politico, infatti, la nomina a Governatore fu percepita dalle popolazioni arabe, in particolare dai gruppi nomadi, come una minaccia, invece che come un’occasione per una maggiore presenza dei Darfuriani nella politica locale.

I nomadi decisero quindi di reagire creando il movimento politico Arab Gathering. La finalità era di tutelare i legittimi diritti dei nomadi e sensibilizzare il Governo sulla questione ambientale che stava mettendo in pericolo la sopravvivenza stessa di queste popolazioni. L’Arab Gathering avrebbe acquisito, successivamente, le caratteristiche proprie di un gruppo politico radicale e violento, infatti alcuni leaders del gruppo avrebbero poi sostenuto direttamente o indirettamente le azioni dei Janjaweed.

Nel 1986, le tribù arabe si rivolsero direttamente al Governo, argomentando che, pur rappresentando la maggioranza della popolazione del Darfur, essi erano marginalizzati in quanto Arabi. La mancata risposta da parte del Governo centrale fu interpretata come un appoggio implicito alle loro richieste. Allo stesso tempo, i Fur, gli Zaghawa e i Masalit ritennero che l’obiettivo finale fosse minare il loro ruolo e creare una divisione etnica.

Il conflitto tra Fur e Arabi che ne scaturì dominò il Darfur fino al 1989, provocando morti e distruzione per tutte le parti coinvolte.

Dopo il colpo di Stato del 1989, molti Darfuriani credettero che il National Islamic Front rappresentasse un’opportunità per stabilire dei legami con il Governo centrale e ottenere una maggiore rappresentanza politica.

In effetti, numerosi Darfuriani conseguirono posizioni di rilievo nel National Congress Party, da cui confluirono poi nel Popular National Congress, dopo la separazione dal National Congress nel 1999. La divisione era stata causata dalle divergenze fra il Presidente al-Bashir e il leader del National Islamic Front, Hasan al-Turabi.

Molte etnie giudicarono tale spaccatura come il risultato di una separazione su base etnica, per cui, il Vicepresidente Ali Osman Taha insieme al suo gruppo erano considerati rappresentanti delle etnie arabe del Nilo, mentre al-Turabi dei gruppi non arabi della parte Occidentale del Sudan.

Si possono distinguere tre gruppi di opposizione al Governo centrale nel Darfur: il Justice and Equality Movement (JEM); il National Movement for Reform and Development; il Sudan Liberation Movement/Army.

Il Justice and Equality Movement fu fondato da Khalil Ibrahim, importante membro del National Islamic Front, appartenente all’etnia Kube, una sotto-tribù degli Zaghawa, con l’intento di far conoscere i problemi delle aree marginali del Paese, tra le quali il Darfur. Nel 2004 questo movimento politico si divise, allorquando il colonnello Gibril Abdul Kareem Barey, capo delle forze armate del JEM, fondò il National Movement for Reform and Development. La scissione fu determinata dal mancato coinvolgimento delle forze militari nelle scelte politiche e strategiche del movimento. Dal punto di vista etnico, la nuova formazione politica era composta da membri appartenenti all’etnia Kobera Zaghawa.

Il Sudan Liberation Movement/Army emerse quale forza combattente nel 2003, rappresentando una risposta al fallimento del Governo e della leadership tradizionale nel risolvere i problemi della regione. Nel marzo del 2003, il SLM/A annunciò il lancio di un’offensiva armata finalizzata a creare «un Sudan democratico e unito sulla base dell’equità, del pluralismo politico e culturale, con una devolution e una ristrutturazione del potere». Il movimento accusava il Governo di Khartoum di accendere deliberatamente lo scontro etnico nella regione.

I membri del SLM/A sono in prevalenza Fur e Zaghawa, ma vi sono appartenenti anche alle etnie Masalit, Birgid e Meidop. Nell’intento di accrescere la sua forza militare, il movimento ha reclutato attivamente membri anche fra le tribù arabe.

I programmi politici del SLM/A e del JEM sono differenti, soprattutto su importanti questioni riguardanti la religione e l’assetto statuale: il SLM/A considera il JEM parte del regime, poiché la sua leadership trae origine dal National Islamic Front, all’opposto il SLM/A ha simpatizzato con il Sud del Sudan, cooperando con il Sudan People’s Liberation Army; il JEM è una formazione di natura prevalentemente politica, con una forza armata molto esigua; le richieste politiche del JEM non concernono esclusivamente il Darfur, ma anche altre aree periferiche; il JEM è considerato un gruppo islamista che intende applicare integralmente la Shari’a, mentre il SLM/A propende per uno Stato laico, in cui religione e Stato siano separati.

Nel corso degli anni, si sono sviluppati conflitti armati anche tra le tribù arabe, tra Abbala e Baggara per il controllo dei pascoli e delle risorse disponibili, e tra Rizeigat e Missiriya.

Nel febbraio del 2010 il JEM decise di deporre le armi, dicendosi pronto ad intraprendere delle trattative con il Governo per porre fine al conflitto. Alle trattative non ha partecipato, tuttavia, il Sudan Liberation Movement/Army, rendendo così molto difficile prevedere se e quando sarà ristabilita una pace duratura in Darfur.

In conclusione, è interessante riflettere sulle caratteristiche ideologiche dell’élite araba al potere in Sudan.

La formazione di regimi autoritari ha costellato la storia del Sudan indipendente e rappresentato un fattore determinante nella lotta per il potere nel Paese. Come altri Stati africani «predatori», come Castells definisce questi sistemi politici, il Sudan è stato governato da una élite «che ha completamente patrimonializzato lo Stato in funzione dei propri interessi [traduzione italiana]». I membri dello Stato «tendono ad essere dei mercenari, in quanto le loro posizioni di privilegio e di potere sono alla mercé dei capricci di un leader supremo [traduzione italiana]».

Castells usa l’espressione «the politics of the belly», che è possibile tradurre come «la politica del ventre», per mettere in risalto la rapacità di regimi come quello del Sudan; la giunta militare al potere ha sempre cercato di mantenere un possesso assoluto e personale dello Stato attraverso l’istituzione di un network clientelistico arabo. Per esempio, capi arabi sono stati collocati negli uffici locali governativi con l’incarico di riscuotere le tasse e reclutare manodopera locale.

I perduranti conflitti all’interno del Sudan sono il frutto dell’imperialismo di Khartoum e della sua «politics of the belly». Dal punto di vista economico, l’espropriazione delle risorse dalle aree periferiche della Nazione è funzionale al mantenimento dell’apparato statale, risultando, quindi, fondamentale un controllo totale sull’intero Paese.

La stessa condizione di conflitto permanente che caratterizza il Sudan costituisce una condizione basilare per l’élite araba al fine di continuare ad accumulare ricchezze personali ed espropriare risorse nazionali.

La contrapposizione popolazioni arabe-popolazioni africane rappresenta un tema cardine nell’ideologia politica dell’élite araba al potere che, ritenendo fondata la superiorità araba sui neri africani considerati al pari di schiavi, ha accentuato la divisione etnica. Il network clientelistico arabo ha promosso attivamente la divisione etnica della Nazione, sostenendo la strategia politica del «divide et impera» del Governo di Khartoum.

Il processo di «arabizzazione», potenziatosi dopo l’indipendenza nel 1956 e l’introduzione della Shari’a, ha contribuito alla discriminazione verso i neri africani, privilegiando le popolazioni arabe.

La discriminazione e la marginalizzazione delle etnie di origine africana congiunte ad una ineguale distribuzione delle risorse hanno concorso all’instaurarsi di una violenza manifesta nel Sudan in generale e nel Darfur in particolare.


Bibliografia

M. Castells, End of Millennium: The Predatory State, Oxford, Blackwell, 1998

W. Connolly, Identity/Difference: Democratic Negotiations of Political Paradox, Minneapolis/London, University of Minnesota Press, 1991

M. W. Daly, Darfur’s Sorrow: A History of Destruction and Genocide, Cambridge, Cambridge University Press, 2007

A. O. El-Tom, Islam and cultural identity among the Berti of Sudan, «GeoJournal», 1998, 46 (2)

F. Ibrahim, Ideas on the Background of the Present Conflict in Darfur, Bayreuth, University of Bayreuth, 2004

A. Ghaffar, S. Shazali, Pastoral Land Tenure and Agricultural Expansion: Sudan and Horn of Africa, A paper presented at the DFID workshop on Land Rights and Sustainable Development in Sub Sahara Africa 16th-19th February 1999 at Sunningdale Park Conference Center, Berkshire, UK, 1999, http://iied.org/docs/drylands/dry_ip85.pdf

C.N. Gordon, Recent Developments in the Land Law of the Sudan: A Legislative Analysis, «Journal of African Law», 1986, 30 (2)

S. Harir, «Arab Belt» vs. «African Belt». Ethno-Political Conflict in Dar Fur and the Regional Cultural Factors, in S. Harir, Short-Cut to Decay: the Case of the Sudan, Uppsala, Nordiska Afrikaninstitutet, 1992

D. Johnson, The root causes of Sudan’s civil war, Oxford, Indiana University Press, 2003

R. D. Kaplan, The Coming Anarchy: Shattering The Dreams of the Post Cold War, Vintage Books, 2001

M. Khalid, The government they diverse: the role of elite in Sudan’s political evolution, London/New York, Kegan Paul International, 1990

J. Millard Burr, R. O. Collins, Darfur: The Long Road to Disaster, Markus Wiener, 2006

J. Morton, Conflict in Darfur. A different perspective, Hemel Hempstead, HTSPE, 2004

R. S. O’Fahey, State and Society in Dar Fur, London, C. Hurst and Company, 1980

D. Petterson, Inside the Sudan: political Islam, conflict and catastrophe, Boulder, CO, Westview Press, 1999

G. Prunier, Darfur: The Ambiguous Genocide, New York, Cornell University Press, 2007

E. Reeves, M. Brassard, A Long Day’s Dying: Critical Moments in the Darfur Genocide, London, The Key Publishing House, 2007

J. Spaulding, S. Beswick, White Nile, Black Blood: War, Leadership, and Ethnicity from Khartoum to Kampala, The Red Sea Press, Inc, 2000

B. Steidle, G. Steidle Wallace, The Devil Came on Horseback: Bearing Witness to the Genocide in Darfur, Public Affairs, 2007

S. Totten, E. Markusen, Genocide in Darfur: Investigating the Atrocities in the Sudan, London, Routledge, 2006

B. Valentino, Final solutions: mass killing and genocide in the twentieth century, New York, Cornell University Press, 2004.

(giugno 2015)

Tag: Daniela Franceschi, Africa, Darfur, Sudan, Sud Sudan, conflitto Nord-Sud, musulmani, Africani, Arabi, Islam, Sufi, Shari’a, Inghilterra, indirect rule policy, idara ahlia, Jaafar Nimeiri, Sadiq el Mahdi, Ahmad Dereij, Sudan People’s Liberation Movement, Sudan People’s Liberation Army, National Islamic Front, Umma, Democratic Unionist Party, Omar Al-Bashir, Fur, Zaghawa, Masalit, Rizeigat, Baggara, Ma’alia, Missiriya, Abbala, Birgid, Meidop, Kobera, Beni Halba, Fellata, Misseriya, Gimr, Janjaweed, Native Administration, Dar, Local Government Act, Courts Ordinance, Dinka, Ed Daein, Sunnie Front, Darfur Renaissance Front, Arab Gathering, Hasan al-Turabi, Ali Osman Taha, National Congress Party, Popular National Congress, Khalil Ibrahim, Kube, Wagi, Justice and Equality Movement, JEM, National Movement for Reform and Development, Sudan Liberation Movement/Army, SLM/A, Gibril Abdul Kareem Barey, politics of the belly.