La Risoluzione N°3379 dell’ONU contro il sionismo sulle colonne de «L’Unità» e de «La Stampa», 10 novembre 1975
«Le parole sono spade, possono uccidere» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

La Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite numero 3379 del 10 novembre 1975, che definiva il «sionismo […] una forma di razzismo e di discriminazione razziale», rappresenta uno dei punti nodali nell’articolata storia delle relazioni internazionali dello Stato d’Israele durante gli anni Settanta. La genesi della Risoluzione mostra chiaramente il complesso gioco diplomatico svoltosi durante le discussioni alle Nazioni Unite, che coinvolse attori importanti della scena internazionale, quali gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e i Paesi Arabi.

Molti osservatori argomentano che la definizione del sionismo come razzismo abbia avuto origine nel 1975, tuttavia, nel marzo del 1964, la stessa analogia apparve nelle discussioni tenute alla Sotto-Commissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, facente parte della Terza Commissione che si occupava di questioni umanitarie, sociali e culturali[1].

Nel marzo del 1964, gli Stati Uniti proposero alla Terza Commissione e alle Nazioni Unite il riconoscimento dell’antisemitismo come forma di razzismo, insieme all’apartheid e al nazismo, provocando la ferma opposizione dell’Unione Sovietica. A questo proposito è opportuno focalizzare l’attenzione sulle difficili relazioni esistenti tra l’Unione Sovietica e Israele, determinate dall’atteggiamento del Governo Sovietico verso la minoranza ebraica presente in Russia; tale linea era condizionata dalla politica delle nazionalità di stampo staliniano e da un palese antisemitismo, accentuatosi dopo il 1967 ma riscontrabile già dal 1949, allorquando il Ministro degli Esteri aveva avviato il processo di revisione delle relazioni diplomatiche, esprimendo il suo disappunto per il permanere dei contatti tra Ebrei e Israeliani, contatti considerati da Mosca un problema per la sua stabilità interna. Dato che per la dirigenza sovietica non esisteva una «Nazione Ebraica», l’opposizione verso il sionismo era di principio. La questione del trattamento degli Ebrei fu, quindi, inserita all’interno della politica delle nazionalità.

Un altro fattore di tensione era rappresentato dal Partito di maggioranza relativa in Israele, il Mapai (il Partito Socialdemocratico Israeliano), ritenuto eccessivamente orientato verso il blocco occidentale, perciò meno influenzabile.

La fase che si era aperta nel 1953, con la rottura delle relazioni diplomatiche, comprendeva anche una radicalizzazione delle misure contro la popolazione ebraica. L’anno precedente si era tenuto in Cecoslovacchia il processo Slansky, basato sulla «prova» che tutti gli imputati fossero sionisti, contro un gruppo di dirigenti comunisti di origine ebraica, accusati di ordire un complotto internazionale contro il regime socialista. Risale al gennaio del 1953 il cosiddetto «complotto dei medici», con cui si intendono tutte le false e deliranti accuse che Stalin, nell’ultimo periodo della sua vita, aveva rivolto agli Ebrei Sovietici.

Dopo la morte di Stalin, si aprì un breve periodo di normalizzazione dei rapporti tra l’Unione Sovietica e Israele, periodo che conobbe una brusca cesura dopo la Guerra del Sinai e dei Sei Giorni. L’Unione Sovietica aveva iniziato ad intrattenere delle forti relazioni diplomatiche con i Paesi non allineati, con il fine di gestire a proprio favore i complessi processi di decolonizzazione. Il socialismo sovietico doveva divenire un modello per quelle Nazioni che raggiungevano allora l’indipendenza, riuscendo sia a contrastare gli Americani sia ad aumentare la propria egemonia politica.

L’adesione alle tesi antisemite era funzionale al progetto sovietico di acquisire la benevolenza dei Paesi Arabi e dell’OLP, soprattutto dopo l’espulsione dei consiglieri russi dall’Egitto nel 1972.

Successivamente alla Guerra dei Sei Giorni, si ebbe l’ennesima rottura dei rapporti diplomatici, che coinvolse tutti i Paesi dell’Europa Orientale esclusa la Romania, adducendo come motivazione ufficiale «l’aggressione» di Israele verso i Paesi Arabi.

È importante soffermarsi anche sulla problematica condizione di tutti quegli Ebrei Sovietici desiderosi di emigrare in Israele, sottoposti a snervanti e infruttuose procedure burocratiche e che, nella maggioranza dei casi, si vedevano negato il permesso di espatrio ed erano esposti, di conseguenza, al rischio di subire processi e detenzioni in ospedali psichiatrici in quanto considerati dissidenti e oppositori.

L’astio preconcetto contro Israele era divenuto uno dei principi basilari della politica estera sovietica. Dichiarandosi immune dall’antisemitismo, l’Unione Sovietica adoperò un pensiero politico rigidamente antisionista, in cui il termine «sionismo» corrispondeva a «giudaismo cosmopolita».

L’associazione di idee tra Israele ed Ebrei Sovietici era immediata laddove questi ultimi avessero cercato di preservare qualche elemento identitario, incompatibile con la volontà di omologazione del Regime Comunista. Inoltre, gli Ebrei erano considerati una entità nazionale potenzialmente ostile all’Unione Sovietica.

Gli Ebrei Sovietici furono sottoposti a svariate misure vessatorie, volte a limitarne la libertà culturale e di studio.

Contrariamente a quanto sperato dalle autorità sovietiche, vi fu un rinnovato rilancio dell’ebraismo come tratto distintivo e identitario, soprattutto da parte delle nuove generazioni che vedevano nell’emigrazione verso Israele e i Paesi Occidentali l’unica possibilità per vivere liberamente questo rinnovato ebraismo.

Grazie alle pressioni internazionali, vi fu una prima ondata migratoria di circa 200.000 persone tra il 1971 e il 1972. Israele accolse, tra il 1972 e il 1979, 137.000 Ebrei Russi. Tuttavia, solo con l’insediamento di Michail Gorbaciov si ebbe una progressiva liberalizzazione delle politiche di emigrazione.

L’antisemitismo non fu mai riconosciuto come dottrina politica ufficiale dell’Unione Sovietica, in ogni modo, ricomparve, con i medesimi tratti distintivi dell’antisemitismo zarista, nella formazione del pregiudizio dell’opinione pubblica russa.

Alla proposta statunitense di condannare l’antisemitismo, l’Unione Sovietica rispose, quindi, chiedendo la condanna dell’antisemitismo, del sionismo, del nazismo e di ogni forma ideologica e politica di colonialismo. Nel tentativo di sbloccare l’impasse creatasi, i delegati della Grecia e dell’Ungheria proposero un emendamento che non citasse delle specifiche forme di discriminazione.

La discussione sul tema rimase, comunque, dormiente fino alla metà degli anni Settanta, quando una serie di concause, tra le quali le conseguenze economiche della Guerra del Kippur, l’alleanza tra i Paesi Arabi, le Nazioni in via di sviluppo e l’Unione Sovietica, portarono all’approvazione della Risoluzione.

Vi era un altro fattore che aveva condotto, anche se indirettamente rispetto al nuovo contesto geopolitico, alla Risoluzione: la nuova immagine dello Stato Ebraico nell’immaginario collettivo. Essa aveva iniziato a cambiare dalla fine degli anni Sessanta, specificatamente dopo la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni, quando vi era stato un crescente utilizzo di stereotipi propri dell’antiebraismo e dell’antisemitismo per definire Israele e la sua politica nei confronti dei Palestinesi, venendosi così a creare «un’area di incontro tra antisemitismo e antisionismo».

Per il contesto italiano è interessante citare il saggio del sociologo Alfonso M. Di Nola, Antisemitismo in Italia 1962-1972, in cui si riteneva possibile «lo slittamento» di una parte dell’opinione pubblica di Sinistra, cui veniva presentata una costante critica del sionismo, verso l’antisemitismo. Di Nola evidenziava, inoltre, per quanto concerneva l’estremismo neofascista, che era già possibile «parlare di uno slittamento o di una devianza delle scelte politiche antisioniste in posizioni chiaramente antisemitiche, con la conseguente confusione di un piano ideologico, quello antisionistico, e di un piano irrazionale di aggressività contro la minoranza ebraica».

A partire dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia, non furono soltanto settori estremi della Destra e della Sinistra ad utilizzare pregiudizi e stereotipi prettamente antisemiti, come la teoria del complotto, in manifestazioni di antisionismo.

Si riscontrava, inoltre, la formazione in una parte dell’opinione pubblica italiana di un fronte compatto, costituito da partiti politici, sindacati, studenti e alcuni settori della Chiesa Cattolica, che non considerava più lo Stato Ebraico come un alleato nella comune lotta antifascista e alla luce della memoria della persecuzione razziale, bensì come la «longa manus» dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

La Risoluzione ebbe un clamore notevole anche in Italia, non solo a livello politico, ma anche giornalistico, risultando, quindi, di particolare interesse gli articoli ad essa dedicati da parte de «L’Unità» e de «La Stampa», testate giornalistiche differenti per impostazione e storia, ma entrambe importanti nella formazione dell’opinione pubblica italiana.

Per quanto riguardava l’atteggiamento del Governo Italiano, è possibile notare come esso non si discostò dalla consueta linea di equidistanza, nella pratica più vicina alle ragioni dei Palestinesi, votando contro la Risoluzione. Tale scelta testimoniava «i limiti che il Governo Moro imponeva al suo filo-arabismo: la sicurezza e la sopravvivenza dello Stato d’Israele». Tuttavia, al di là di queste generiche affermazioni, l’Italia avrebbe sostenuto le rivendicazioni nazionali palestinesi, come avvenne il 3 dicembre dello stesso anno quando Pietro Vinci, rappresentante italiano a New York, indicò, a nome dell’Europa dei Nove, nel «riconoscimento al popolo palestinese del diritto a esprimere una sua identità nazionale» un principio basilare per il raggiungimento della pace in Medio Oriente.

Israele rappresentò un «problema» per il Partito Comunista Italiano che passò dall’iniziale entusiasmo, con cui ne accolse la nascita, a una progressiva freddezza determinata dagli sviluppi della politica mediorientale dell’Unione Sovietica. Dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele fu identificato con chiarezza come un avversario in quanto ritenuto parte integrante del disegno imperialista degli Stati Uniti nel Mediterraneo. È interessante osservare l’esistenza di singolari punti di contatto tra le posizioni del Governo Italiano e il Partito Comunista Italiano, infatti, entrambi, pur riconoscendo il diritto di Israele ad esistere in quanto Stato, manifestarono, con obiettivi politici dissimili, una netta preferenza per un rafforzamento delle relazioni con gli Arabi.

Il riconoscimento del diritto ad esistere di Israele risultava prettamente formale, poiché, come si può dedurre dalle affermazioni, pubblicate in un saggio del 1970, di Giancarlo Pajetta, responsabile esteri per il Partito e direttore de «L’Unità» nel biennio 1969-1970, lo Stato Ebraico era «un fatto coloniale»[2], di cui doveva esserne ammessa la realtà fattuale, riconoscendo, nel contempo, «l’esistenza della Palestina come Nazione»[3]. Non identificando nello Stato d’Israele il punto di arrivo di un cammino di emancipazione «che porta una parte degli Ebrei a pensarsi in termini di collettività a sé, quindi sovraordinata rispetto alle società nazionali d’origine»[4], il riconoscimento di un generico «diritto ad esistere» rappresentava, da parte del Partito Comunista Italiano, solo un’approvazione convenzionale. Inoltre, il conflitto israelo-palestinese era interpretato attraverso la categoria delle guerre di liberazione nazionale, in cui lo Stato Ebraico era, ovviamente, l’oppressore.

Il Partito Comunista Italiano sostenne la decisione del Governo Italiano di votare contro la Risoluzione, alleandosi, in questo caso, con la maggioranza.

Di particolare interesse risultano i commenti, non firmati ma attribuibili al direttore Luca Pavolini, che «L’Unità» dedicò alla Risoluzione prima e dopo l’approvazione.

Il primo contributo fu pubblicato sul giornale pochi giorni prima dell’approvazione definitiva della Risoluzione[5]. L’articolo iniziava argomentando che non era possibile condividere la Risoluzione né da un punto di vista ideologico né politico. Ciò nonostante, il sionismo era da considerarsi una «ideologia conservatrice e fondamentalmente reazionaria, dannosa agli Ebrei in quanto tendente a isolarli nei Paesi nei quali vivono e tale da alimentare correnti sciovinistiche nelle comunità israelitiche». Il giornalista continuava affermando che il sionismo era storicamente fallito, ignorando volutamente come proprio lo Stato d’Israele fosse il compimento del movimento sionista.

Il movimento sionista era giudicato uno strumento dell’imperialismo e la causa delle spinte aggressive ed espansionistiche dei Governi Israeliani, «quelle su cui l’ONU ha più volte espresso la propria condanna, condanna che andrebbe ora fatta rispettare».

Sebbene, almeno formalmente, l’esistenza dello Stato Ebraico non fosse messa in discussione da parte dell’articolista, era fortemente criticata la sua organizzazione interna, accusata di essere discriminante e non laica. È opportuno ricordare che la Dichiarazione di Indipendenza del 1948, sebbene riconosca Israele come «Stato Ebraico», garantisce la libertà religiosa a tutti i suoi abitanti, assicurando la completa uguaglianza e il possesso dei diritti sociali e politici senza distinzione di religione, razza o sesso; assicura la libertà di religione, di coscienza, di linguaggio, educazione e cultura; salvaguarda, infine, i Luoghi Sacri di tutte le religioni.

A parere del giornalista, era illegittimo «trasferire il dibattito, e perfino il voto, sul terreno delle definizioni ideologiche, introducendo il concetto di razzismo», infatti, era più doveroso che l’ONU e il mondo occidentale mettessero in atto tutte le azioni e pressioni possibili affinché i territori occupati con la forza da Israele fossero restituiti e i diritti nazionali dei Palestinesi fossero rispettati.

Nella parte conclusiva dell’editoriale, l’articolista si rivolgeva a «chi non spende una sola parola sulle aggressioni israeliane, pur esplicitamente e ripetutamente condannate dalle risoluzioni dell’ONU, da chi è del tutto indifferente e ostile al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, da chi si ostina a chiudere gli occhi sulle effettive condizioni di discriminazione che colpiscono gli Arabi i quali vivono nello Stato di Israele o nei territori da esso occupati».

Rivolgendosi provocatoriamente a costoro, il giornalista li invitava a considerare quanto fossero drammatiche sia la mancata applicazione delle Risoluzioni dell’ONU riguardanti il ritiro di Israele dalle zone «invase» sia il passo indietro dei nove Paesi della Comunità Europea rispetto alle loro precedenti prese di posizione sui diritti nazionali dei Palestinesi.

Nella parte finale del contributo, l’articolista esortava i dirigenti di Israele, insieme ai loro amici, a riflettere su una Risoluzione che rappresentava una condanna della loro politica, Risoluzione votata dalle più disparate Nazioni, tra le quali tutte quelle «che si battono contro l’imperialismo».

Il Partito Comunista Italiano aveva sempre sostenuto le Risoluzioni dell’ONU che riguardavano Israele, considerando la loro applicazione immediata un atto basilare per il ristabilimento della pace in Medio Oriente. L’appoggio incondizionato alla «lotta nazionale» dei Palestinesi era divenuto un tema cardine della politica estera del Partito, una linea politica che identificava l’aggressore sempre in Israele, responsabile di un’indebita occupazione territoriale. Da questo derivava anche per l’organo di stampa ufficiale del Partito, e per tutte le pubblicazioni che si rifacevano ad esso, una linea editoriale faziosa nei riguardi di Israele, come si può evincere dagli articoli relativi alla Guerra del Kippur, che indicavano quali cause del conflitto le conseguenze della Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la mancata applicazione della Risoluzione 242 da parte dello Stato Ebraico[6].

Degna di nota la citazione, in un editoriale del 13 novembre[7] de «L’Unità», di un articolo del vicedirettore de «La Stampa» Carlo Casalegno, significatamene intitolato Un verdetto antisemita.

Secondo l’articolista de «L’Unità», l’editoriale di Casalegno si basava su tesi infondate e insostenibili, «come quella secondo cui la Risoluzione sarebbe addirittura un verdetto antisemita. Secondo questa tesi assurda e pericolosa, antisionismo e antisemitismo sarebbero in pratica la stessa cosa».

Tacciare di antisemitismo il voto dell’ONU era, a parere del giornalista, un voluto stravolgimento, ancora meno accettabile se si usavano paralleli «con gli esiti mostruosi del nazismo e del fascismo in Europa, non potendosi certamente attribuire agli Arabi la responsabilità dell’infame genocidio hitleriano».

Nella seconda parte del contributo, si citava un altro giornale, «La Voce Repubblicana», organo di stampa ufficiale del Partito Repubblicano Italiano, che avrebbe usato il presunto antisemitismo del voto dell’ONU per chiedere una modifica della politica estera italiana verso il Medio Oriente. Ciò avrebbe comportato, secondo l’articolista, dei pericolosi passi indietro, come lo schierarsi contro il mondo arabo, rispetto al cammino diplomatico che l’Italia aveva intrapreso. Questo avrebbe aggiunto un impedimento ulteriore al conseguimento della pace in Medio Oriente.

Il giornalista concludeva esortando a comprendere i reali ostacoli per la realizzazione della pace, «il mancato rispetto delle risoluzioni dell’ONU per il ritiro delle truppe di Israele dai territori arabi occupati; i diritti calpestati del popolo palestinese; la politica espansionistica e discriminatoria dello Stato di Israele».

In chiusura, l’articolista scriveva che «purtroppo, a questo proposito, “La Stampa” e “La Voce Repubblicana” non s’indignano mai».

La linea editoriale del giornale comunista non trovò la medesima accoglienza tra i suoi lettori, infatti, nella rubrica Lettere all’Unità, curata dal direttore Luca Pavolini, si possono leggere commenti molto diversificati sulla Risoluzione[8].

«La Stampa» si schierò apertamente contro la Risoluzione, attraverso gli importanti contributi di Carlo Casalegno, Giovanni Spadolini e Furio Colombo. È interessante rilevare che il quotidiano torinese dedicò al voto dell’ONU anche altri articoli, solitamente pubblicati nelle prime pagine, per informare puntualmente i lettori[9].

L’articolo del vicedirettore Carlo Casalegno, Un verdetto antisemita[10], fu pubblicato in prima pagina sul numero del 12 novembre.

Casalegno scriveva che il giorno precedente l’Assemblea Generale dell’ONU aveva votato tre Risoluzioni su Israele e la Palestina. La prima raccomandava che fossero applicati «i diritti umani, civili e nazionali» ai Palestinesi; la seconda chiedeva che l’OLP fosse presente nelle trattative di pace e partecipasse alla Conferenza di Ginevra; la terza condannava il sionismo come «forma di razzismo e discriminazione razziale, ideologia razzista e imperialista, minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale». Per il giornalista, il terzo documento doveva essere respinto come «un’offesa alla verità e alla coscienza civile». All’Assemblea Generale dell’ONU si era ripetuto «l’indecente spettacolo di tiranni che condannano la tirannia», secondo il giudizio del «Times», prendendo una posizione antisionista, quindi, antisemita.

Per mezzo del fanatismo, del ricatto, dell’opportunismo e della demagogia si era costruita un’«alleanza ibrida» per votare un documento che, accusando Israele di razzismo, falsificava la realtà e la storia.

Casalegno continuava analizzando le Nazioni che facevano parte di questa «alleanza ibrida»: tutti i Paesi Arabi; i Paesi comunisti legati a Mosca; una parte delle Nazioni del Terzo Mondo, appena uscite dalla colonizzazione. Il giornalista faceva notare come nessuno degli Stati che avevano votato la Risoluzione fossero autenticamente democratici, bensì erano spesso retti da tiranni sanguinari, come l’Uganda di Amin, oppure erano Stati in cui vi era intolleranza religiosa ed etnica, oppressione delle minoranze. Essi avevano deciso che «gli Israeliani sono colpevoli di razzismo e imperialismo: e non c’è appello contro una sentenza che Hitler avrebbe sottoscritto con entusiasmo»[11].

La Risoluzione non era un documento prettamente formale, senza ricadute pratiche, ma rappresentava una manovra araba per togliere legittimità internazionale ad Israele ed espellere lo Stato Ebraico dall’ONU, conferendo copertura legale al programma dei nazionalisti palestinesi.

Le Nazioni Unite avevano riconosciuto, attraverso una serie di voti nel 1947 e nel 1948, il sionismo come movimento di liberazione nazionale, decidendo, inoltre, la spartizione della Palestina e avallando la nascita di Israele, cioè «la realizzazione dell’idea sionista di uno Stato Nazionale indipendente e sovrano». La messa fuorilegge del sionismo equivaleva a ritirare, dopo trent’anni, il riconoscimento di Israele.

Una simile condanna poteva produrre delle gravi conseguenze, bloccando le trattative di pace e incoraggiando l’estremismo palestinese. La Risoluzione dimostrava che gli Stati Arabi potevano accettare l’esistenza dello Stato Ebraico di fatto, ma non intendevano riconoscere allo Stato d’Israele il diritto di esistere.

Molto interessante la parte conclusiva dell’editoriale di Casalegno, in cui si analizzavano le ripercussioni diplomatiche della Risoluzione; l’antisionismo non era altro che «il nome in codice dell’antisemitismo nei Paesi comunisti e terzomondisti; è la maschera di cui si coprono, dopo Hitler, gli antisemiti».

La Risoluzione dell’ONU non intendeva difendere i diritti dei Palestinesi, bensì negava agli Ebrei il diritto ad avere uno Stato Nazionale, quindi era razzista e antisemita.

In conclusione, Casalegno affermava che l’ONU aveva tradito la sua missione, che si basava sulle idee di eguaglianza, tolleranza e solidarietà.

Secondo il giornalista, il «Parlamento del mondo» non sarebbe durato a lungo sotto l’egemonia di un’alleanza tra Stati comunisti, islamici e del Terzo Mondo, un’alleanza prettamente antioccidentale. Il voto del giorno precedente era il segno di una crisi che poteva essere insanabile.

Il vicedirettore espose tali temi anche in un articolo successivo, pubblicato sempre in prima pagina[12].

«La Stampa» ospitò anche l’intervento di Giovanni Spadolini, esponente di spicco del Partito Repubblicano Italiano.

Nell’articolo[13], pubblicato nella terza pagina dedicata solitamente alle tematiche culturali, si faceva riferimento ad un contributo del senatore Francesco Ruffini, apparso sul «Corriere della Sera» nel 1920, intitolato Sionismo[14]. Nella prima parte, Spadolini si soffermava sull’introduzione che Ruffini aveva scritto per il saggio di Baruch Hagani, Vita di Teodoro Herzl, «un primo significativo contributo alla conoscenza di un problema – la lotta per la creazione dello Stato Nazionale Ebraico – che non era stato ancora approfondito dalla cultura italiana, nonostante la recente e pronta adesione dell’Italia alla dichiarazione Balfour».

L’autore del saggio per Ruffini era «troppo prudente e diffidente biografo», richiamandolo alla forza di un ideale nazionale innestato su un tronco religioso, qual era l’emancipazione del popolo ebraico sottratto alla fatalità della diaspora, ricondotto nei confini di un focolare domestico predestinato. Secondo Giovanni Spadolini, il paragone spontaneo era con Mazzini, «l’uomo che è vissuto sempre nelle nuvole agli occhi di tutti i fautori del particolare, di tutti i seguaci della più ristretta ragion di Stato, di tutti coloro che non sanno sollevarsi di un palmo sopra la loro miserabile accortezza».

È interessante notare come la correlazione fra il nostro Risorgimento e il futuro Risorgimento Ebraico fosse un tema molto caro ai leader sionisti, come Max Nordau[15] che aveva concluso un’intervista[16], concessa al corrispondente del «Corriere della Sera» Guglielmo Emanuel, ricordando «l’esempio luminoso» del Risorgimento Italiano, che gli aveva dato la fede di vedere, un giorno, ricostituita la «Nazione Ebrea».

Tale tema era riscontrabile anche nell’articolo sulla dichiarazione Balfour del senatore Francesco Ruffini.

Proprio il parallelo tra il nostro Risorgimento e quello ebraico era tornato alla mente di Spadolini quando l’ONU aveva votato la Risoluzione che definiva il sionismo «una forma di razzismo e di discriminazione razziale», sullo stesso piano dell’apartheid sudafricano. Per l’autore, il sionismo stava «al Risorgimento Nazionale Ebraico così come il mazzinianesimo sta al Risorgimento Nazionale Italiano».

Herzl si era formato sul pensiero di Mazzini, e tutto il sionismo operante nell’ultimo ventennio dell’Ottocento si era ispirato ai principi dell’autonomia nazionale nel solco di una visione religiosa della democrazia; Spadolini si domandava, retoricamente, perché la condanna dell’ONU non fosse estesa anche al Dio e popolo di Mazzini.

Roma e Gerusalemme era l’indicativo titolo di un saggio di Moses Hess, che si basava sul parallelo e sull’analogia fra la ricostituzione del popolo italiano in unità e il ritorno del popolo ebraico nella Terra Promessa.

Niente di più vergognoso che bollare come razzista il messaggio di liberazione nazional-popolare di Theodor Herzl, che aveva conosciuto, come Ebreo Ungherese e successivamente come corrispondente e redattore della «Neue Freie Presse», l’antisemitismo dell’Europa Orientale e della Francia dell’«Affaire Dreyfus».

Il movimento sionista aveva dovuto combattere contro molti detrattori, così come era accaduto per Mazzini.

«E poi il mito che diventa storia», la realtà di uno Stato Ebraico indipendente e sovrano, fondato sulla tolleranza.

I Paesi che accusavano lo Stato Ebraico di essere razzista, scambiando vittima e carnefice, erano gli stessi che si «ispiravano a una visione clericale e teocratica del potere, incompatibile con qualunque logica della ragione, della tolleranza e dell’eguaglianza. In termini italiani, sarebbe come opporre i principi di Gregorio XVI a quelli di Mazzini».

In un contributo pubblicato sulla prima pagina[17] del quotidiano torinese, Furio Colombo argomentava che il voto all’ONU aveva creato delle divisioni nel mondo, ma non secondo un riferimento di Destra e di Sinistra. Per esempio, i comunisti italiani avevano dichiarato il loro disaccordo, pur ritenendo il sionismo una ideologia conservatrice e reazionaria.

Il sionismo era un vocabolo che aveva sempre avuto come significato quello della creazione di un rifugio e poi di una Patria per porre fine a secoli di persecuzione, solo nella letteratura nazista poteva acquisire una accezione diversa.

La storia aveva fatto in modo che due popoli, gli Ebrei e i Palestinesi, che avevano sofferto moltissimo, si trovassero a stretto contatto, così come era accaduto in altre parti del mondo.

Il mondo civile aveva giustamente decretato che l’Islam, una grande matrice culturale, non era una teoria razzista, anche quando era stato animato dal furore della conquista, poiché «incidenti tragici e spaventosi non mutano una delle grandi culture del mondo».

La deformazione storica cui si era assistito durante il voto all’ONU rappresentava «un’odiosa falsificazione che di solito è tipica di odiosi regimi», capace di «colpire al cuore la credibilità morale e politica delle Nazioni Unite, creando un grave pericolo».

Per l’autore, la decisione adottata era «assurda com’è nel suo squallore, nella sua insensatezza propagandistica, nel suo essere una pura e penosa bugia lontana dalla razionalità della storia e della politica», capace di spezzare «l’assemblea dei Paesi del Mondo come un pezzo di marmo che si rompe lungo una venatura sbagliata».

Nella parte conclusiva del suo contributo, Colombo citava l’esempio della «limpida dichiarazione di Pietro Nenni», che dimostrava come «il dovere urgente del rifiuto pesasse sulle culture del rinnovamento e più in generale sulle Sinistre democratiche».

In conclusione, Colombo esortava tutti a respingere «questo misfatto [...], altrimenti una brutta nebbia di falsificazione e di distorsione comincerà a salire, il nauseante sapore del ’39».

È interessante rilevare che nel suo commento, pubblicato dal «Corriere della Sera» il 12 novembre, il leader socialista Pietro Nenni aveva sì stigmatizzato con durezza il voto dell’ONU, ma aveva citato con chiarezza anche l’importanza della causa palestinese. Tale affermazione era il segnale evidente del cambiamento dell’atteggiamento del Partito Socialista Italiano verso Israele, evidenziatosi già a partire dalla Guerra del Kippur del 1973, quando la linea politica del Partito era divenuta progressivamente più simile a quella della Democrazia Cristiana. Furono soprattutto gli anni della Segreteria di Bettino Craxi a segnare un deciso impegno del Partito Socialista Italiano per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Concludiamo questa analisi riportando integralmente le ragguardevoli parole del giornalista de «La Stampa» Guido Ceronetti sullo Stato d’Israele che «divide e inquieta, tutti farebbero a meno della sua esistenza se la sua esistenza non fosse la condizione della sopravvivenza di tutti. È uno Stato di grandezza insignificante che pone troppi problemi politici e morali e che fa alle Nazioni questo straordinario ricatto metafisico: “Se io sarò distrutto, anche voi, presi nello stesso vortice, lo sarete”. Perciò nessuno Stato è più di questo povero di amici»[18].

L’analisi delle modalità con cui «L’Unità» e «La Stampa» trattarono il tema della Risoluzione getta una luce sull’influenza che la politica estera italiana del secondo dopoguerra ebbe sugli orientamenti dell’opinione pubblica.


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V. Zaslavsky, R. B. Brym, Fuga dall’Impero. L’emigrazione ebraica e la politica delle nazionalità in Unione Sovietica, Napoli, Esi, 1985.


Note

1 Confronta John P. Humphrey, The United Nations Sub Commission on the Prevention of Discrimination and the Protection of Minorities, «The American Journal of International Law», LXII:4 (October, 1968), pagine 869-888.

2 Confronta G. Pajetta, Socialismo e mondo arabo, Roma, Editori Riuniti, 1970, pagina 12.

3 Ivi, pagina 80.

4 Confronta C. Vercelli, Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze, Giuntina, 2007, pagina 18.

5 Anonimo, Una Risoluzione che non condividiamo. L’ONU, Israele e il sionismo, «L’Unità», 21 ottobre 1975;
Anonimo, Il nostro dissenso, «L’Unità», 12 novembre 1975.

6 Per la Guerra del Kippur, confronta T. Vecchietti, Le radici della guerra, «Rinascita», 12 ottobre 1973;
G. Boffa, L’errore storico di Israele, «L’Unità», 14 ottobre 1973.

7 Confronta M. Gh., Voti ideologici e concreti problemi politici, «L’Unità», 13 novembre 1975.

8 Confronta Lettere all’Unità. La mozione dell’ONU sul sionismo, «L’Unità», 25 novembre 1975;
Lettere all’Unità. Il sionismo e i diritti dei Palestinesi, «L’Unità», 3 dicembre 1975.

9 Confronta Anonimo, Il voto sul sionismo divide i Cristiani, «La Stampa», 28 novembre 1975;
Anonimo, ONU: passa la mozione condanna al sionismo, «La Stampa», 12 novembre 1975;
Anonimo, Una drammatica seduta, «La Stampa», 12 novembre 1975;
Anonimo, Il documento, «La Stampa», 12 novembre 1975;
Giorgio Romano, Dure reazioni al voto all’ONU sul sionismo, «La Stampa», 12 novembre 1975;
Anonimo, Messaggio del PI agli Ebrei, «La Stampa», 13 novembre 1975.

10 Confronta Carlo Casalegno, Un verdetto antisemita, «La Stampa», 12 novembre 1975.

11 Sul tema dell’antisionismo come antisemitismo, confronta Anonimo, Le origini naziste dell’antisionismo, «La Stampa», 1° novembre 1975.

12 Confronta Carlo Casalegno, Fanatismo all’ONU, «La Stampa», 19 ottobre 1975.

13 Confronta Giovanni Spadolini, Il sionismo, «La Stampa», 28 ottobre 1975.

14 Confronta Francesco Ruffini, Sionismo, «Corriere della Sera», 17 giugno 1920.

15 Confronta Anonimo, Un colloquio con Max Nordau, «Corriere della Sera», 29 agosto 1903.

16 Confronta Guglielmo Emanuel, Il sionismo e la sua crisi. I giudizi di Nordau e Marmorek, «Corriere della Sera», 6 settembre 1907.

17 Confronta Furio Colombo, La nebbia del ’39, «La Stampa», 13 novembre 1975.

18 Confronta Guido Ceronetti, I nemici d’Israele, «La Stampa», 13 novembre 1975.

(luglio 2015)

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