Le antiche origini dell’Ebraismo
I caratteri distintivi di un popolo e di una religione

La parola «Giudeo» fu usata per designare, in origine, i membri della tribù di Giuda, Jehudad nell’antica Palestina, e in seguito gli abitanti della Giudea. La parola inglese per Ebraismo, Judaism, si richiama a questa prima denominazione. La religione è detta anche di «Mosè», in quanto Mosè ne è ritenuto il fondatore. Lo Stato di Israele definisce un Ebreo in questo modo: «Chi è nato da madre ebrea e non appartiene ad alcun’altra religione». Questa definizione si allarga anche a comprendere i coniugi. L’Ebraismo non rappresenta soltanto una comunanza religiosa, ma anche una comunanza storica e culturale. Nel corso della storia la parola «Ebreo» è stata usata con connotazione razziale, ma tale concetto è privo di senso. Vi sono Ebrei con la pelle di diversi colori.

Le condizioni razziali del territorio linguistico «semitico» non sono semplici; la vecchia concezione di una «razza semitica», diffusa con caratteri omogenei su tutta l’area occupata dalle lingue semitiche, è insostenibile; lingua e razza non coincidono. In particolare, la posizione antropologica, ossia la posizione e qualità razziale degli Ebrei, non è neppure semplice. Occorre distinguere i gruppi ebraici rimasti in Asia da quelli emigrati in Europa e in Africa. La tradizione ebraica parla di due correnti della «Diàspora» (dispersione), un ramo meridionale, i «Sefardim» (Mediterraneo, Europa Occidentale fino all’Olanda e Gran Bretagna), e un ramo orientale, gli «Ashkenazim» (Russia Meridionale, Balcani, Polonia, Germania); questi ultimi si sono assai moltiplicati e costituiscono circa i nove decimi degli Ebrei esistenti ora nel mondo; essi hanno anche contribuito per gran parte al popolamento dello Stato di Israele. Alcuni ritengono che i «Sefardim» avrebbero originariamente presentato i caratteri della razza «Orientalide», invece gli «Ashkenazim» avrebbero avuto caratteri riconducibili alla razza «Armenide». In particolare si volle considerare armenoide il «naso ebraico» (prominente, carnoso, convesso o diritto nel profilo, con punta arrotondata talora più bassa delle narici, con forma più o meno a 6); ma effettivamente il naso degli Armeni, dei Turchi anatomici e dei Siriani non ha tali precisi caratteri. Assai più probabilmente alcuni caratteri somatici degli Ebrei derivano dalla razza «Assiride», a cui appartennero popolazioni dell’Assiria e anche popolazioni hittite. La razza assiride originariamente presentava pelle bruna, testa di forma lunga e un po’ depressa, statura media e alcuni caratteri «equatoriali» (capelli cresputi, labbra un po’ tumide, accenni di parziale prognatismo); questi caratteri equatoriali, per gli Ebrei potevano essere spiegati dal loro antico contatto con l’Egitto; del resto è nota l’esistenza di Ebrei a pelle scura in Etiopia.

Certo è però che il popolo ebraico non è costituito solo da rappresentanti dell’antica razza assiride; nelle aree asiatiche si rilevano facilmente tipi rassomiglianti alla razza orientalide; nelle aree dell’Europa Orientale il biondismo e il rutilismo (capelli rossi) disgelano contatti con popolazioni locali; altrove non mancano influssi di altre razze. È da notare, a questo riguardo, che l’isolamento degli Ebrei non fu molto rigoroso, almeno fino agli ultimi secoli del Medioevo, e anche dopo non fu mai assoluto. In Oriente poi le colonie ebraiche della «Diàspora» avevano facili contatti con elementi locali, prima e dopo la diffusione del Cristianesimo, tanto più che in queste aree gli Ebrei avevano frequenti contatti commerciali con vari elementi non cristiani e con cristiani dissidenti. Non si può quindi parlare di una vera «razza ebraica» anche se qualche elemento somatico di tipo assiride sia piuttosto frequente fra gli Ebrei.

Un tratto caratteristico della religione ebraica è il suo forte legame con la storia. I racconti dei testi sacri si basano sulla ferma convinzione che Dio abbia stretto un vincolo particolare, un patto o un’«alleanza» con il popolo da Lui prescelto.

I libri di Mosè iniziano col racconto di Adamo ed Eva e di una serie di avvenimenti drammatici tesi a dimostrare cosa accade quando gli uomini commettono un peccato e si ribellano a Dio. Adamo ed Eva vengono cacciati dal giardino dell’Eden, il Paradiso Terrestre; mettono al mondo dei figli, ma Caino uccide suo fratello Abele, e viene confinato da Dio nella terra «a Est dell’Eden». In seguito la Terra è distrutta da un diluvio universale, al quale scampano soltanto Noè con la sua famiglia e una coppia di tutti gli animali del mondo. Le città senza Dio, Sodoma e Gomorra, sono rase al suolo e la Torre di Babele, simbolo del tentativo dell’uomo di raggiungere il cielo, è distrutta.

I primi capitoli dei libri di Mosè sono spesso considerati la «protostoria» del popolo ebraico.

Gli autori della Bibbia considerano che tutto ciò che accade agli uomini sia frutto della volontà divina.

La fase successiva comincia con Abramo, il quale partì dalla città di Ur, nell’attuale Iraq Meridionale, intorno al 1800 avanti Cristo. Nel primo libro di Mosè si narra che Dio disse ad Abramo: «Lascia la tua terra e i tuoi parenti e la casa di tuo padre per la terra che Io ti mostrerò! Farò di te un grande popolo». Questo popolo ricevette il proprio nome dopo che il nipote di Abramo, Giacobbe, ebbe sostenuto la sua drammatica lotta con Dio che gli diede l’appellativo di Israele. E i dodici figli di Giacobbe furono i progenitori delle dodici tribù di Israele.

Nel corso del viaggio verso la Terra Promessa alcune delle tribù israelitiche giunsero in Egitto, dove divennero schiave dei Faraoni. Sotto il regno di Ramses II, intorno al 1100 avanti Cristo, Mosè condusse il suo popolo fuori dall’Egitto, e gli Israeliti vagarono nel deserto per quarant’anni prima di raggiungere Canaan, la Terra Promessa.

Durante la permanenza nel deserto, Dio sul monte Sinai diede a Mosè e agli Israeliti le Tavole della Legge con i Dieci Comandamenti. Questo atto sanciva l’alleanza tra Dio e gli Israeliti.

L’alleanza prevedeva che gli Israeliti avrebbero adorato un solo Dio, e che Dio, in cambio, ne avrebbe fatto il Suo popolo eletto. Se essi si fossero attenuti alla Legge di Mosè avrebbero potuto contare sempre sulla Sua protezione.

L’opera di Mosè si chiuse con l’avviare gli Ebrei alla conquista della Palestina e sul finire del II millennio avanti Cristo vi fu la prima conquista. Ma questa non si attuò in breve tempo, né secondo un piano prestabilito, bensì nel corso di varie generazioni e rimanendo a lungo parziale, talché non divenne completa se non dopo il periodo dei Giudici e in seguito all’istituzione della monarchia. I capi politici e religiosi erano i cosiddetti «Giudici», che avevano il compito di controllare che le leggi dettate da Dio fossero rispettate ed onorate. Ben presto, però, si sentì la necessità di un potere centralizzato, anche a causa della guerra contro i Filistei.

Fu Saul a dare origine al regno, intorno all’anno 1000 avanti Cristo, ma il massimo splendore fu raggiunto con Davide e Salomone, al tempo in cui Israele era ciò che oggi chiameremmo una superpotenza politica. Davide, nato a Betlemme, fu il leggendario Re che sconfisse i nemici di Israele e riunì le dodici tribù sotto il suo potere a Gerusalemme. L’Arca dell’Alleanza con le Tavole dei Dieci Comandamenti che, secondo la tradizione, gli Israeliti avevano portato con loro dal Sinai, fu trasferita nella nuova capitale. Qui fu collocata nella sala più protetta e più sacra del Tempio, che il successore di Davide, Salomone, fece erigere nel 900 avanti Cristo.

Nella sala più interna e scura del Tempio, venivano presentate a Dio offerte di incenso e focacce. In un vestibolo esterno stavano i sacerdoti per compiere invece le offerte sacrificali che potevano essere costituite sia da animali uccisi sul posto, sia da frutti della terra. In occasione del rito si eseguivano canti ed inni, che nella Bibbia sono tramandati come Salmi di Davide. Le offerte sacrificali dovevano essere presentate secondo un rituale preciso: esse servivano sia per rendere omaggio a Dio, sia per espiare i peccati commessi dagli offerenti.

Ad un certo momento, però, i sacrifici divennero delle pure formalità poco sentite. Allo stesso tempo il governo del Paese mostrava segni di decadenza morale e di sregolatezza politica. Questo scatenò veementi proteste da parte dei profeti del Tempio, tra cui Amos, che visse intorno al 750 avanti Cristo e che si scagliò contro la disparità sociale e l’oppressione che la classe dominante esercitava sugli strati più poveri della popolazione. Numerosi profeti si batterono, in effetti, più per la giustizia sociale e gli ideali etici che per ridare vigore e significato al culto dei sacrifici. I profeti predissero che Dio avrebbe punito Israele poiché non viveva nel rispetto della Legge. E, per molti, il declino e la rovina di Israele non furono che il compiersi di questa profezia. Il regno fu diviso in una regione settentrionale (Israele) e una meridionale (regno di Giuda). Nel 722 avanti Cristo il regno del Nord fu occupato dagli Assiri e da quel momento cessò di rivestire importanza religiosa o politica.

Il regno del Sud, con capitale Gerusalemme, fu conquistato dai Babilonesi nel 587 avanti Cristo, gran parte della popolazione fu deportata in Babilonia, ed ebbe inizio la cosiddetta cattività babilonese. Ma, nel 539 avanti Cristo fu permesso, a coloro che lo desideravano, di far ritorno in patria. Da allora queste popolazioni furono chiamate «Giudei» (Ebrei).

Con la fine della cattività babilonese e il ritorno in patria, si sviluppò quella religione conosciuta come Ebraismo e in cui assunse un ruolo centrale la sinagoga: un edificio di culto dove i fedeli si ritrovavano per pregare e leggere le Scritture. Questa funzione religiosa era nata in esilio, in condizioni di necessità, poiché a Babilonia gli Ebrei non avevano un tempio in cui riunirsi. Rientrati in patria, conservarono questa forma di culto legata alle sinagoghe che nel frattempo erano sorte in molte città. Un ruolo importante in questo contesto svolgevano gli «scribi», laici che custodivano le Sacre Scritture, le interpretavano e le spiegavano. La maggior parte di questi «dottori della legge» apparteneva al gruppo dei «farisei», ai quali a poco a poco divenne abituale associarli e confonderli.

I farisei, caratterizzati da grande senso della moralità e da forte coesione interna, attribuivano enorme importanza alla Legge dei libri di Mosè, soprattutto alle regole di purificazione; cercavano, inoltre, di interpretare la Legge in rapporto alle nuove situazioni che si venivano a creare, e formulavano commentari e spiegazioni della Torah. In questo contesto il ruolo del Tempio fu in qualche modo ridimensionato.

Il Tempio, incendiato nella conquista babilonese del 587 avanti Cristo, fu restaurato nel 516 avanti Cristo. Il Gran Sacerdote, i sacerdoti e i leviti erano i ministri del culto, che contemplava il sacrificio quotidiano di un agnello in espiazione dei peccati della popolazione. Dopo l’esilio il Gran Sacerdote assunse una posizione di rilievo, e divenne il Capo del Gran Consiglio (sanhedrin), che in seguito accolse anche rappresentanti dei farisei. Dal punto di vista politico, in questo periodo gli Ebrei furono sempre più soggetti alla dominazione straniera. Nel 70 dopo Cristo una rivolta contro i Romani portò all’assedio di Gerusalemme e a una nuova distruzione del Tempio che aveva assunto proporzioni splendide sotto il Re Erode. Tutto questo sancì la fine del tradizionale ruolo della classe sacerdotale. Da questo momento in poi fu il nuovo Ebraismo, che aveva il suo centro di culto nella sinagoga, ad avere il sopravvento.

Molti Ebrei si sparsero nei Paesi intorno al Mediterraneo, e anche più lontano; e furono chiamati «Ebrei della diaspora» perché vivevano lontano dalla propria terra.

Gli Ebrei, in alcuni periodi storici, hanno occupato un posto preminente nei Paesi in cui si erano stabiliti. La cultura ebraica raggiunse il suo apice in Spagna, nei secoli XIII e XIV.

Uno dei filosofi più eminenti fu il rabbino Mosheh ben Maimon (Maimonide), il quale tentò una sintesi tra la fede ebraica e la filosofia greca di Aristotele, pur rimanendo nel solco della tradizione ebraica, come dimostra nel suo trattato sui tredici articoli di fede dell’Ebraismo.

L’intellettuale e razionalista Maimonide si poneva in netto contrasto con la mistica ebraica, o «kabbalah», che aveva conosciuto il suo massimo sviluppo nella Spagna medioevale.

La mistica esisteva da tempo come una corrente sotterranea dell’Ebraismo parallelamente alla corrente dominante, più erudita, dei rabbini. La kabbalah, che significa «tradizione, trasmissione», era, secondo il Talmud, la dottrina segreta riguardante Dio e la creazione. I mistici si concentrarono sullo studio della Torah, portandone però alla luce e sviluppandone, gli aspetti segreti e nascosti. Il testo principale della kabbalah è lo Zohar, Lo Splendore, opera di un Ebreo spagnolo del XIII secolo. Questi descrive Dio come un principio eterno che dirige il suo sguardo di luce sul mondo spirituale, del quale il mondo materiale è soltanto un riflesso. I seguaci della kabbalah affermano di poter raggiungere l’unità con il principio divino, vivendo quindi una più intensa esperienza religiosa.

Nel corso di tutto il Medioevo e fino ai giorni nostri gli Ebrei sono stati oggetto di persecuzioni.

La comunità cristiana ha, a più riprese, fatto cadere su di loro la responsabilità della crocifissione di Gesù e ha visto nel loro destino infelice la giusta punizione. Gli Ebrei furono cacciati dalla Francia e dall’Inghilterra nei secoli XIII e XIV.

E nel secolo XV in Spagna furono prima perseguitati, poi banditi. Ma, un po’ ovunque, nell’Europa dell’Età Moderna, sono stati ghettizzati o perseguitati.

Gli Ebrei sono stati fatti oggetto di leggi speciali, come quella di Innocenzo III, che nel 1215, impose agli Ebrei la «rotella», il disco giallo da portarsi sulla veste per riconoscimento.

Il flagello della «peste nera», che si abbatté sull’Europa nel 1348, e che essi sono accusati di diffondere, sono motivi validi per capire gli Ebrei. Nel 1492, l’Inquisizione di Spagna contro i «marrani» così definiti dagli Spagnoli e dai Portoghesi, espulse 150.000 Ebrei, che nel 1498, fatti salire su battelli, andarono errando sull’Oceano, in cerca di terre che li accogliessero.

Parte morirono in mare, chi si salvò poté fondare colonie ebraiche in Marocco ed in Tunisia.

Anche senza una vera e propria forma di persecuzione diretta gli Ebrei vennero presto emarginati dalla società. Fu loro imposto di modificare il proprio nome per renderlo immediatamente riconoscibile, e furono confinati in particolari quartieri della città, denominati «ghetti» o «haser». Al tempo in cui l’agricoltura era la loro unica fonte di sostentamento, non potevano possedere terra, e per questa ragione prosperarono come mercanti. Al contrario di Cristiani e musulmani, potevano prestare denaro ad interesse, e molti di loro divennero potenti banchieri.

Per mille anni gli Ebrei hanno atteso il Messia, che avrebbe creato un regno di pace sulla Terra. Le premesse storiche per queste aspettative risalgono al tempo dello splendore di Israele sotto Davide, quando il Re veniva unto e consacrato al momento dell’insediamento.

Messia, infatti, significa, letteralmente, «colui che è stato unto». Fin dai tempi della cattività babilonese gli Ebrei hanno nutrito la speranza e la fede nella venuta di un Messia, un nuovo Re della stirpe di Davide. Questo Re ideale avrebbe dovuto ristabilire la potenza di Israele e garantire un futuro felice alla popolazione.

Anche oggi rimane viva tra gli Ebrei la speranza nella venuta del Messia. Ma non tutti concepiscono il Messia come una persona. Molti parlano, piuttosto, di un tempo messianico, cioè una condizione di pace sulla Terra, in cui Israele è destinato a occupare una posizione di eminenza. Alcuni Ebrei sostengono perciò che la creazione dello Stato di Israele, nel 1948, abbia esaudito le aspettative del Messia tramandate di generazione in generazione.

Lo Stato di Israele fu creato al termine di un processo iniziato alla fine dell’ ’800, quando tra gli Ebrei si cominciò a considerare la possibilità di far ritorno alla vecchia patria.

Questa prospettiva concretizzava l’antica aspirazione che si rinnova ad ogni Pasqua: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Lo scrittore Theodor Herzl (1860-1904), in un libro intitolato: Lo Stato ebraico, sottolineò come integrazione e assimilazione non avessero posto fine alla persecuzione degli Ebrei e proponeva, quindi, come unica alternativa la creazione di un proprio Stato. Questo concetto fu ribattezzato «sionismo», dal nome della montagna su cui sorge Gerusalemme, Sion appunto.

A quel tempo vivevano, in Palestina, soltanto 25.000 Ebrei, ma in seguito iniziò una grande ondata immigratoria, soprattutto di Ebrei russi. Il progetto di uno Stato ebreo languiva, anche a causa della dominazione coloniale inglese della Palestina. Tuttavia, le persecuzioni naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrarono la necessità di una terra in cui gli Ebrei potessero sentirsi a casa e al sicuro. Nel 1948 fu proclamata la nuova Repubblica di Israele.

Molti sionisti aspiravano ad uno Stato laico, in contrasto con gli Ebrei ortodossi convinti che ciò equivalesse a farsi carico del ruolo che spettava al Messia e invocavano, invece, uno Stato basato sulla religione ebraica. Questa seconda linea finì per prevalere, ma la disputa sul grado di influenza che la religione dovrebbe (o non dovrebbe) avere nella vita sociale in Israele è tuttora in corso.

Il nuovo Stato è vissuto e vive in costante conflitto con il mondo arabo, da quando tutti i Palestinesi, al momento della costituzione di Israele, sono dovuti andarsene. In seguito, Israele ha accolto immigranti ebrei provenienti da tutto il mondo.

Il libro sacro degli Ebrei è la Bibbia, una raccolta di scritti di natura storica, letteraria e religiosa. Il contenuto della Bibbia ebraica corrisponde a quasi tutto l’Antico Testamento nella Bibbia cristiana, ma la suddivisione presenta alcune differenze. Il canone ebraico fu stabilito da un sinodo a Javne intorno al I secolo. In totale comprende 38 scritti, divisi in tre gruppi:

La Legge (Torah): i cinque libri di Mosè.

I Profeti (Nebiim): libri storici e profetici.

Gli Scritti (Ketubim): i libri rimanenti.

Se si uniscono le iniziali dei nomi ebraici di queste tre parti, si ottiene la parola Tanak, la comune designazione ebraica della Bibbia. La parola Bibbia deriva, in realtà, da un termine greco che significa «libri», ma è usata allo stesso modo da Ebrei e Cristiani.

I cinque libri di Mosè sono stati considerati come un tutt’uno fin dal tempo di Gesù e questi testi furono chiamati «Legge» in quanto contenevano le norme giuridiche e morali e le regole relative al culto. Trattano della scelta e dell’educazione di un popolo speciale ad opera di Dio: il popolo d’Israele. Le ripartizioni dei cinque libri di Mosè sono dovute alla traduzione greca del testo di base ebraico compiuta intorno al 200 avanti Cristo. Non è stato un solo autore a scrivere i cinque libri di Mosè. I numerosi racconti che li compongono sono stati tramandati, oralmente, per molto tempo e poi trascritti nell’arco di un lungo periodo. L’intero processo si è concluso intorno al 400 avanti Cristo.

Caratteristica di tutti questi testi è la concezione degli avvenimenti politici come espressione del rapporto tra Dio e il popolo d’Israele, a seconda delle varie circostanze. L’intera storia di Israele viene descritta come regolata dalla legge del contrappasso: l’obbedienza al volere di Dio comporta benedizione, la disobbedienza e l’apostasia provocano condanna e infelicità.

In questi libri si può quindi trovare la giustificazione sia dell’incendio del Tempio di Gerusalemme, sia della deportazione a Babilonia. In questo gruppo di testi si trova la narrazione delle sorti del popolo dallo stanziamento nella terra di Canaan (1200 avanti Cristo circa) fino alla cattività babilonese. Nel panorama mondiale, questi libri rappresentano l’esempio più antico del loro genere; sono stati scritti molto prima della nascita dei concetti di storiografia e dello studio delle fonti.

L’intento dei libri storici dell’Antico Testamento, infatti, non era quello di registrare gli avvenimenti per conservarne la testimonianza storica, ma piuttosto quello di fornire un’interpretazione religiosa della storia. Due dei libri storici hanno per protagoniste due donne e perciò sono indicati con il loro nome: il Libro di Rut e il Libro di Ester.

I libri profetici sono quelli di Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Malachia, Isaia, Geremia, Ezechiele e quelli relativi ai «dodici profeti minori».

I profeti, secondo le loro stesse affermazioni, erano chiamati da Dio ad annunciare al popolo eletto il suo volere e, spesso, premettevano alle proprie dichiarazioni la formula «Parola di Yahweh».

Il Libro dei Salmi è, tra gli scritti poetici del Vecchio Testamento, un testo di particolare rilevanza. La maggior parte dei salmi (in tutto 150) risale al periodo dei Re, è cioè antecedente alla distruzione di Gerusalemme del 587 avanti Cristo. Essi venivano utilizzati, principalmente, in occasione delle cerimonie o delle feste celebrate nel Tempio di Gerusalemme. Circa la metà dei salmi è attribuita a Davide, ma non è certo che ne sia stato l’autore effettivo, poiché la composizione di molti canti risale ad una data chiaramente posteriore. Il Libro di Giobbe è considerato una delle perle della letteratura mondiale. Nel testo si dibatte, con toni drammatici e una precisa struttura narrativa, la questione del significato della sofferenza e della giustizia divina. Il Cantico dei Cantici è una raccolta di poesie sull’amore tra uomo e donna, spesso interpretato come metafora del rapporto tra Dio ed Israele. Una posizione di rilievo occupa il più recente degli scritti, il Libro di Daniele, composto intorno al 165 avanti Cristo.

Il libro fa parte della letteratura «apocalittica» tipica del tempo (apocalittico deriva da una parola greca che significa «rivelare» o «manifestare»; la letteratura così definita intende infatti rivelare o manifestare le intenzioni di Dio riguardo alla sorte del mondo).

Accanto alla Torah, vi sono anche regole e comandamenti tramandati in forma orale. Secondo la tradizione ebraica, Mosè, sul Sinai, non ricevette da Dio soltanto la «dottrina scritta», ma anche la «dottrina orale». Quest’ultima, secondo una precisa proibizione, non poteva essere messa per iscritto, in quanto essa doveva adattarsi alle condizioni di vita delle diverse epoche della storia di Israele. Tuttavia, dopo che gli Ebrei si furono sparsi per il mondo, sorse il timore che la dottrina orale potesse andare perduta. Così, nel secolo successivo alla distruzione di Gerusalemme, fu deciso di fissarla in forma scritta.

Questo testo è chiamato Talmud, una parola ebraica che significa «studio».

Il Talmud contiene leggi, regole, considerazioni giuridiche, commentari, precetti morali, ma anche racconti e leggende che rimettono in discussione tutto.

La professione di fede ebraica suona così: «Ascolta, Israele! Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Deuteronomio 6,4). Essa viene recitata dagli Ebrei osservanti la mattina e la sera.

Il termine ebraico per indicare Dio è Yahweh, e tale nome è così sacro da non potersi pronunciare. Al suo posto si usa, solitamente, il termine «Signore» (in ebraico si usano le quattro lettere YHWH, senza alcuna indicazione di pronuncia; ai Samaritani si deve la conservazione della pronuncia Yahweh, mentre Jehowah risale ad epoca medievale).

Yahweh è colui che ha creato e mantiene l’ordine nel mondo. È inconcepibile per un Ebreo negare l’esistenza di Dio. Ela Wiesel, vincitore del premio Nobel dice: «Si può essere “con” Dio, si può essere “contro” Dio, ma non si può essere “senza” Dio».

Nella sinagoga non ci sono immagini religiose o pale d’altare, come conseguenza del divieto (il primo comandamento) di raffigurare Dio. Rilievo di centrale importanza assume quindi in una sinagoga ebraica l’arca o custodia della Torah, situata sulla parete orientale in direzione di Gerusalemme, dove appunto si conservano i rotoli della Torah. In segno di rispetto essi sono, spesso, avvolti nella seta o in altre stoffe pregiate e decorate. Di fronte all’arca arde, ininterrottamente, una lampada. La lettura della Torah ha luogo in maniera solenne durante la funzione religiosa del sabato mattina nella sinagoga: l’arca viene aperta, il rotolo portato attraverso la sala fino al pulpito e qui viene letto un brano del testo in ebraico. Passi della Torah sono letti anche di giovedì e di lunedì, in modo che, nel corso di un anno, sia completata la lettura dell’intero testo.

La funzione religiosa consiste anche in preghiere, salmi e benedizioni che il fedele può seguire su un proprio libro: il Siddur. La preghiera più importante è la preghiera delle «Diciotto Benedizioni» che vanta una tradizione di duemila anni. Altro momento centrale è la professione di fede: «Shema». La cerimonia della preghiera, nella sinagoga, può svolgersi per tre volte ogni giorno, a condizione che siano presenti almeno dieci adulti (si diventa adulti con la cerimonia «bar mitzwah» all’età di tredici anni). Le donne non hanno alcun ruolo attivo nella funzione religiosa e nelle comunità ortodosse siedono separate dagli uomini, spesso in una galleria assieme ai bambini. Le tre preghiere quotidiane si possono recitare anche in casa.

In una casa ebraica la religione occupa un posto rilevante e le donne hanno una funzione più attiva, soprattutto in occasione dello «shabbath» e delle grandi solennità.

Lo shabbath dura dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato in ricordo del giorno, il settimo, in cui Dio si riposò dopo aver creato, nei sei precedenti, il mondo. Ed è la festa della casa e della famiglia. La padrona di casa benedice ed accende le candele dello shabbath sulla tavola imbandita. Il padrone di casa benedice il vino e taglia il pane.

Gli Ebrei hanno conservato riti molto antichi per celebrare le più importanti tappe della vita: nascita, aggregazione alla comunità, matrimonio e sepoltura.

Otto giorni dopo la nascita i bambini maschi vengono circoncisi, così come è prescritto dalla Torah: «Farete tagliare il prepuzio, e questo sarà il segno del patto tra Me e voi. Generazione dopo generazione, ogni vostro figlio maschio sarà circonciso all’età di otto giorni». La circoncisione è eseguita da specialisti autorizzati. Il neonato ha un padrino e una madrina, che lo consegnano al padre. Questi lo tiene in braccio durante la cerimonia mentre si recitano le preghiere e nel momento dell’imposizione formale del nome. Si tratta di una cerimonia religiosa solenne e festosa che, spesso, si conclude con un banchetto.

Anche alle femmine viene imposto il nome nella sinagoga a una settimana dalla nascita. In questa occasione il padre è chiamato di fronte alla Torah e recita una preghiera per la madre e per la figlia.

All’età di 13 anni un ragazzino ebreo diviene un «bar mitzwah», espressione ebraica che significa «figlio del precetto». La cerimonia ha luogo nella sinagoga lo shabbath successivo al compimento del tredicesimo anno. Nel corso dei dodici mesi precedenti, il ragazzo è stato allievo di un rabbino o di uno scriba ed ha appreso le regole e le leggi ebraiche.

Una ragazzina diviene, automaticamente, una «bat mitzwah», cioè «figlia del precetto», quando compie 12 anni, e a 15 anni le vengono impartite lezioni di storia e tradizioni ebraiche, soprattutto per quanto riguarda le prescrizioni relative al cibo al quale è compito della donna provvedere.

Il matrimonio è considerato come modello ideale di vita, istituito da Dio e unica forma permessa di convivenza. Un Ebreo è tenuto a sposarsi con un appartenente alla stessa religione, ma il matrimonio misto sta divenendo sempre più comune.

Il divorzio è consentito, anche se, per essere valido, deve essere riconosciuto da un tribunale ebraico e confermato da un attestato di divorzio che l’uomo consegna alla donna.

La sepoltura deve aver luogo il più presto possibile, per motivi igienici. La cremazione non è ammessa. Il defunto è lavato e rivestito di un abito bianco, dopodiché viene deposto in una semplice cassa di legno. Gli uomini vengono avvolti nel loro scialle di preghiera.

Non sono ammessi né fiori, né musica durante la cerimonia, che è officiata dal cantore. Questi getta tre palate di terra sulla cassa, mentre dice: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto, benedetto sia il nome del Signore». Il rabbino tiene un discorso di commemorazione, mentre il figlio o il più prossimo parente maschio legge un inno di lode: la preghiera «qaddish». Dopo il funerale la famiglia osserva una settimana di lutto e, ogni anno, nell’anniversario della morte, i parenti più stretti accendono una candela sulla tomba e leggono la preghiera «qaddish». Gli Ebrei hanno una grande cura dei loro cimiteri dove riposano i morti in attesa del giorno della risurrezione.

Le solennità ebraiche sono legate al calendario ebraico e, spesso, hanno una motivazione storica. Il computo del tempo comincia con la creazione del mondo, che secondo la nostra cronologia equivale al 5 ottobre del 3761 avanti Cristo. Il calendario ebraico è costruito sull’anno lunare e si compone di dodici mesi con 29 o 30 giorni, per un totale di 354 giorni. Nell’arco di 19 anni, per stare al passo con l’anno solare, viene inserito, per sette volte, un mese aggiuntivo. In conseguenza di ciò le date delle feste cambiano di anno in anno, come la Pasqua cristiana. Tre delle festività sono feste che si ispirano al pellegrinaggio e che affondano le loro radici nella storia di Israele. Nei tempi antichi, tutti i maschi dovevano recarsi al Tempio di Gerusalemme con le proprie offerte. Altre festività si ispirano ad eventi storici.

«La festa di Capodanno: Rost Hashanah» ha luogo in settembre-ottobre. Un mese prima, tutti gli Ebrei si sforzano di osservare, con estremo rigore, i doveri religiosi e di dedicarsi alla beneficenza. Durante la funzione religiosa, svolta nella sinagoga, si soffia in un corno di capro. Il corno simboleggia l’animale che Abramo sacrificò al posto di Isacco e ricorda la bontà di Dio. Nelle case si organizza un grande pranzo con numerose pietanze ricche di valore simbolico, tra le quali mele tuffate nel miele che si mangiano augurandosi a vicenda «un anno buono e dolce».

«Il giorno della riconciliazione: Yom Kippur» conclude il periodo di penitenza di dieci giorni che contraddistingue l’inizio del nuovo anno. In origine la festa della riconciliazione era il giorno dell’anno in cui il Gran Sacerdote entrava nella sala più sacra del Tempio dopo aver sacrificato un capro in segno di espiazione per i peccati del popolo. Oggi i credenti riconoscono i propri peccati nella sinagoga e la cerimonia si conclude con il suono del corno e il saluto: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Per gli Ebrei questa è la solennità più importante e quella che tocca maggiormente la sfera personale.

«La festa delle capanne: Sukkoth» dura una settimana e per l’occasione si costruiscono capanne di foglie e frasche nei giardini e presso le sinagoghe per ricordare i rifugi approntati dagli Ebrei durante il pellegrinaggio nel deserto, e la bontà dimostrata da Dio nei loro confronti.

«La festa della consacrazione del Tempio: Chanukkah» si celebra in novembre-dicembre e dura otto giorni, durante i quali si accende, quotidianamente, una candela in uno degli otto bracci del candelabro «chanukkah». La festa commemora la consacrazione del Tempio a Gerusalemme avvenuta nel 165 avanti Cristo. Questa solennità ha caratteristiche simili al Natale cristiano. Si scambiano doni ed è festa, soprattutto, per i bambini.

«La festa della Pasqua (in ebraico Pesach, significa “passaggio”)». La Pesach si festeggia in marzo-aprile e ricorda la fuga degli Ebrei dall’Egitto dopo che Dio aveva inflitto la decima piaga agli Egiziani che tenevano schiavo il Suo popolo.

In occasione di questa solennità, in casa si fanno grandi pulizie, si usa un particolare servizio di piatti e argenteria, e non si può mangiare o bere nulla che contenga mais o farina lievitati.

La Pasqua è spesso denominata anche «festa del pane azzimo», per ricordare come gli Ebrei fuggiti dall’Egitto non avessero avuto il tempo di far lievitare la pasta. Durante gli otto giorni della Pasqua si mangia solo pane non lievitato, o «matzah».

Il pasto pasquale si chiama «seder», termine ebraico che significa «ordine», e segue un preciso rituale di pietanze fisse con valenza simbolica: il prezzemolo immerso in una ciotola d’acqua salata, simbolo delle lacrime degli Ebrei in Egitto; erbe amare che ricordano la dura schiavitù sotto il Faraone; una mistura di mele, noci, vino e miele simboleggia l’impasto d’argilla usato per i lavori di muratura. Un cosciotto d’agnello arrosto è la vera e propria offerta pasquale; uova sode rappresentano il sacrificio per la festa del Tempio. Infine si beve vino, simbolo della gioia.

«La festa delle settimane o Pentecoste ebraica (Shavout)» si celebra in maggio-giugno, a ricordo della Rivelazione della Legge sul Sinai. Nella sinagoga viene data lettura dei Dieci Comandamenti e del Libro di Rut. Il pasto consiste, principalmente, di frutta, pesce e piatti leggeri a base di latte, come torte di formaggio e omelette. L’origine di tale usanza risale al momento in cui gli Ebrei, sul Sinai, dopo aver ricevuto la Torah, che proibiva di mangiare allo stesso tempo carne e latticini, scelsero di astenersi dalla carne.

È interessante ricordare il personaggio leggendario dell’Ebreo Errante, il quale, secondo la tradizione, sarebbe stato condannato da Gesù ad errare, eternamente, per il mondo con nella borsa cinque monete che continuamente si rinnovano. Il motivo si ricollega ad antichissime leggende: l’eterna vita fisica data come premio o punizione, leggende derivate da interpretazioni di testi biblici. Ad una eternità di punizione si ricollega la leggenda dell’Ebreo Errante, che ebbe svariate elaborazioni letterarie. Numerosi sono, anzitutto, i personaggi evangelici o pseudo-evangelici che furono indicati come protagonisti del mito: il soldato Malco, che percosse Gesù, come risulta già da una cronaca del VII secolo; il calzolaio che cacciò Gesù che si era fermato per riposarsi sulla soglia della sua casa; Cartafilo, che percosse anch’egli Gesù, dicendogli: «Cammina, affrettati». La cronaca del convento di Ferraria, nell’Italia Meridionale, narra che nel 1223 alcuni pellegrini, di ritorno dall’Armenia, raccontarono di aver veduto l’Ebreo a cui Cristo, essendone stato percosso, aveva predetto che avrebbe dovuto attenderlo in eterno. Il cronista inglese Roger of Wendower (morto nel 1237) riferisce come un Vescovo armeno, vissuto in Inghilterra, gli abbia raccontato dell’episodio di Cartafilo il quale ogni cento anni crede di morire, ma poi riprende forza e continua il suo pellegrinaggio pentito della sua colpa e con la speranza di essere, un giorno, perdonato.

L’Ebreo Errante è dunque ricordato come un vegliardo che invoca invano la morte nel suo desiderio di pace, nella disperazione di dovere eternamente sopravvivere a se stesso.

(ottobre 2010)

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